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Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 4 mesi 1 settimana fa

Scuola cattolica. Cssc, oltre 7.700 istituti con 530mila alunni. Mons. Giuliodori: “Strategica l’inclusione dei ragazzi disabili”

Sab, 21/10/2023 - 09:02

“È proprio sull’inclusione degli alunni con disabilità che si gioca la partita più delicata per la scuola cattolica perché, da una parte, essa deve essere all’altezza della sua missione e, dall’altra, l’intero sistema nazionale di istruzione non può escludere o penalizzare al suo interno, nella scuola paritaria, proprio i suoi alunni più fragili”.

Mons. Claudio Giuliodori (foto SIR/Marco Calvarese)

Ne è convinto mons. Claudio Giuliodori, presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, che firma la presentazione del XXV Rapporto del Centro studi per la scuola cattolica (Cssc) della Cei. Arrivato puntualmente in libreria, come di consueto nelle prime settimane dell’anno scolastico, il volume, intitolato “Includere la disabilità” (edizioni Scholé) propone quest’anno un’approfondita panoramica sulla presenza degli alunni con disabilità nelle scuole italiane, e in particolare in quelle cattoliche. Il Rapporto verrà presentato il 7 novembre in un webinar in collaborazione con il Servizio nazionale Cei per le persone con disabilità. Appuntamento alle 17 in diretta sul canale YouTube della Cei.

Partire dagli alunni più deboli. “Nella storia della scuola italiana, che pure ha in materia una delle legislazioni più avanzate al mondo, si è passati dall’inserimento all’integrazione e all’inclusione”, osserva ancora mons. Giuliodori. Tuttavia, rimane ancora molto da fare. Soprattutto – una delle tesi sviluppate nel Rapporto – non si può più affrontare il problema in maniera settoriale, ma ripensando l’intera scuola e la sua organizzazione a partire dagli alunni più deboli. “Se vogliamo provare a riassumere in un concetto sintetico il contenuto di questo Rapporto – afferma nella conclusione del volume Sergio Cicatelli, coordinatore scientifico del Cssc – il messaggio principale è quello di

raccogliere la sfida dell’inclusione e farne l’occasione per cambiare decisamente il nostro modello di scuola.

Siamo infatti ancora legati all’idea della scuola-apparato, in cui la dimensione burocratica e organizzativa prevale su quella educativa”. Insomma, la sfida dell’inclusione “non è solo un adempimento formale o un impegno di politica sociale. È l’occasione per ripensare la nostra idea di scuola e ricostruirla su basi nuove”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Esperienze pilota. Il Rapporto non si limita a esaminare l’argomento nella sola scuola cattolica, anche se propone una breve rassegna di esperienze pilota sviluppate in gran parte di queste scuole. Il tema viene trattato in tutti suoi aspetti: dalle scelte di politica scolastica all’analisi della legislazione e della giurisprudenza, dai contributi della ricerca pedagogica alle prospettive di vita dell’alunno con disabilità al di fuori della scuola, dall’identità dell’insegnante di sostegno al ruolo di tutti gli altri insegnanti. Con una necessaria precisazione, spiega Cicatelli: “In Italia possiamo distinguere sostanzialmente tre diverse aree: quella della disabilità certificata, quella del disturbo specifico di apprendimento (Dsa) e quella del bisogno educativo speciale (Bes). Ognuna di esse comporta un diverso approccio da parte della scuola”.

I numeri. Dall’appendice statistica curata da Cicatelli – che come di consueto completa il Rapporto – si evince che nel 2022-23 le scuole cattoliche in Italia sono in tutto 7.713, cioè 116 in meno rispetto all’anno precedente; il 59% al nord, il 15% al centro, il 26% al sud. Gli alunni sono complessivamente 530.690, anche in questo caso con una perdita di 11.390 unità. Il settore in maggiore difficoltà è la scuola dell’infanzia, che perde 62 scuole e 8.073 bambini, mentre la secondaria di II grado è l’unico livello in cui si registra un aumento di oltre 1.000 studenti, nonostante la scomparsa di 32 scuole. Gli insegnanti di ogni ordine e grado sono complessivamente 53.653.

All’interno di tutto il sistema nazionale di istruzione i disabili certificati sono da alcuni anni più di 300mila (oltre il 4% del totale), cui corrispondono circa 200mila insegnanti di sostegno (un quarto di tutti i docenti). Nelle scuole cattoliche si registra un’analoga crescita, anche se in misura minore per via dei costi che le famiglie devono sostenere: nel 2022-23 si è comunque arrivati a una media dell’1,9% di alunni con disabilità (in tutto 10.127), con punte del 2,5% nella primaria e del 2,4% nella secondaria di I grado. Cresciuti in proporzione anche gli insegnanti di sostegno, assicurando in media poco più di un docente ogni due disabili. “Il confronto – si legge nel Rapporto – è negativo solo per la disabilità certificata (che comporta le spese per l’insegnante di sostegno), mentre i casi di Dsa e di Bes (che non richiedono impegni di spesa ma solo attenzione educativa) sono proporzionalmente più numerosi nelle scuole paritarie e in particolare in quelle cattoliche, a testimonianza di una qualità del servizio che viene senz’altro ricercata e apprezzata dalle famiglie”. Secondo i curatori dell’indagine,

“se non ci fossero costi aggiuntivi, molto probabilmente anche il numero degli alunni disabili sarebbe molto più alto nelle scuole cattoliche, a conferma di una limitata libertà di scelta educativa”.

Sinodo. Mons. Kikuchi (Tokyo): “La sinodalità non è uniformità”

Ven, 20/10/2023 - 16:45

“La sinodalità non è uniformità, è camminare insieme nelle nostre rispettive culture”. A precisarlo è stato mons. Tarcisio Isao Kikuchi, arcivescovo di Tokyo, durante il briefing odierno in sala stampa vaticana sul Sinodo sulla sinodalità, in corso in Aula Paolo VI fino al 29 ottobre. “Quando siamo a Roma parliamo usando una terminologia universale, ma dobbiamo ricordarci che una soluzione non necessariamente va bene per tutti”, ha sottolineato il presule, precisando che tra gli asiatici la sinodalità è una pratica già esercitata: “In Asia abbiamo moltissime lingue diverse, non possiamo utilizzare un’unica soluzione per camminare insieme: ci aspettiamo che le comunità locali siano rispettate, quando si parla di sinodalità nella Chiesa cattolica”. A descrivere la sinodalità sperimentate in Africa, in una parrocchia rurale, nei primi anni da suora, è stata suor Mary Teresa Barron, presidente dell’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg): “Il mio ruolo era quello di accompagnare i gruppi di giovani e di donne nella parrocchia: ho vissuto un’esperienza sinodale prendevano le decisioni insieme con i laici. Tante persone hanno deciso di abbracciare la fede da adulti per poi diventare missionari in modo consapevole”. “L’esperienza che sto vivendo qui al Sinodo mi riporta all’Africa orientale”, ha rivelato suor Barron: “Ci ritrovavamo ogni domenica in una capanna di fango, in seduti in circolo per condividere la nostra fede e chiederci come vivere la fede nella comunità per poi agire di conseguenza. Molte persone non avevano istruzione, condividevamo la fede nel profondo del cuore e decidevamo insieme, ogni voce aveva lo stesso peso. Questo ho vissuto nei Circoli Minori: non importa chi ci sia nei tavoli, il nostro amore per Cristo ci ha chiamato a fare questa esperienza di Chiesa. “Dobbiamo ascoltare di più chiese più giovani, emergenti, che hanno ancora la partecipazione alla base della vita della Chiesa”.

“Il tema che ci vede tutti uniti è quello sinodalità. Per quanto riguarda i temi specifici di cui si è parlato, non credo che ci si esprimerà in questa fase o prima del 2024, e non sono neanche sicuro che accadrà nel 2024”.

Mons. Gintaras Grušas, presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee), ha risposto così alle domande dei giornalisti su quali siano i temi del Sinodo in cui si può già dire che si sia registrata una convergenza, o si prevede si prenderà qualche decisione. “Se cresciamo nella sinodalità, la sinodalità farà parte della vita di tutti”, ha affermato il presule, precisando che

“il Sinodo non sta cercando di prendere decisioni su temi dottrinali o dogmatici. Ognuno ha la possibilità di fare le proprie esperienze ed esprimere liberamente le proprie opinioni. Non c’è un preconcetto sull’esito di questo Sinodo: qui il processo è più importante delle conclusioni”.

Sulla stessa linea suor Houda Fadoul, siriana, originaria della Chiesa greco-cattolica, che ha testimoniato: “Nonostante i temi, la cosa più importante è la metodologia che stiamo imparando ad esercitare: come si può ascoltare l’altro, come capire cosa dice l’altro per condividerlo nella preghiera, senza pregiudizi. L’ascolto è la parola chiave per la nostra vita religiosa”.

“Ci sono opinioni diverse, ma discutiamo di questi temi”. Suor Barron ha risposto così ad una domanda su come si sia affrontato in Aula Paolo VI il tema del diaconato femminile. “Non importa quello che penso io, è più importante quello che pensa il Sinodo”, ha precisato la religiosa: “la questione è sul tavolo, il Sinodo deve discernere insieme su queste questioni”. Per suor Fadoul, “è più importante che un uomo o una donna prenda coscienza del proprio rispettivo ruolo nella Chiesa: in Siria lavoriamo insieme con i sacerdoti e i diaconi, ed è un’esperienza molto bella. Credo che il concetto di complementarità sia molto importante per qualsiasi questione riguardi il ruolo della donna all’interno della comunità ecclesiale”. “Al Sinodo la discussione è molto più ampia”, ha fatto notare Grušas: “Non si può ridurre ad un sì od un no al diaconato femminile. Il dibattito sui nuovi ministeri fa parte di uno scambio molto ampio, nell’ambito del tema di fondo: come vivere la Chiesa in un modo diverso, con un dialogo migliore. Vivere la sinodalità significa sperimentare e trovare un processo nuovo, piuttosto che dire sì o no ad una specifica proposta”. “Ci sono differenze a livello di opinione”, ha confermato mons. Kikuchi, secondo il quale “ciò che significano alcune parole dipende dal background personale. Ci sono grandi differenze, ma è troppo presto prendere una decisione in questa fase”. Al centro delle Congregazioni di ieri e di stamattina – la tredicesima e la quattordicesima – c’è stato l’esame del Modulo B3 dell’Instrumentum laboris, dedicato alla questione dell’autorità nella Chiesa. Ieri – ha riferito Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e presidente della Commissione per l’Informazione, erano presenti 341 persone – su 365 membri del Sinodo con diritto di voto – mentre oggi 343.

Terremoto in Siria e Turchia. Caritas Italiana, un dossier per “Non Dimenticare”

Ven, 20/10/2023 - 14:52

Oltre cinquantasette mila morti e circa 120 mila feriti: a quasi nove mesi dal sisma del 6 febbraio scorso, Caritas Italiana pubblica oggi il “Dossier Terremoto Siria – Turchia 2023”. Un modo per ricordare, da un lato, tutte le vittime rimaste sepolte dalla furia del sisma e dalle macerie delle città distrutte, e dall’altro, l’impegno senza sosta delle Chiese e delle Caritas locali sul terreno. Nel Dossier si fa luce anche sull’operato di Caritas Italiana nei due Paesi nell’immediato post-emergenza e sul lavoro di supporto e coordinamento con Caritas Siria e Turchia, con cui Caritas Italiana collabora e progetta da anni.

Non passare oltre. “Attraversando i luoghi colpiti dal terremoto, incontrando i volti, ascoltando le storie, ho toccato con mano le sofferenze e le ferite di tante famiglie, di persone che continuano a sperimentare ogni giorno precarietà e disperazione”, racconta don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana. “Troppo spesso vediamo e passiamo oltre, dimentichiamo. È necessario invece tenere lo sguardo sulle popolazioni della Siria e della Turchia, che già prima dell’emergenza sismica vivevano in situazioni difficili e in contesti critici. Il presente dossier ha, tra i suoi obiettivi, proprio quello di accendere una luce sull’indifferenza”.

Aleppo (Foto Caritas Siria)

Alcuni numeri. Dal Dossier emerge che i morti in Turchia sono stati oltre 50 mila e 107 mila i feriti. Sono 658 mila i lavoratori che, in seguito al sisma, non sono più in grado di guadagnarsi da vivere, 2,4 milioni le persone che vivono ancora in alloggi temporanei, e 800 mila in tende e container. A livello di danni strutturali si contano 311 mila edifici inabitabili e 156 mila da demolire. Il conflitto e il terremoto hanno impattato duramente anche sulla popolazione siriana, e in particolare sulla componente cristiana che, pur essendo tra le meno vulnerabili dal punto di vista finanziario, affronta da oltre un decennio una sfida complessa per la sua stessa sopravvivenza in Siria. L’emigrazione rappresenta un pericolo concreto e minaccia l’esistenza dei cristiani in Siria che fino ad oggi è stata depauperata di quasi il 70% della sua comunità originaria. Dal dossier emerge che il sisma ha aggravato la situazione della popolazione che già vedeva il 90% delle famiglie incapace di soddisfare i propri bisogni primari, il 60% lamentava la mancanza di prodotti alimentari, il 52% la mancanza di elettricità e il 46% aveva bisogno di assistenza. Inoltre, le devastazioni causate dalla guerra hanno determinato lo sfollamento di 13,4 milioni di siriani e il terremoto ha colpito più duramente proprio i quartieri urbani maggiormente afflitti dalla povertà e con carenze di infrastrutture. Per esempio, da febbraio, nella sola Aleppo, sono crollati 1.700 edifici e altri 13.200 sono stati evacuati per necessità di interventi strutturali. In Siria, da febbraio la Caritas italiana, con i suoi partner locali, ha assistito 9680 famiglie (tra Aleppo, Lattakia, Hama e Homs), con 4336 pacchi alimentari, 2950 pacchi di acqua potabile, 750 materassi, 736 coperte, 4586 kit di igiene personale, e 1400 pacchi di pannolini per anziani e bambini.

(foto diocesi Cerignola-Ascoli Satriano)

L’impegno di Caritas Italiana. La presenza e l’impegno di Caritas Italiana continuano e vanno oltre l’emergenza. In Turchia Caritas Italiana è impegnata con la Chiesa locale in attività che vanno dall’aiuto umanitario di urgenza (distribuzione di aiuti umanitari, fornitura di beni di prima necessità, accoglienza dei terremotati sia direttamente nelle strutture della Chiesa locale sia attraverso contribuiti per gli affitti e le utenze di famiglie sfollate) alle attività che favoriscono l’accesso ad acqua potabile e igiene, dalle attività di supporto psicosociale per adulti e minori a progetti per il sostegno al reddito e al lavoro per la popolazione più vulnerabile, educazione professionale e sviluppo di attività generatrici di reddito, dall’educazione sia formale sia informale (incluse le minoranze) alla riabilitazione e ricostruzione, dalla salute e benessere delle fasce più vulnerabili al sostegno e mobilitazione della comunità locale. Analogo impegno in Siria, in particolare nella regione del Nord ovest del Paese, che ha subito i danni maggiori del terremoto, e che è quella dove il conflitto è stato più drammatico e dove ancora si combatte. L’intervento pianificato ad oggi comprende: aiuto umanitario di urgenza; ricostruzione e riabilitazione del tessuto abitativo ed economico post-sisma; assistenza sanitaria di base e chirurgia di urgenza post-sisma; progetti di ricostruzione post-bellica; assistenza medica post-bellica; cucine popolari; progetto “Come fiori tra le macerie”: un centro giovani per la pace e riconciliazione, a Damasco, sorto dalla collaborazione tra Caritas Italiana e Caritas Siria, che offre percorsi per favorire il dialogo attraverso la formazione, laboratori di artigianato e attività aggregative. Ad oggi il centro è stato frequentato da più di 200 ragazze e ragazzi, di diversa appartenenza politica e religiosa.

(Foto Caritas Siria)

Grande solidarietà. Grande la solidarietà della popolazione italiana che ha affidato alla Caritas risorse, in parte già spese e impegnate. La Cei ha dato subito un contributo di 1,5 milioni di euro. Questi fondi consentiranno di finanziare gli interventi già previsti e quelli da programmare nei prossimi mesi e anni. Le progettualità di Caritas Italiana prevedono anche la presenza, nei prossimi anni, di operatori in loco, che lavoreranno a fianco delle Caritas locali. In totale i fondi raccolti in Italia per i due Paesi sono stati in totale 11,822 milioni di euro di cui 1,5 milioni dalla Cei.

Libano. Fady Noun (Beirut): “Sono ore drammatiche, il punto chiave sarà l’attacco via terra su Gaza”

Ven, 20/10/2023 - 11:50

“Sì, sono ore drammatiche. Ore di incertezza. Il punto chiave oggi è l’attacco su Gaza. Se Israele dà inizio alle operazioni di terra, ci saranno ripercussioni sull’intera regione”. Fady Noun, giornalista indipendente di Beirut, descrive così al Sir quanto il Paese sta vivendo in queste ore con il fiato in sospeso quanto sta accadendo nel vicino Israele e Gaza. “I libanesi non vogliono assolutamente entrare in guerra”, ripete il giornalista. “Stiamo già vivendo una crisi economica molto seria”. Le cifre sono drammatiche: negli ultimi 4 anni, il Libano ha registrato una contrazione del Pil pari al 40%, un debito pubblico che ha raggiunto il picco del 280% e una moneta nazionale svalutata del 98%. “Con il rincaro dei prezzi, aumentano i libanesi che vivono al di sotto della soglia di povertà”, racconta Noun. All’economia in caduta libera si aggiunge un’endemica crisi politica. “È passato già un anno e siamo ancora senza un Presidente della Repubblica perché non c’è una maggioranza parlamentare sufficiente per eleggerlo. E questa situazione comporta un colpo duro alla democrazia”.

Prima il Canada e il Regno Unito, poi l’Arabia Saudita, quindi gli Stati Uniti e la Germania. La raccomandazione che viene lanciata in queste ore dalle ambasciate ai propri concittadini è unanime: “Lasciare immediatamente il Libano”. “Il fatto che i Paesi chiedano ai loro cittadini di lasciare il Libano aumenta la paura di una deflagrazione a vasto raggio del conflitto”, osserva Fady Noun. Grande preoccupazione ha generato in Libano anche la notizia che Israele ha ordinato l’evacuazione degli abitanti di Kiryat Shmona, una città settentrionale vicina al confine con il Libano. Lo ha comunicato il ministero della Difesa israeliano. Kiryat Shmona conta oltre 20.000 abitanti e si trova a circa due chilometri di distanza dal confine. Segno di una tensione sempre più alta. Insomma, a preoccupare – spiega Noun – sono i 315 km di confine che separano Israele dal Libano. Un territorio nevralgico, anche perché è lì che sono dispiegate le forze di Hezbollah, entità del tutto indipendente dalla volontà del governo libanese che agisce in modo autonomo prendendo ordini da Teheran. Dal 7 ottobre, le operazioni militari in Libano si sono limitate a scambi di artiglieria in aree quasi interamente evacuate dalla popolazione civile e fino ad oggi “l’impegno militare di Hezbollah è stato piuttosto una forza di deterrenza più che di invasione o aggressione”. “Per il momento è così”, ripete il giornalista. “Ma non sappiamo come potrà evolversi la situazione. Tutto dipenderà da un’invasione terrestre su Gaza. Se ciò dovesse accadere, il fronte prenderà completamente fuoco. Tutti i libanesi sperano che ciò non accada”.

Le Chiese cristiane in Libano sono tutte unite alle Chiese cristiane del Medio Oriente ed esprimono in maniera unanime “una posizione per la pace contro la guerra chiedendo una soluzione negoziata al conflitto”. E’ risuonato anche qui l’appello del card. Pizzaballa e il Libano ha aderito alle Giornata nazionale di preghiera e digiuno del 17 ottobre. Ma nello stesso tempo sono rimbalzate anche qui le notizie prima dell’attacco all’ospedale anglicano di Gaza e questa notte alla chiesa greco-ortodossa. Tutte queste situazioni – ci spiega il giornalista libanese – sono collegate tra loro. Significa che ciò che accade a Gaza ha un’influenza e un impatto immediato anche sul Libano. “La questione chiave – insieme Noun – è l’invasione di terra su Gaza. Ogni giorno viene annunciata e se dovesse succedere ne risentirebbe tutto, tutto, tutto il Medio Oriente. Il Medio Oriente è in un univo destino, soprattutto i paesi che confinano con Israele, dal Libano alla Giordania, all’Egitto”.

Lebanon. Fady Noun (Beirut): “Dramatic hours, the ground offensive on Gaza is the critical factor”

Ven, 20/10/2023 - 11:50

“We are facing dramatic hours. Hours of uncertainty. The decisive issue today is the attack on Gaza. If Israel launches a ground operation, there will be repercussions throughout the region.” In an interview with SIR, Fady Noun, an independent journalist based in Beirut, describes how the country is living through these hours of tension over what is happening in neighbouring Israel and Gaza. “The Lebanese people have no intention of going to war,” he says. “We are already facing a very serious economic crisis. The figures are dramatic: in the last four years, Lebanon’s GDP has fallen by 40 per cent, public debt has peaked at 280 per cent and the national currency has depreciated by 98 per cent. “With rising prices, the number of Lebanese living below the poverty line is increasing,” says Noun, adding that the free-falling economy is coupled with an endemic political crisis. “A year has passed and we are still without a president of the republic because there is no parliamentary majority to elect him. And this situation is a serious blow to democracy.”

First Canada and the United Kingdom, then Saudi Arabia, followed by the United States and Germany. The embassies are unanimous in urging their citizens to leave Lebanon immediately. “The fact that countries are advising their citizens to leave Lebanon increases the fear of a large-scale escalation of the conflict,” notes Fady Noun.

The news that Israel has ordered the evacuation of the residents of Kiryat Shmona, a northern town near the border with Lebanon, has caused great concern in Lebanon.

It was announced by the Israeli defence ministry. Kiryat Shmona has a population of over 20,000 and is about two kilometres from the border. It is a sign of growing tension. In short, it is the 315-kilometre border that separates Israel from Lebanon that is of concern,” explains Noun. This is a strategic area, not least because of the presence of the armed forces of Hezbollah, an organisation completely independent from the Lebanese government, which acts autonomously and takes its orders from Tehran. Since October 7, military operations in Lebanon have been limited to artillery exchanges in areas almost entirely evacuated by the civilian population, and until now “Hezbollah’s military engagement has been a force of deterrence rather than one of invasion or aggression.”

“That was the situation until today,” the journalist remarked. “But we don’t know how things are going to develop. Everything will depend on a ground invasion of Gaza. If that occurs, the entire front will ignite. All the Lebanese people are hoping that this will not happen.”

The Christian Churches in Lebanon stand united with the Christian Churches in the Middle East and unanimously expressed their “commitment for peace against war”, calling for “a negotiated solution to the conflict.” Cardinal Pizzaballa’s appeal was echoed in Lebanon, which observed the National Day of prayer and fasting, on October 17. At the same time, news of last night’s attack on the Anglican hospital in Gaza and the Greek Orthodox church reached Lebanon. “All these situations,” said the Lebanese journalist, “are interrelated. It means that what happens in Gaza has a direct impact and influence on Lebanon.” “The key issue – said Noun – is the ground invasion of Gaza. It’s being announced on a daily basis, and if it were to happen, it would affect the entire Middle East”, he said. “The Middle East shares a common destiny, especially the countries that border Israel, from Lebanon to Jordan to Egypt.”

Alla Festa del Cinema “Diabolik. Chi sei?” dei Manetti bros. e il survival movie “The End We Start From”

Ven, 20/10/2023 - 10:29

Storie di donne coraggiose, che fanno la differenza, anche nel secondo giorno della Festa del Cinema di Roma. Dopo il film di apertura “C’è ancora domani”, ritratti femminili forti e incisivi ricorrono nel poliziesco “Diabolik. Chi sei?” e nel survival movie “The End We Start From”. Nello specifico, con “Diabolik. Chi sei?” i Manetti bros. completano la loro trilogia omaggio al fumetto cult delle sorelle Giussani, esplorando lo sfondo socioculturale dell’Italia anni ’70 e al contempo andando a caccia delle radici identitarie del ladro. Un racconto dove a trainare la scena sono i due personaggi femminili Eva Kant e Altea, rispettivamente Miriam Leone e Monica Bellucci. Nel cast anche Giacomo Gianniotti, Valerio Mastandrea e Lorenzo Zurzolo. Un divertissement poliziesco per un pubblico di appassionati. Ancora, ci parla di un domani neanche troppo distopico “The End We Start From”. È l’opera prima di Mahalia Belo, dal romanzo di Megan Hunter, che racconta le fatiche di una neomamma in una Londra assalita da piogge fuori controllo; un disastro climatico che fa saltare sistema e regole sociali, generando incertezza e violenze. Il film poggia sulla coinvolgente prova di Jodie Comer. Il punto Cnvf-Sir.

“Diabolik. Chi sei?”
I fratelli Antonio e Marco Manetti, in arte Manetti bros., completano la loro trilogia dedicata ai fumetti cult “Diabolik” delle sorelle milanesi Angela e Luciana Giussani. L’avventura traspositiva del re del terrore è iniziata nel 2021 con “Diabolik” (protagonista Luca Marinelli), tratteggiandone la figura e il legame con Eva Kant; l’anno successivo è arrivato “Diabolik. Ginko all’attacco!”, dove la prospettiva narrativa è quella dell’ispettore Ginko (e a indossare la maschera del ladro è Giacomo Gianniotti). Ora con “Diabolik. Chi sei?” l’attenzione è rivolta al passato di Diabolik, alla sua infanzia e alla formazione al crimine. A firmare il copione sono i Manetti bros. e Michelangelo La Neve. Il film sarà nelle sale dal 30.11 con 01 Distribution.
La storia. A Clerville, Diabolik ed Eva Kant stanno progettando il loro prossimo colpo, un furto di preziosi in una banca. Tutto è studiato al millimetro, ma qualcosa all’ultimo va storto: una banda di criminali fa irruzione contestualmente e ruba ogni cosa. Diabolik ed Eva Kant non si rassegnano e si mettono sulle tracce dei rapinatori, ma lo stesso fa anche l’ispettore Ginko…

(cop. 01 Distribution)

“Dopo due film – raccontano i registi – e qualche anno di completa dedizione al nostro antieroe preferito, abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di prendere il toro per le corna e di far diventare un film il mitico albo del ’68. […] Abbiamo cercato, ancora una volta, di essere fedeli al lavoro delle sorelle milanesi, cercando semplicemente di trasferire al cinema la suggestione dalla pagina disegnata. ‘Semplice’ non vuol dire ‘facile’, ma questo è l’obbiettivo che ci siamo prefissati”. I due autori romani, che hanno trovato grande popolarità con titoli come “Song’e Napule” (2013) e “Ammore e malavita” (2017), completano ora il loro viaggio narrativo nelle pagine dei fumetti delle sorelle Giussani tratteggiando a tuttotondo il personaggio di Diabolik. Oltre al lungo flashback sugli anni giovanili (dove a vestire i panni del giovane ladro è Lorenzo Zurzolo), il film si radica nel decennio ’70, che rivive con abiti, scenografie ma anche ritmo e stile di racconto.
Al di là della polarizzazione tra crimine e giustizia, tra Diabolik e Ginko, a occupare la scena sono le figure femminili: Eva Kant, partner professionale e sentimentale di Diabolik, e Altea, nobildonna amata da Ginko. A loro spetta ristabilire il controllo dell’azione, laddove i due uomini finiscono in un pericoloso stallo vittime della loro impulsività. Chi invece ribadisce lucidità sono proprio le due protagoniste, affidate al fascino di Miriam Leone e Monica Bellucci.
Nell’insieme “Diabolik. Chi sei?” risulta un’opera grintosa e ben curata, sorretta da un’evidente passione da parte dei Manetti bros.; il film è un thriller poliziesco dai riverberi ironici arricchito di citazioni cinematografiche e camei ben cesellati (tra cui Max Gazzè, Carolina Crescentini, Paolo Calabresi e Barbara Bouchet). Un’opera che si gioca tra tensione ed evasione, adatta soprattutto agli amanti dei fumetti delle Giussani, capaci di coglierne retroterra e riferimenti. Consigliabile, problematico.

“The End We Start From”
Dopo alcune miniserie, la regista britannica Mahalia Belo dirige il suo primo lungometraggio cinematografico. È “The End We Start From”, adattamento dell’omonimo romanzo di Megan Hunter del 2017. A produrre l’opera, targata Bbc, sono Benedict Cumberbatch e Jodie Comer. Dopo la prima al Toronto Film Festival, alla Festa di Roma passa in cartellone nella sezione Grand Public.
La storia. Londra oggi. Una donna incinta, prossima al parto, è sola in casa mentre fuori batte una pioggia infernale. L’acqua non smette di cadere, al punto da allagare ogni strada e abitazione. In questo scenario fosco la giovane madre dà alla luce il suo bambino, Zeb. Lei e il compagno, una volta riuniti, provano a trovare riparo fuori dalla città, ma ovunque si dirigano incontrano allagamenti, mancanza di viveri e sfoghi di violenza…

(The End We Start From – Official still)

Non è propriamente un film distopico, su un domani lontano. I cambiamenti climatici cui assistiamo oggigiorno appaiono infatti molto vicini allo scenario in cui si snoda la storia raccontata da “The End We Start From”. L’opera corre veloce tra road movie e survival movie; in verità oltre all’avventuroso e disperante viaggio per la salvezza, il racconto si fa anche introspettivo, percorrendo i tornanti dell’animo della protagonista, tra traumi del passato e sfide del suo immediato presente: custodire la creatura che ha appena messo al mondo e tenere unita la propria famiglia.
Un film che dalle premesse potrebbe apparire fosco, respingente, in verità coinvolge con grande intensità per il ritratto di questa giovane madre in balia di un mondo che perde le ascisse e ordinate, in cui le regole sociali saltano. Questa donna cerca di rimanere ancorata a terra, aggrappandosi a una speranza di futuro possibile. Oltre ai toni lividi, necessari per la contestualizzazione realistica della storia, il film regala qua e là anche lampi luminosi, pagine segnate da una certa eleganza visiva.
“The End We Start From” ci mostra la storia di una donna, di più donne, che provano ad arginare la disperazione di un mondo che si è capovolto improvvisamente. Come in un contesto bellico, le donne pragmaticamente portano avanti la società che ha smarrito la bussola, in attesa di tempi migliori. Gli uomini appaiono più fragili oppure latitano del tutto.
La prova interpretativa di Jodie Comer – attrice vista e apprezzata nelle serie “Doctor Foster”, “Killing Eve” e nel film “The Last Duel” (2021) – è notevole, di grande intensità, convincente soprattutto per come lavora a livello espressivo e introspettivo. Ottime poi le interpretazioni di Joel Fry, Katherine Waterston, Gina McKee, Mark Strong e Benedict Cumberbatch. “The End We Start From” è un film intenso, dolente, da non relegare solo nel confine del film di genere, perché capace di offrire suggestioni interessanti sul nostro presente. Complesso, problematico, per dibattiti.



La missione di strada di Nuovi Orizzonti per le vie di Roma, abbracciando i giovani e le loro difficoltà nel segno dell’amore

Ven, 20/10/2023 - 10:23

È iniziata il 14 ottobre e terminerà domenica 22 ottobre la missione di strada “Vivi per qualcosa di grande” dell’Associazione internazionale Nuovi Orizzonti, impegnata a Roma nell’incontrare le persone nei diversi ambienti della società per conoscerle e scoprire eventuali situazioni di disagio, dipendenze, emarginazione e abbandono, accompagnandoli in un cammino di riscatto. Sono oltre 400 i giovani impegnati, provenienti da tutta l’Italia ma anche dal Brasile e dalla Bosnia-Erzegovina, di cui una parte appartenenti ad altre 9 diverse associazioni e comunità. Carceri, scuole, università, ospedali, ma anche strade e piazze, questi i luoghi dove i giovani missionari stanno incontrando i loro coetanei ma anche persone più adulte, portando la loro esperienza come testimonianza e abbracciando le difficoltà di chi incontrano nel loro cammino. L’organizzazione di tutto si è stabilita nella parrocchia di San Giuseppe Cottolengo, nella zona Valle Aurelia di Roma, dove i partecipanti hanno mensa e dormitorio, e dove vengono coordinate le attività che prevedono esperienze all’esterno, ma anche formazione, preparazione per la missione e momenti di condivisione tra loro, dove chiunque può riportare la propria esperienza perché diventi ispirazione anche per gli altri.

“Siamo in tanti, in più di 700mila in tutto il mondo, a voler testimoniare che l’amore vince, che l’amore ha fatto miracoli, l’amore ha vinto la morte e noi siamo una testimonianza viva. Perché tanti di questi ragazzi vivevano nelle piovre della droga, della prostituzione, della schiavitù, della devianza e, grazie all’incontro, all’esperienza dell’amore di Dio, di Cristo risorto, oggi possiamo dire che siamo risorti anche noi”. Le parole di Chiara Amirante, fondatrice e presidente di Nuovi Orizzonti, intervenuta in piazza del Popolo a Roma per fare festa con tutti gli altri, accompagnando chi incontravano nella vicina basilica di Santa Maria in Montesanto (Chiesa “degli Artisti”) per un momento di raccoglimento e preghiera personale davanti al Santissimo. “Vogliamo vivere per qualcosa di grande, vogliamo lasciarci interpellare dalle grandi sfide che oggi il nostro mondo ci presenta con prepotenza. Abbiamo la certezza che ognuno di noi è una piccola goccia, ma quella goccia unita ad altre gocce può fare la differenza, può cambiare la storia e allora insieme a voi vogliamo portare avanti questa rivoluzione dell’amore”, la conclusione di Amirante alle quali fanno eco le parole di Valentina Cason, responsabile area evangelizzazione prevenzione e sensibilizzazione della comunità Nuovi Orizzonti, da 15 anni impegnata in questa esperienza che confessa di aver dato un senso alle parole felicità, pienezza, verità e autenticità, portandola ad incontrare i giovani ed ascoltarli, non per dare loro risposte ma per condividere la sua storia.

“Quello che vedo è che a volte, semplicemente davanti a un ‘come stai’ e nell’ascoltare le loro risposte, già in questo le persone si sentono accolte e amate e vedo che i cuori si aprono veramente. Le persone hanno sete, hanno bisogno di essere ascoltate, ma soprattutto i ragazzi hanno bisogno di essere amati, lì dove stanno e soprattutto nella loro verità, a volte nelle loro ferite, nella loro rabbia, nella loro ricerca, hanno bisogno di sentirsi amati e accolti lì dove sono”. Dichiara Cason che negli anni ha visto la società divenire sempre più liquida, con i ragazzi ancora più disorientati e confusi da una società senza confini e senza punti di riferimento, come ad esempio gli adulti, dove è difficile chiedere aiuto perché la debolezza è vista come un fattore negativo che sminuisce il valore della persona.

“Mi ha colpito un ragazzo tossicodipendente al quale quando ho chiesto cosa gli sarebbe servito in passato, forse per non avere un’esperienza così, mi ha detto: un padre che mi dicesse più no”,

le conclusioni di Valentina Cason.

“In seconda liceo ho avuto un tumore e, grazie all’aiuto dei miei genitori e di tante persone che mi sono state vicino e che mi hanno fatto sentire quanto Dio non mi aveva abbandonato nella mia malattia e mi era stato accanto, è nata la voglia di portare agli altri questo la mia esperienza dell’amore di Dio che non ti abbandona, neanche nel dolore”. Questa l’esperienza di Francesco, 21enne di Milano, dopo aver vissuto la sua missione in uno degli ospedali della capitale, “nella mia vita cerco la felicità e sto cercando di capire come realizzare i miei sogni, i miei talenti. Sono sicuro che Dio fa il tifo per me e questo amore che mi ha fatto rinascere, mi può aiutare a trovare la mia strada e a realizzare il mio sogno nel mondo e a trovare il mio posto nel mondo”.

Nuovi Orizzonti opera da 30 anni, durante i quali sono state create più di 1000 equipe di servizio impegnate in molte azioni di solidarietà in Italia e all’estero e un servizio costante in particolare nella diocesi di Roma, Sono stati creati oltre 200 centri e 6 Cittadelle Cielo in tutta Italia e all’estero, per accogliere e sostenere chi ne ha bisogno anche attraverso la “Spiritherapy”, che negli ultimi 3 anni ha raggiunto 40mila persone in più di 80 Paesi nel mondo. Tra i 700mila “Cavalieri della Luce” c’è anche Francesca, giovane universitaria siciliana che vive la sua esperienza nella cittadella di Belluno, “Mi ha cambiato completamente la vita, prima ero uno zombie che camminava e adesso vivo la mia vita con la pienezza, consapevole delle mie scelte e soprattutto con un cuore nuovo, un cuore capace di amare veramente e capace di essere quello che sono veramente, senza aver paura di giudizi, aspettative degli altri, ma essendo me stessa in ogni momento”.

Striscia di Gaza. Antone (Caritas Gaza): “Priorità è sopravvivere, ricostruiremo le nostre case”

Ven, 20/10/2023 - 10:09

“La situazione a Gaza è terrificante: macerie ovunque, strade interrotte, non c’è elettricità, non c’è acqua, non c’è cibo. Le comunicazioni sono saltate, anche la rete internet eccetto che in alcune zone. L’esercito israeliano spara ad ogni cosa, fabbriche, negozi, abitazioni, persone anche agli animali”. Mentre parla con il Sir dalla parrocchia latina della Sacra Famiglia di Gaza, dove si trova con la sua famiglia, George Antone, direttore amministrativo di Caritas a Gaza, invia – a mezzo social – foto e spezzoni di video per dare ancor più peso alle sue parole.

George Antone (a dx) (Foto Latin Parish)

L’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre scorso, e la conseguente, durissima, reazione dell’esercito israeliano, ha fatto ripiombare la popolazione gazawa nell’incubo, mai sopito, della guerra. Da quando si è ritirato da Gaza nel 2005, Israele ha già combattuto ben quattro guerre con i terroristi di Hamas, nel 2008, 2012, 2014 e 2021. Questa è la quinta che sta mietendo un numero impressionante di vittime e feriti da ambo le parti, come mai accaduto fino ad oggi. A rendere ancora più incandescente la situazione sul terreno l’ultimatum di Israele alla popolazione di Gaza a spostarsi da nord e centro verso il sud della Striscia – in vista dell’offensiva terrestre – e la strage, con centinaia di morti e feriti, all’ospedale anglicano Al-Ahli con rimpallo di responsabilità tra Hamas e Israele. Sin da subito la parrocchia latina ha aperto le porte agli sfollati ed oggi, a due settimane dallo scoppio della guerra, è diventata un presidio di solidarietà e di umanità al quale anche Papa Francesco guarda con attenzione e vicinanza. Più volte il Pontefice ha chiamato direttamente la parrocchia e il parroco, padre Gabriel Romanelli, che a causa della guerra è ancora bloccato a Betlemme e in attesa di rientrare nella Striscia.

Antone, come è la situazione in parrocchia, qual è lo stato d’animo dei fedeli che vi hanno trovato rifugio dalle bombe e dai razzi?
Nella nostra parrocchia cattolica della Sacra Famiglia attualmente accogliamo oltre 500 sfollati cristiani mentre altri 350 sono in quella greco-ortodossa di san Porfirio. Molti hanno perso la casa, il lavoro, i loro negozi sono andati distrutti o parzialmente danneggiati dai bombardamenti. Qui siamo tutti preoccupati, impauriti e confusi, perché non sappiamo cosa potrà accadere in futuro.

(Foto ANSA/SIR)

Come avete reagito alla strage nell’ospedale cristiano al Ahbi, della Chiesa anglicana?
Tutti qui in parrocchia sono rimasti inorriditi da questo ignobile attacco. Abbiamo sempre creduto, e non solo noi, che i luoghi cristiani fossero sicuri perché non coinvolti a livello politico, militare, ideologico. Essi offrono servizi a chiunque, senza distinzioni, sono a servizio della comunità nella sua interezza. Per questo motivo l’attacco all’ospedale al Ahbi ci ha scioccato. Un luogo di aiuto umanitario, come un nosocomio, che non è stato rispettato, profanato. L’ospedale anglicano non faceva altro che curare e assistere le persone, invece è stato attaccato. Un gesto criminale.

Come vi siete organizzati in parrocchia per fronteggiare questa emergenza umanitaria?
Come Chiesa stiamo cercando fare fronte a questa gravissima emergenza cercando di tenere insieme tutte le persone nel compound parrocchiale. Ci sono famiglie, anziani, malati, disabili. Diamo loro, per quanto possibile, acqua, cibo, e un po’ di energia elettrica. Inoltre stiamo cercando di reperire materassi e coperte perché non ne abbiamo a sufficienza per tutti. Cerchiamo di trasmettere loro un po’ di serenità e di sicurezza, nella gravità del momento.

Parrocchia di Gaza (Foto archivio Lpj.org)

In concreto che iniziative avete messo in campo?
Ci siamo organizzati in piccoli team, ognuno con un incarico specifico: grazie a Caritas Gerusalemme abbiamo avviato un piccolo ambulatorio dove diamo medicine, forniamo visite. Un altro gruppo si occupa della cucina, un altro di telecomunicazioni così da avere maggiori possibilità per comunicare. Abbiamo alcune auto della Caritas che servono a trasportare persone, per esempio, in ospedale per visite specialistiche. Uscire dalla parrocchia e andare in giro è pericoloso. Lo facciamo solo per emergenze.

(Foto Latin parish)

Ci sono anche tantissimi bambini. Cosa fate per loro?
Vero, abbiamo molti bambini e ragazzi qui in parrocchia. Essi passano le loro giornate giocando, pregando, studiando nei limiti consentiti dalla situazione. Da parte nostra facciamo il possibile per farli sorridere alleviando loro il peso enorme di questa tragedia.

Hanno avuto una grande eco le telefonate arrivate da Papa Francesco che vi ha espresso vicinanza e preghiera…
Papa Francesco ci chiama spesso per sapere come stiamo e per esprimerci tutta la sua solidarietà e preghiera. Questo ci conforta moltissimo perché non ci sentiamo abbandonati a noi stessi. Riceviamo tanto sostegno umano, spirituale e materiale anche dal patriarca latino, card. Pierbattista Pizzaballa, e da tutta la diocesi patriarcale.

Nei giorni scorsi l’Esercito di Israele ha intimato a tutti gli abitanti del nord e del centro di Gaza di evacuare verso il sud, decisione che dovrebbe precedere l’offensiva terrestre. Voi avete deciso di restare, perché?
Abbiamo deciso insieme al parroco, padre Gabriel Romanelli, e al patriarca, card. Pizzaballa, di restare dentro la parrocchia e non spostarci al sud della Striscia, come intimato da Israele perché questa è la nostra casa, questa è la nostra terra natia. Ogni giorno preghiamo e chiediamo la protezione di Gesù. Siamo certi che ci proteggerà dal male che ci circonda. A Gaza non mancherà mai la presenza cristiana che è un segno di speranza per tutti.

(Foto ANSA/SIR)

Come vede il futuro di Gaza?
Il futuro di Gaza? Pensiamo intanto a sopravvivere e poi quando anche questa guerra sarà finita torneremo a ricostruire le nostre case, la nostra città, i nostri luoghi di lavoro, come abbiamo sempre cercato di fare in questi anni. Fare questo significa anche curare i tanti traumi che questo conflitto sta provocando nei gazawi. Ricostruiremo la nostra città ma adesso, ripeto, dobbiamo pensare a proteggere le nostre famiglie, i nostri bambini. Questa è la priorità. Non sappiamo, infatti, cosa accadrà in futuro.

In mezzo a tanti dubbi e angosce resta solo una certezza che Antone ha ‘postato’ sui suoi social e sono parole di Thomas More: “Non c’è dolore sulla terra che il cielo non possa guarire”.

Gaza Strip. Antone (Caritas Gaza): “Our priority now is to survive. We will rebuild our homes”

Ven, 20/10/2023 - 10:09

“The situation in Gaza is terrible: there is destruction everywhere, the roads are interrupted, there is no electricity, no water, no food… With the exception of a few areas, all telecommunications infrastructure, including the Internet, is out of order. The Israeli army is targeting everything, factories, shops, houses, people, even animals.” George Antone, administrative director of Caritas in Gaza, spoke to SIR from the Catholic parish of Holy Family, where he is sheltering with his family. He posted photos and video clips on social media to substantiate his story.

The Hamas attack on Israel on 7 October and the Israeli army’s harsh response have plunged the people of Gaza back into the never-ending nightmare of war. Since withdrawing from Gaza in 2005, Israel has fought four wars against Hamas terrorists, in 2008, 2012, 2014 and 2021. This is the fifth armed conflict, with an unprecedented number of dead and wounded on both sides. The situation on the ground has been further inflamed by Israel’s ultimatum to the population of Gaza to evacuate from the north and centre of the Strip to the south – in preparation for the ground offensive – and by the massacre at the Al-Ahli Anglican hospital, which left hundreds dead and wounded, with the blame being passed back and forth between Hamas and Israel. The Latin Catholic parish opened its doors to the displaced since the beginning, and today, two weeks after the outbreak of the war, it has become a sanctuary of solidarity and humanity that even Pope Francis looks at with concern and closeness. The Holy Father has made several direct telephone calls to the parish and to the parish priest, Father Gabriel Romanelli, who is currently stranded in Bethlehem because of the war, waiting to return to the Strip.

Antone, what is the situation in the parish and how are the faithful who have sought refuge there from the bombs and rockets?

In our Catholic parish of Holy Family, we are currently hosting over 500 displaced Christians, while another 350 are sheltering in the Greek Orthodox parish of St Porphyrios. Many have lost their homes, their jobs, their shops have been destroyed or partially damaged by the bombing. Everyone here is in a state of anxiety, fear and confusion: we don’t know what is going to happen next.

What was your reaction to the massacre at the Anglican Al Ahbi Christian hospital?

Everyone here in the parish was horrified by this despicable attack. It has always been our belief, and not just ours, that Christian places are safe because they have no political, military or ideological affiliations. They offer services to everyone without distinction, they serve the community as a whole. That is why the attack on Al Ahbi hospital came as such a shock to us. A place of humanitarian service, like a hospital, was desecrated. The Anglican hospital was doing nothing but treating and helping people, instead it was attacked. This is a criminal act.

How have you organised yourselves in the parish to deal with this humanitarian emergency?

As a Church we are trying to cope with this very serious emergency by trying to keep all the people in the parish together. There are families, old people, sick people, people with disabilities. We are providing them with water, food and some electricity as far as we can. We’re also trying to get mattresses and blankets, because we don’t have enough for everyone. We are trying to give them some peace and security in the current difficult situation.

What concrete initiatives have you put in place?

We have formed small groups, each with a specific task: thanks to Caritas Jerusalem, we set up a small outpatient clinic where we distribute medicines and offer medical examinations. We have another group that is in charge of the kitchen, and a third that deals with telecommunications to ensure better communication. Caritas vehicles are available to transport people, for example, to the hospital for a medical check-up. It is dangerous to leave the parish and drive around. We only do so in emergencies.

There are also many children. What are you doing for them?

There are indeed many children and young people here in the parish. They spend their days playing, praying and studying as much as they can. For our part, we do what we can to put a smile on their faces, to relieve them of the enormous burden of this tragedy.

 

The phone calls from Pope Francis, expressing his closeness and his prayers, have had a strong echo…

Pope Francis has called us many times to check on our condition and to express his solidarity and prayers. This is very reassuring for us because we don’t feel abandoned. We also receive extensive human, spiritual and material support from the Latin Patriarch, Card. Pierbattista Pizzaballa, and the entire Patriarchal Diocese.

In the past few days, the Israeli army instructed all residents of northern and central Gaza to evacuate to the south, a decision that supposedly precedes a ground offensive. You decided to remain, why?

Together with the parish priest, Father Gabriel Romanelli, and the Patriarch, Card. Pizzaballa, we decided to stay in the parish and not go to the south of the Strip, as Israel ordered, because this is our home, our homeland. Every day we pray and ask Jesus to protect us. We are sure that he will protect us from the evil that surrounds us. Gaza will never be without the Christian presence that is a sign of hope for all.

How do you see the future of Gaza?

The future of Gaza? For now, let us concentrate on surviving. Then, when even this war is over, we will rebuild our homes, our city, our workplaces, as we have always tried to do over the years. This also means healing the many traumas that this conflict is causing the people of Gaza. We will rebuild our city, but now, I repeat, we must think about protecting our families, our children. That is the priority. We don’t know what will happen in the future.

In the midst of so much uncertainty and anguish, there is only one certainty left, which Antone posted on his social media, and that is the words of Thomas More: ‘Earth has no sorrow that Heaven cannot heal.’

Papa Francesco: “Le rotte dei migranti gridano al cospetto di Dio”

Gio, 19/10/2023 - 20:28

“Passare da un mondo chiuso a un mondo aperto, da un mondo in guerra a un mondo in pace”. È l’itinerario proposto da Papa Francesco, nel momento di preghiera in piazza San Pietro per i migranti e i rifugiati, insieme ai partecipanti al Sinodo, presso la scultura “Angel Unawares” di piazza San Pietro, che rappresenta simbolicamente tutte le persone in fuga dalla propria casa e dal proprio Paese per cercare un futuro migliore. “La strada che da Gerusalemme portava a Gerico non era un cammino sicuro, come oggi non lo sono le numerose rotte migratorie che attraversano deserti, foreste, fiumi e mari”, il riferimento alla parabola del Buon Samaritano: “Quanti fratelli e sorelle oggi si ritrovano nella medesima condizione del viandante della parabola? Quanti vengono derubati, spogliati e percossi lungo la strada? Partono ingannati da trafficanti senza scrupoli. Vengono poi venduti come merce di scambio. Vengono sequestrati, imprigionati, sfruttati e resi schiavi. Vengono umiliati, torturati e violentati. Tanti muoiono senza arrivare mai alla meta”.

“Le rotte migratorie del nostro tempo sono popolate da uomini e donne feriti e lasciati mezzi morti, da fratelli e sorelle il cui dolore grida al cospetto di Dio”,

la denuncia di Francesco: “Spesso sono persone che scappano dalla guerra e dal terrorismo, come vediamo purtroppo in questi giorni”. Anche oggi, come ai tempi della parabola, “c’è chi vede e passa oltre, sicuramente dandosi una buona giustificazione, in realtà per egoismo, indifferenza, paura”. Il samaritano, invece, “vide quell’uomo ferito e ne ebbe compassione”: “Lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. E la compassione è l’impronta di Dio nel nostro cuore. Questa è la chiave. Qui c’è la svolta. Infatti da quel momento la vita di quel ferito comincia a risollevarsi, grazie a quell’estraneo che si è comportato da fratello. E così il frutto non è solo una buona azione di assistenza, il frutto è la fraternità”.

“Come il buon samaritano, siamo chiamati a farci prossimi di tutti i viandanti di oggi, per salvare le loro vite, curare le loro ferite, lenire il loro dolore”,

l’invito del Papa: “Per molti, purtroppo, è troppo tardi e non ci resta che piangere sulle loro tombe, se ne hanno una, o il Mediterraneo ha finito per essere una tomba. Ma il Signore conosce il volto di ciascuno, e non lo dimentica. Il buon samaritano non si limita a soccorrere il povero viandante sulla strada. Lo carica sul suo giumento, lo porta a una locanda e si prende cura di lui”. “Qui possiamo trovare il senso dei quattro verbi che riassumono la nostra azione con i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, ha spiegato Francesco: “Si tratta di una responsabilità a lungo termine, infatti il buon samaritano si impegna sia all’andata sia al ritorno. Per questo è importante prepararci adeguatamente alle sfide delle migrazioni odierne, comprendendone sì le criticità, ma anche le opportunità che esse offrono, in vista della crescita di società più inclusive, più belle, più pacifiche”.

“Dobbiamo tutti impegnarci a rendere più sicura la strada, affinché i viandanti di oggi non cadano vittime dei briganti”, l’appello finale.

“È necessario moltiplicare gli sforzi per combattere le reti criminali, che speculano sui sogni dei migranti”,

l’indicazione di rotta: “Ma è altrettanto necessario indicare strade più sicure: bisogna

impegnarsi ad ampliare i canali migratori regolari”.

“Nello scenario mondiale attuale è evidente come sia necessario mettere in dialogo le politiche demografiche ed economiche con quelle migratorie a beneficio di tutte le persone coinvolte, senza mai dimenticarci di mettere al centro i più vulnerabili”, l’analisi del Papa: “È anche necessario

promuovere un approccio comune e corresponsabile al governo dei flussi migratori,

che sembrano destinati ad aumentare nei prossimi anni. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare, questo è il lavoro che dobbiamo fare. Chiediamo al Signore la grazia di farci prossimi a tutti i migranti e i rifugiati che bussano alla nostra porta, perché oggi chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito”. Poi un momento di silenzio, “ricordando tutti coloro che non ce l’anno fatta, che hanno perso la vita lungo le diverse rotte migratorie, e coloro che sono stati usati, schiavizzati”.

Sinodo. Card. Czerny: “Stasera pregheremo con il Papa per i migranti e i rifugiati”

Gio, 19/10/2023 - 17:20

“La preghiera che tutti noi partecipanti al Sinodo, insieme con il Papa, faremo presso il monumento dedicato ai migranti in piazza San Pietro vuole simboleggiare il cammino della Chiesa con alcune delle persone più vulnerabili terra, soprattutto coloro che sono in fuga, che sono obbligati ad allontanarsi dal loro Paese e della loro casa”. Così il card. Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, durante il briefing odierno in sala stampa vaticana sul Sinodo sulla sinodalità, ha descritto la preghiera di stasera in piazza San Pietro, a cui parteciperà anche Papa Francesco. “L’armonia, la buona volontà e il profondo scambio vissuto nella sala sinodale – ha proseguito il cardinale – è incredibilmente in contrasto con l’ansia, la mancanza di sicurezza, la vulnerabilità e l’emarginazione di queste persone, con il terribile silenzio sui migranti e i rifugiati presente nella nostra società, che li respinge”. “La preghiera di stasera è una bellissima opportunità per mettere in pratica ciò di cui parliamo e ciò che facciamo nel Sinodo”, ha assicurato Czerny:

“sarà una preghiera universale: non si useranno nomi specifici di Paesi e popoli in particolare: rispettiamo le persone che vengono da luoghi diversi e vivono tragedie diverse, la maggior parte delle quali neppure conosciamo. La preghiera farà riferimento alle diverse situazioni nei differenti contesti: quando pregheremo per le persone che soffrono per la guerra o le ingiustizie, avremo in mente le persone intorno a noi che si trovano in quella terribile e triste situazione”.

La preghiera di stasera in piazza San Pietro, durante la quale interverrà il Papa, comincerà intorno alle 19.15 e durerà circa trenta minuti. E proprio al tema dei migranti, in sintonia con l’evento di stasera, sono stati dedicati gli interventi del briefing. “La comunità internazionale impone al Libano di tenere i siriani in questi campi disumani, per ragioni non note”, ha denunciato padre Khalil Alwan, segretario generale del Consiglio dei Patriarchi cattolici d’Oriente, ricordando che in Libano, un paese di 5 milioni di abitanti, ci sono più di 2 milioni di rifugiati siriani: cifra, sempre in crescita, che rende il Libano il Paese al mondo con la percentuale più alta di rifugiati. “Non si riesce a dare una vita dignitosa a questa gente”, il grido d’allarme del patriarca: “Si cerca di dare cibo, vestiti, e per motivi politici internazionali viene loro impedito di tornare in Siria: i libanesi sono puniti per la loro umanità”. Il costo del flusso dei profughi siriani, ha reso noto il religioso, ammonta a 49 miliardi di dollari: “La comunità internazionale ha contribuito con soli 12 miliardi, e lo Stato libanese nonostante crisi ha dovuto pagare la differenza, pari a 37 miliardi di dollari, con il tesoro pubblico. Con il sostegno finanziario degli organismi internazionali si può aiutare i rifugiati, ma intanto i cittadini libanesi diventano sempre più poveri”. “Di fronte alla reticenza dell’Unione europea ad accogliere i rifugiati e all’imposizione che restino in Libano, è sorta una grande collera e dubbi sulle istituzioni europee”, ha detto Alwan, secondo il quale “

la questione umanitaria sembra un pretesto per farli restare nei paesi del Medio Oriente:

il Libano non è un paese di transito, è costretto ad essere un paese di asilo politico”. “La tragedia rifugiati siriani è sicuramente umana”, ha concluso il patriarca: “Preghiamo stasera affinché le potenze del mondo, e particolarmente i Paesi europei, operino per la pace e la riconciliazione, per mettere fine a queste tragedie e perché i siriani possano tornare alla loro cultura e vivere dignitosamente nel loro paese”.

“La Chiesa è più grande dei confini nazionali”.

A testimoniarlo è stato mons. Daniel Ernest Flores, vescovo di Brownsville, la più grande diocesi degli Stati Uniti. “Negli ultimi anni – ha raccontato ai giornalisti – ci sono tanti migranti che cercano di raggiungere gli Usa e spesso lo fanno attraverso la mia diocesi, che è situata proprio nella parte meridionale del Texas, vicino al Messico. E’ un’esperienza molto difficile, ma posso testimoniare che la partecipazione e la generosità delle persone che vivono nella mia diocesi è grande: tante persone si sono fatte avanti. La nostra gente non ha grandi risorse materiali ma ha un cuore molto generoso. Sanno cos’è la povertà e quindi rispondono in modo molto religioso. Anche la comunità musulmana e quella ebraica aiutano a cercare soluzioni per le famiglie che attraversano il confine, trattandoli con rispetto, preservando loro dignità umana e tentando di rispondere ai loro bisogni concreti”.

“Il Sudafrica è una destinazione per molti migranti, che vedono il nostro paese come un luogo per migliori opportunità”.

Lo ha spiegato mons. Anton Dabula Mpako, vicepresidente della Conferenza episcopale del Sudafrica. “Il Sudafrica è il paese con il numero più alto di immigrati nel continente africano”, ha detto il presule: “Si parla di 2,9 milioni di migranti, ma questa è una cifra molto più bassa della realtà dei migranti stabiliti in Sudafrica. La causa principale è la povertà: la maggior parte dei migranti che arrivano in Sudafrica sono migranti economici. Abbiamo un ministero per la cura pastorale dei migranti e dei rifugiati, ai quali assicuriamo prima di tutto i bisogni di base: l’alimentazione, il vestiario, l’assistenza sanitaria, un tetto, i documenti per fare richiesta dello status di rifugiato, l’istruzione e l’educazione, per cercare un lavoro o imparare un mestiere. Ci preoccupiamo di come garantire una specifica cura pastorale perché i m igranti cattolici che vogliono continuare a praticare si integrino, offrendo anche spazi per i servizi nelle loro lingue grazie all’aiuto dei sacerdoti missionari”.

Gaza Strip. Father Romanelli (parish priest): “The Pope phoned again yesterday.” The local Christians: “We live in a cage surrounded by rubble, but we will not leave.”

Gio, 19/10/2023 - 12:57

Pope Francis has made another telephone call to the parish priest of Gaza, Father Gabriel Romanelli, in which he expressed his closeness and affection “to the entire Catholic community of the Holy Family parish in Gaza.”  The news was conveyed to SIR by the priest himself, a member of the Institute of the Incarnate Word (IVE), stranded in Bethlehem because of the ongoing war and anxious to return to his parish of slightly over 100 faithful. There are just over 1,000 Christians in Gaza, of whom only about a hundred are Catholic. The majority are Greek Orthodox and belong to St Porphyry’s parish. “The Pope called me last night,” said Father Romanelli. “As in previous phone calls, he wanted to express his closeness to us. He blessed all the faithful and assured us that we are always in his prayers. He also expressed his concern for what is happening, but encouraged us to remain strong, to remain close to the community, and above all – as he always repeats – to protect the children. He invited us to pray, the only “weapon” in our hands to promote peace. To pray and to always be in communion with him and with the Church.

Caged. The Holy Family Parish in Gaza, the only Catholic parish in the Strip, opened its doors to people who have lost their homes and jobs, especially friends and relatives, in the immediate aftermath of the 7 October attack and the subsequent Israeli response. “There are more than 500 people in the parish,” adds the priest. “Many Christians have taken refuge here. The men and women religious are doing their best to help the most distressed parishioners. Many of them have seen their homes destroyed by bombs and have lost their jobs. They also mourn the loss of family and friends.  There are also the elderly, the sick and the severely disabled. We know that when the war is over – hopefully soon – life will not be as we would like it to be. The cage we live in is surrounded by rubble.” A persistent question is asked by the faithful: “Where will we go when it’s all over? There are many families with children,” said the parish priest, “all of them will receive our material and spiritual help. For now, the priority is to save their lives. The constant raids and rocket attacks, the massacre at the Anglican hospital, only increase fear and anxiety.”

We will remain in the parish. From Gaza, María del Pilar Llerena, from the Institute of the Incarnate Word (IVE) Servants of the Lord and of the Virgin of Matarà, reiterates the words of the parish priest. “During the night there was a sporadic shelling in the area where we live. Many of us managed to get some rest. Thank God we are relatively well.” The nun stressed to SIR that “we will not leave the parish. We will not leave this place. And we will not abandon this church. Those who think they can attack the parish after we leave are wrong because we will stay here, on our knees before the Blessed Sacrament. This is our home and we feel safe here.”

The parish compound is situated in al-Zaytoun, one of the neighbourhoods of Gaza City that has been targeted by Israeli attacks in recent days. The homes of more than 20 Christian civilians are reported to have been destroyed or partially damaged by the shelling. Despite this, the Christian community has chosen not to evacuate to the south of the Strip, as ordered by the Israeli army. In the Greek Orthodox parish of St Porphyry, not far from the Latin parish, there are at least another 200 displaced believers.

Striscia di Gaza. P. Romanelli (parroco): “Ieri nuova telefonata del Papa”. I cristiani: “Viviamo in un gabbia circondati da macerie, ma non andremo via”

Gio, 19/10/2023 - 12:57

Ancora una telefonata di Papa Francesco al parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli, per esprimere vicinanza e affetto “a tutta la parrocchia latina della Sacra Famiglia di Gaza”. A rivelarlo al Sir è lo stesso parroco, religioso dell’Istituto Verbo Incarnato (Ive), bloccato a Betlemme a causa della guerra e ansioso di tornare tra i suoi poco più di 100 parrocchiani. I cristiani a Gaza contano poco più di 1000 fedeli, dei quali solo un centinaio sono i cattolici, la maggioranza è greco-ortodossa e fa capo alla parrocchia di san Porfirio. “Il Pontefice mi ha chiamato ieri sera – racconta padre Romanelli – e ancora una volta, come in altre precedenti telefonate, ci ha voluto esprimere tutta la sua vicinanza. Mi ha ribadito che siamo sempre nelle sue preghiere e ha impartito la benedizione a tutti i fedeli. Non ha mancato di esprimere anche la sua preoccupazione per quanto sta avvenendo ma ci ha incoraggiato ad andare avanti, a stare vicino alla comunità e soprattutto – cosa che ripete sempre – a proteggere i bambini. Ci ha invitato ad usare l’unica ‘arma’ nelle nostre mani per promuovere la pace: la preghiera. Pregare e stare sempre in comunione con lui e con la Chiesa”.

Gaza, fedeli in preghiera (foto parrocchia latina)

In gabbia. La parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza, l’unica cattolica della Striscia, sin dai primi momenti successivi all’attacco del 7 ottobre e alla conseguente reazione israeliana, ha aperto le proprie porte a chi ha perso casa e lavoro, e soprattutto amici e parenti. Nella parrocchia, aggiunge il parroco, “ci sono oltre 500 persone. Siamo pieni di cristiani. I religiosi e le religiose si danno da fare per aiutare i fedeli più in difficoltà. Molti di loro hanno perso la casa sotto le bombe, non hanno più lavoro. Piangono anche la perdita di parenti e amici. Nel compound ci sono anche anziani, malati e disabili gravi. Sappiamo bene che una volta finita la guerra – speriamo presto – la vita non riprenderà come si vorrebbe. Nella gabbia in cui viviamo siamo circondati da macerie”. Sale insistente, tra i fedeli, la domanda: “Quando tutto sarà finito dove andremo? Ci sono tante famiglie – ricorda il parroco – che hanno bambini, a loro va tutto il nostro aiuto concreto e spirituale. In questo momento la priorità è avere salva la vita. I continui raid e lanci di razzi, la strage all’ospedale anglicano, non fanno che aumentare paura e tensione”.

Parrocchia Sacra Famiglia, Gaza (Foto Parrocchia latina)

Resteremo in parrocchia. Alle parole del parroco fanno eco quelle, direttamente da Gaza, di suor María del Pilar Llerena, dell’Istituto del Verbo Incarnato (Ive) Serve del Signore e della Vergine di Matarà. “Durante la notte si sono registrati sporadici bombardamenti nella nostra zona. Molti di noi sono riusciti a riposare un po’. Grazie a Dio stiamo piuttosto bene”. La religiosa ci tiene a ribadire al Sir che “non abbandoneremo la parrocchia. Non andremo via da qui e non usciremo dalla Chiesa. Sbaglia chi pensa di attaccare la parrocchia una volta che saremo usciti, perché noi resteremo qui, in ginocchio davanti al Santissimo. Questa è la nostra casa e qui ci sentiamo al sicuro”.

Il compound parrocchiale si trova ad al-Zaytoun, uno dei quartieri di Gaza city presi di mira in questi giorni dai raid israeliani. Sarebbero più di 20 le case di civili cristiani distrutte dai bombardamenti, oltre a quelle parzialmente danneggiate. Nonostante questo la comunità cristiana ha scelto di non evacuare verso il sud della Striscia come intimato dall’esercito israeliano. Nella parrocchia greco-ortodossa di san Porfirio, non distante da quella latina, ci sarebbero almeno altri 200 fedeli sfollati.

 

Imam Pallavicini (Coreis): “Non ci può essere un ‘giorno della rabbia’, siamo uomini di speranza non di tenebra”

Gio, 19/10/2023 - 11:49

“Un giorno della rabbia da un punto di vista di chi è veramente religioso e tra questi anche i musulmani, non ci può essere. Noi dobbiamo essere uomini di fede, uomini di speranza, uomini che operano per salvaguardare una visione costruttiva di pace comune”. Va dritto al punto senza tergiversare l’Imam Yahya Pallavicini, vice presidente Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana). Subito dopo il bombardamento dell’ospedale al Ahli a Gaza, Hezbollah ha indetto “un giorno di rabbia senza precedenti” e centinaia di manifestanti hanno risposto alla chiamata in Libano, Giordania, Tunisia, Cisgiordania e Iran manifestando per strada e mirando soprattutto alle ambasciate. Una reazione che ha coinciso in Europa con un picco di allerta che ha coinvolto aeroporti, musei e luoghi di culto, in primis le sinagoghe. Il Sir ha contattato l’imam Pallavicini mentre si trovava a Siviglia per partecipare ad un incontro di imam e rabbini europei per confrontarsi con “i terribili eventi in Medio Oriente” e l’impatto che stanno avendo “in Europa, portando a sfiducia e pregiudizi che possono sfociare nella violenza”. “È tempo per noi di esserci l’uno per l’altro nei momenti difficili. Un attacco contro uno di noi è un attacco contro noi tutti”, si legge nel documento finale che è stato diffuso al termine dell’incontro.

(Foto ANSA/SIR)

Imam, ma cosa si intende esattamente per “giorno di rabbia”?
La rabbia è qualche cosa che fondamentalmente istigano i barbari e i criminali, e persone che vogliono lavare il cervello dei popoli per fare delle rivendicazioni, legittime o illegittime, giustificate o non giustificate. Ma alla fine la rabbia provoca soltanto disordine, e mai porta ad una risoluzione positiva. Si tratta quindi di generare un clima di risentimento che in questo caso andrà solo a aumentare o a scatenare violenza e odio su un clima di violenza e odio.

Le immagini sconvolgenti che stanno trasmettendo da Gaza entrano nelle case e vengono viste dalle masse, anche dalle vostre comunità. C’è il pericolo che quanto sta succedendo possa scatenare un odio antisemita, antioccidentale? Siete preoccupati?
Sì, c’è un rischio soprattutto per quello che le immagini stanno narrando. Sono immagini di distruzione e di morte che provocano sgomento sia perché si abbattono su innocenti sia per la modalità così crudele con cui stanno colpendo la popolazione civile. Ma tutto questo, insieme allo sgomento legittimo, dovrebbe provocare un impegno maggiore a porre fine a qualsiasi tipo di odio e conflitto, fosse anche militare, guerriglia terroristica e ripristinare un processo di dialogo che possa portare ad un piano di comunicazione, civiltà, rispetto e riconoscimento reciproco. La preoccupazione a cui lei faceva riferimento, c’è ed è il motivo per cui rabbini e imam d’Europa si sono riuniti a Siviglia.

C’è la preoccupazione che si possa infiltrare una volontà di conflitto e esportare questa guerriglia persino in Europa.

Quale responsabilità viene consegnata ai leader spirituali e religiosi in questo momento di altissima allerta terrorismo in Europa e in Italia?
La responsabilità che gli imam devono assumersi è ancora più grande rispetto a quella che avevano in tempo di pace. Stiamo purtroppo vivendo un momento di barbarie e di criminalità organizzata su basi terroristiche che distrugge, uccide e rapisce innocenti. A questa barbarie si sta rispondendo con una ritorsione militare da parte dell’esercito dello Stato di Israele. Scopo dei terroristi è strumentalizzare queste situazioni di crisi per mettere gli uni contro gli altri, ebrei contro musulmani. A fronte di questa strumentalizzazione e radicalizzazione, noi dobbiamo invece avere una grande responsabilità di mediazione e garantire a tutti, ai fedeli e ai concittadini, agli ebrei e ai musulmani e ai luoghi di culto degli ebrei e dei musulmani in Europa di vivere in pace.

Ma siete all’altezza di poterlo fare?
Adesso c’è amarezza, c’è sgomento e di conseguenza c’è il rischio che la paura possa generare ritorsioni.

Questo è qualcosa che dal punto di vista religioso, i leader religiosi sanno. Devono pertanto cercare di prevenire, accompagnando verso la luce, non verso le tenebre.

Avete predicato il dialogo per anni e in questi giorni, nel giro di due settimane, sembra essere ritornati al clima di terrore che l’umanità visse dopo l’11 settembre del 2001. Lei come vede questo tempo?
È pericolosissimo rifomentare in tutta la regione della Terra Santa una polarizzazione tra l’identità del popolo israeliano e palestinese e creare un disordine e una ondata a vasto raggio di violenza e di odio. Noi dobbiamo, al contrario, cercare assolutamente di calmare gli animi e prevenire questa deriva. E pregare perché una pace interiore e una luce dell’intelletto possano ancora ispirare le vite dei credenti e dei cittadini tutti insieme.

Miriam e la sua famiglia, testimoni del dramma di un Paese precipitato in guerra

Gio, 19/10/2023 - 11:41

A raccontare tramite WhatsApp i tragici avvenimenti che da sabato 7 ottobre stanno insanguinando Israele è Miriam, la terzogenita di Diana e Alfredo Sarano, segretario della Comunità ebraica di Milano negli anni della Seconda guerra mondiale e artefice della salvezza di migliaia di ebrei. Miriam, che oggi abita a Ramet Gan, è nata nel 1945 come segno di ringraziamento a Dio per essere sopravvissuti alla Shoah. Oggi la sua famiglia, che risiede in Israele dagli anni ’60, e che è formata da circa un centinaio di componenti, vive sparsa nel piccolo stato mediorientale. Con loro c’è anche Matilde, nata nel 1939 e gravemente malata.

“Quando sabato alle 6.30 del mattino la sirena ha suonato, io e mio marito Raymond siamo corsi nel rifugio che abbiamo dentro casa, uno dei pochi, perché non tutti ce l’hanno in Israele. Poi abbiamo subito chiamato mio figlio Avi perché ci raggiungesse e stesse con noi, infine il pensiero è andato ai cugini che abitano in un kibbutz a Nir Am, al confine con la striscia di Gaza e per tutto il sabato li abbiamo cercati senza successo. Quindi abbiamo provato a contattare i figli di mia sorella Vittoria, i nipoti e tutti i parenti. Ci siamo attaccati al televisore dove a mano a mano siamo venuti a sapere dei fatti orrendi: famiglie intere ammazzate con i loro bambini e gli anziani. Abbiamo saputo dei 3.000 ragazzi, parte dei quali massacrati al rave party di Sukkot. Altri presi in ostaggio così come anziani infermi, sulle carrozzelle e con le badanti filippine. Degli sfollati, una marea, trasferiti dalle città del sud in quelle del nord.

In tutto questo, consola vedere che non ci sono più divisioni partitiche ma ciascuno cerca di darsi una mano. Ci si aiuta a vicenda facendo del volontariato; eravamo un paese forte e ben organizzato, ma ci siamo lasciati sorprendere.

I nipoti di Matilde sono stati richiamati al fronte a combattere, i figli di Vittoria si danno da fare per preparare il cibo per la popolazione. Proprio ora mentre parlo c’è un attacco missilistico che cade sopra di noi, e c’è da sperare che i nostri missili possano bloccare quelli nemici che colpiscono le persone senza colpa alcuna.

È una sensazione terribile pensare alla mia famiglia sopravvissuta ai bombardamenti su Milano e poi nascosta per sfuggire agli aguzzini di allora. Oggi dopo oltre 80 anni si ripete la storia e sembra di essere tornati alla Shoah. Su tutte simbolicamente la vicenda dei due gemellini di 10 mesi scampati alla tragedia grazie ai loro genitori eroi che prima di essere uccisi li hanno nascosti in un armadio. Sono stati lì 12 ore prima che l’esercito israeliano li salvasse”.

Colpisce come nelle parole di Miriam non ci sia rancore nei confronti dei terroristi di Hamas. Non una parola di vendetta, di cattiveria, di odio, ma solo il dolore per le atrocità commesse e la richiesta di pace. Ci salutiamo con la promessa della preghiera reciproca nell’unico Dio “che tante volte è intervenuto in nostro aiuto e che non mancherà ancora di farlo neppure in queste ore drammatiche”.

(*) direttore “Il nuovo amico”

Al via la 18ª Festa del Cinema con “C’è ancora domani” della Cortellesi. In sala “Killers of Flower Moon” di Scorsese

Gio, 19/10/2023 - 10:08

Su il sipario della 18ª Festa del Cinema di Roma (18-29 ottobre) con l’opera prima di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”, fotografia sociale di una donna, di tante donne, nell’Italia a poche settimane dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Un racconto che esplora con ironia, grazia e note drammatiche, la condizione femminile di ieri (e di oggi) disseminata di disparità e vessazioni. La Cortellesi convince e conquista con emozione, firmando un’opera di impegno civile dai riverberi educativi. Un film che sembra recuperare lo sguardo di Ettore Scola sul personaggio di Sophia Loren in “Una giornata particolare” (1977). E ancora, in sala dal 19 ottobre l’ultimo splendido film di Martin Scorsese, “Killers of the Flower Moon”, un intenso e livido dramma storico dalle sfumature western, un’opera che rilegge violenze e crimini ai danni degli indiani Osage negli Stati Uniti degli anni ’20 del Novecento. Scorsese torna dietro alla macchina da presa con grinta e incisività, componendo un affresco storico di denuncia che affascina nonostante la durata eccessiva di 206 minuti. Protagonisti Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone e Jesse Plemons. Il punto Cnvf-Sir.

“C’è ancora domani” (Cinema, 26.10)
Partenza con il piede giusto per la 18a edizione della Festa del Cinema di Roma, sotto la direzione artistica di Paola Malanga e la presidenza di Gian Luca Farinelli. Come film d’apertura è stato scelto l’esordio alla regia dell’attrice Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”, un film di donne, per le donne, per la società tutta. Una fotografia storica, ma anche un’istantanea del nostro presente, un’opera che si posiziona a metà strada tra impegno civile, denuncia e proposta educativa. Prodotto da Wildside, Vision Distribution con Sky e Netflix, “C’è ancora domani” è scritto dalla stessa regista con Furio Andreotti e Giulia Calenda (insieme hanno firmato il copione di “Come un gatto in tangenziale”). Nel cast, oltre alla Cortellesi, Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli, Giorgio Colangeli, Romana Maggiora Vergano, Vinicio Marchioni e Francesco Centorame.

La storia. Roma, maggio 1946. Delia è sposata con Ivano, un reduce delle due Guerre che ogni giorno le fa scontare il suo cattivo umore. Insieme hanno tre figli: Marcella, una giovane donna, e due preadolescenti. Delia fa numerosi sacrifici e lavori per non far mancare nulla in casa, ma riceve indietro solo ingratitudine e percosse. L’unica che si accorge dei suoi sforzi silenziosi è la figlia Marcella. In casa c’è fermento per il fidanzamento ufficiale di Marcella con Giulio, un borghese che potrebbe attivare finalmente l’ascensore sociale…

(Paola Cortellesi, Giorgio Colangeli, Chiara Bono, Alessia Barela, Federico Tocci, Romana Maggiora Vergano, Mattia Baldo, Gianmarco Filippini e Valerio Mastandrea @CLAUDIOIANNONE)

“Con ‘C’è ancora domani’ – dichiara Paola Cortellesi – ho voluto raccontare le imprese straordinarie delle tante donne qualunque che hanno costruito, ignare, il nostro paese. Delia è le nostre nonne e bisnonne. Chissà se abbiano mai intravisto un ‘domani’. Per Delia un domani c’è. È un lunedì, ed è l’ultimo giorno utile per cominciare a costruire una vita migliore”.
Girato con uno splendido bianco e nero, il film “C’è ancora domani” si muove su un binario neorealista, ricorrendo qua e là a suggestioni brillanti e raccordi musicali (con sequenze quasi da musical). Uno sguardo incisivo e acuto sulla società italiana nell’immediato dopoguerra, erosa da povertà, macerie (anche morali) e da un ingombrante maschilismo che non lasciava spazio alle donne, sia umili che borghesi.

Con il personaggio di Delia la Cortellesi sembra recuperare quello di Antonietta interpretata da Sophia Loren in “Una giornata particolare” (1977): una donna schiacciata da un marito, da una famiglia, abituati a sottometterla, a trattarla come irrilevante o invisibile. Il film di Scola era ambientato al tempo del fascismo, quello della Cortellesi sulle macerie, in un Paese in cerca di una nuova identità, ma la condizione della donna non sembra affatto diversa. A ben vedere, in “Una giornata particolare” Antonietta provava a cambiare ma poi rimaneva imbrigliata nella sua prigione domestica, la Delia di “C’è ancora domani” fa di tutto per garantire a se stessa e alla figlia Marcella – simbolo dell’Italia di domani, delle nuove generazioni – un orizzonte di possibilità e di libertà.
“C’è ancora domani” è un esordio alla regia riuscito, splendido e commovente. Un’opera stratificata, dolente ma anche illuminata dalla leggerezza della risata. La Cortellesi rimane fedele ai suoi codici interpretativi di matrice sociale, al suo desiderio di raccontare figure di donne che rompono barriere e tabù. Il copione gira sicuro e agile, forte anche di personaggi e interpretazioni efficaci; a imprimere ulteriore pathos e compattezza le musiche di Lele Marchitelli e brani noti come “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla e “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri. “C’è ancora domani” è consigliabile, problematico, per dibattiti.

“Killers of the Flower Moon” (Cinema, 19.10)
Da oltre mezzo secolo Martin Scorsese ci provoca, sfida e conquista con opere cinematografie di grande intensità. Da “Mean Streets” (1973) a “Taxi Driver” (1976), da “L’ultima tentazione di Cristo” (1988) a “L’età dell’innocenza” (1993), sino ai più recenti “Hugo Cabret” (2011), “The Wolf of Wall Street” (2013) e “Silence” (2016). A quattro anni dalla sua ultima regia, “The Irishman” (2019) targato Netflix, il regista newyorkese torna a picchiare duro sulla storia degli Stati Uniti e le sue fratture sociali con “Killers of the Flower Moon”, opera che prende le mosse dal romanzo di inchiesta di David Grann del 2017 che ha gettato luce su un torbido atto di violenza ai danni dei nativi americani Osage. Presentato in anteprima al 76° Festival di Cannes, “Killers of the Flower Moon” è prodotto dallo stesso Scorsese, dal protagonista Leonardo DiCaprio e da Apple Studios. È nei cinema italiani con Leone Film Group e 01 Distribution.

La storia. Stati Uniti, anni ’20. I nativi americani Osage godono sul loro territorio di una condizione di alto benessere in seguito alla scoperta di petrolio. Ben presto diventano preda di brama e mire delittuose da parte della comunità bianca locale. Su tutti lo scaltro William Hale (Robert De Niro) e il vacuo nipote Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio). Quest’ultimo si lega a Mollie Kyle (Lily Gladstone), facoltoso membro della comunità Osage. Sono anni nei quali si verificano numerose morti sospette tra gli Osage, riconducibili proprio ai traffici di Hale…

Scorsese conferma ancora una volta le sue qualità narrative, mettendo in campo una regia vigorosa, complessa e imponente. Disegna un affresco storico degli Stati Uniti dei primi decenni del Novecento con pennellate western ruvide e fosche, tratteggiando uno campionario umano vile e disgraziato, devoto solo al dio denaro. Il regista ritorna ancora una volta sul tema delle radici identitarie dell’America del Nord, la spregiudicata lotta di sopraffazione ai danni delle minoranze, in questo caso dei nativi americani. Un’intolleranza che non sembra poggiare “solo” sull’odio razziale, ma cibarsi anche di istinti feroci dell’animo umano, quell’animo ossessionato da potere ed egoismo.
Scorsese stupisce per come orchestra il racconto e ne mantiene la solidità, il ritmo, per oltre tre ore – unico neo dell’opera è la durata smisurata di ben 206 minuti –, governando una storia complessa e articolata, disseminata di accadimenti e personaggi. Una messa in scena suggestiva, imponente, esaltata anche da interpretazioni maiuscole a cominciare dai Premi Oscar Robert De Niro e Leonardo DiCaprio. E se la durata eccessiva rischia di mettere alla prova la visione per lo spettatore, il finale acuto e geniale di certo ne premia lo sforzo. “Killers of the Flower Moon” è un film da vedere per (ri)scoprire una dolorosa pagina della storia americana, attraverso lo sguardo incalzante e mai banale di un grande maestro del cinema. Film complesso, problematico, per dibattiti.



Giornalismo e democrazia: un premio nel nome di Daphne Caruana Galizia

Gio, 19/10/2023 - 10:05

(Strasburgo) Il premio Daphne Caruana Galizia per il giornalismo, sostenuto dal Parlamento europeo, è considerato come un doppio “investimento”: sulla libertà di informazione, pilastro essenziale di ogni democrazia; e sul giovane giornalismo di inchiesta, valore aggiunto dell’informazione intesa come servizio pubblico. Con queste intenzioni è avvenuta martedì 17 ottobre, nella sede di Strasburgo dell’Euroassemblea, la cerimonia di assegnazione del Premio edizione 2023. Il riconoscimento è andato quest’anno agli autori dell’indagine sul naufragio dell’imbarcazione Adriana, costato la vita, nel giugno scorso, a più di 600 migranti a Pylos, in Grecia. Si tratta di un pool investigativo, formato da giornalisti dell’agenzia greca Solomon, dell’emittente pubblica tedesca StrgF/Ard e del quotidiano britannico The Guardian. Una indagine congiunta che ha appurato le responsabilità della Guardia costiera greca nella tragedia avvenuta al largo delle coste di Pylos.
Sono oltre i 700 giornalisti, provenienti dai 27 Paesi Ue, che hanno partecipato al concorso, con più di 200 inchieste.

La presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, durante la premiazione ha affermato: “oggi, come ogni anno, onoriamo la memoria di Daphne Caruana Galizia con un premio che è un potente promemoria della sua lotta per la verità e la giustizia. I giornalisti di tutto il mondo continuano ad essere presi di mira per via del loro lavoro, ma si rifiutano di essere messi a tacere. Questo Parlamento è al loro fianco in questa battaglia di lunga data per salvaguardare la libertà di stampa e il pluralismo dei media in Europa e non solo”.
Il Premio è stato istituito nel dicembre 2019 in omaggio a Daphne Caruana Galizia, giornalista investigativa e blogger maltese anticorruzione assassinata in un attentato con autobomba nel 2017. Il Premio è assegnato ogni anno (in occasione dell’anniversario dell’assassinio di Daphne Caruana Galizia) per “riconoscere i meriti eccezionali di un giornalismo che promuove o difende i principi e i valori fondamentali dell’Unione europea, come la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato di diritto e i diritti umani”.
Giornalisti professionisti o gruppi di giornalisti professionisti di qualsiasi nazionalità possono presentare opere giornalistiche di approfondimento pubblicate o trasmesse da media con sede in uno dei 27 Stati membri dell’Unione europea. L’obiettivo, secondo l’Europarlamento, è “promuovere e sottolineare l’importanza del giornalismo professionale nella salvaguardia della libertà, dell’uguaglianza e delle opportunità”.La giuria indipendente è composta da rappresentanti della stampa e della società civile dei 27 Paesi membri dell’Unione e da rappresentanti delle principali associazioni europee di giornalismo. Il premio e il suo importo di 20.000 euro sono “una testimonianza del forte sostegno del Parlamento europeo al giornalismo investigativo e alla libertà di stampa”.
Nell’ottobre 2021, il Premio Daphne Caruana per il giornalismo è stato assegnato ai giornalisti coordinati dal Consorzio Storie Proibite per l’indagine sul Progetto Pegasus. Nell’ottobre 2022, il Premio è andato a una co-produzione Découpages/Arte per un documentario sull’influenza russa in Africa.

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/10/EuropaStrasburgoxDaphne_Caruana_Galizia_Prize_for_Journalism_2023_17102023_1.mp4

Journalism and democracy: prize to honour Daphne Caruana Galizia’s memory

Gio, 19/10/2023 - 10:05

(Strasbourg) The Daphne Caruana Galizia Prize for Journalism, supported by the European Parliament, is seen as a double recognition: of freedom of information, a cornerstone of any democratic system, and of young investigative journalism, which adds value to reporting as a public service. These were the underlying motives of the 2023 edition of the prize, which was awarded on Tuesday October 17th at the headquarters of the European Parliament in Strasbourg.

This year’s prize went to the journalists who carried out the investigation into the deadly shipwreck of the fishing boat ‘Adriana’, which claimed the lives of more than 600 migrants in Pylos, Greece, last June.

The joint investigation was carried out by a pool of journalists from the Greek investigative outlet Solomon, in cooperation with Forensis, the German public broadcaster StrgF/ARD and the British newspaper The Guardian. The joint investigation established the Coast Guard’s responsibility for the deadly migrant shipwreck off the coast of Pylos.

More than 700 journalists from the 27 EU countries entered the competition, submitting more than 200 investigative reports.

Speaking at the award ceremony, Roberta Metsola, President of the European Parliament, said: “Today, as every year, we honour the memory of Daphne Caruana Galizia with a prize that is a powerful reminder of her fight for truth and justice. Journalists around the world continue to be targeted just for doing their job, but they refuse to be silenced. This Parliament stands by their side in this long-standing battle to safeguard press freedom and media pluralism in Europe and beyond.”

The Prize was created in December 2019 as a tribute to Daphne Caruana Galizia, a Maltese anti-corruption investigative journalist and blogger who was killed in a car bomb attack in 2017.

The Prize is awarded on a yearly basis (on the anniversary of the assassination of Daphne Caruana Galizia) to “recognise outstanding journalism that promotes or defends the core principles and values of the European Union such as human dignity, freedom, democracy, equality, rule of law, and human rights.”

Professional journalists and teams of professional journalists of any nationality can submit in-depth articles published or broadcast by media based in one of the 27 member states of the European Union.

The aim, says the European Parliament in a note, is “to support and highlight the importance of professional journalism in safeguarding freedom, equality and opportunity.”

The independent jury is made up of representatives of the press and civil society from the 27 European member states and a representative of the International Federation of Journalists. The award and the €20,000 prize money “demonstrate the European Parliament’s strong support for investigative journalism and a free press.”

In October 2021, the Daphne Caruana Prize for Journalism was awarded to the journalists coordinated by the Forbidden Stories Consortium for their investigation into the Pegasus project, and in October 2022 to a Découpages/Arte G.E.I.E. co-production for a documentary on Russian influence in Africa.

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/10/EuropaStrasburgoxDaphne_Caruana_Galizia_Prize_for_Journalism_2023_17102023_1.mp4

Laudate Deum e crisi climatica: uno sguardo pedagogico

Gio, 19/10/2023 - 09:00

Cambiamenti climatici, povertà e migrazioni, illusione della tecnocrazia, ripensamento del multilateralismo, ruolo della società civile.
A otto anni dalla pubblicazione della Laudato si’, Francesco torna a parlare di questioni ambientali e lo fa in modo puntuale, squisitamente scientifico e, al contempo, evidentemente comprensibile, alla portata di tutti e tutte.

Laudate Deum è una esortazione apostolica che rende vicina, reale e vera la crisi climatica. Ci spiega come, nel futuro più prossimo o più remoto, questa crisi “attraverserà” le nostre vite e non solo quelle delle popolazioni del Sud del mondo, con le quali il mondo occidentale sta maturando un debito climatico senza precedenti, che è a sua volta all’origine di una crisi sociale, umana e culturale mai registrata nella storia della nostra specie e del pianeta.

Nonostante la situazione difficile che il Pontefice descrive, la

Laudate Deum è una esortazione apostolica che si, e ci, carica di speranza e ci invita a praticarla pagina dopo pagina;

una speranza che va oltre la cecità del negazionismo climatico e di una politica, nazionale e internazionale, che guarda quasi esclusivamente agli interessi economico-finanziari; una speranza che può generare cambiamento se il modello del multilateralismo è costruito sul principio di sussidiarietà applicato al rapporto locale-globale; una speranza che ci ricorda che “tutto è connesso” e che tutti concorriamo, poiché in relazione, a rendere questo mondo a misura di persona e di futuro.
Più di tutto, però, ciò che dà speranza al Papa sono i cambiamenti, piccoli o grandi, che dal basso, nelle comunità, stanno cominciando a generare quella trasformazione dei modi in cui pensiamo, agiamo e ci comportiamo.

Questo Documento è, dunque, ancora una volta, un testo dall’alto valore pedagogico e dall’indiscussa capacità di esortazione all’agire educativo, in qualsiasi contesto di vita e coinvolgendo tutti e tutte, a qualsiasi età. Non solo le scuole e le università ma anche i nostri luoghi di lavoro e del tempo libero, le nostre parrocchie e le nostre associazioni:

tutti e tutte, indistintamente e insieme, siamo chiamati ad una co-responsabilità educativa che ci viene anche dall’aver sottoscritto, nel settembre del 2015, l’Agenda 2030 e dall’esserci con essa impegnati, come nazioni, istituzioni e cittadini, a “garantire un’educazione di qualità per tutti a tutte le età”. L’educazione, dunque, come tensione politica ed etica, come viatico di trasformazione sociale e personale, come opportunità di cambiamento globale reale.
L’umanità e il pianeta sono ancora in evoluzione. La storia che saremo capaci di scrivere sarà il frutto delle scelte che oggi e nei prossimi anni saremo in grado di compiere. La molteplicità di possibilità che riusciremo a costruire dipenderà da come viviamo il presente e da quanto riusciremo a percepirci connessi e interagenti con il sistema vivente, da quanto saremo in grado di comprendere che l’ecologia o è integrale o semplicemente non è. Solo così, come Francesco ben ci esplicita e come avremo modo di raccontarci nella Settimana sociale dei cattolici in Italia che vivremo a Trieste il prossimo luglio, potremo immaginare un futuro della casa comune diverso rispetto a quello verso il quale ci stiamo troppo velocemente dirigendo.

 

(*) ricercatrice dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro” e componente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici in Italia

Sinodo. Ruffini: “Testo finale sarà a servizio di un processo che continua”

Mer, 18/10/2023 - 17:23

“Sappiamo bene che questo Sinodo sarà valutato sulla base dei cambiamenti percepibili che ne scaturiranno”. Lo ha detto il card. Jean-Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo, nella sua relazione alla dodicesima Congregazione generale, in cui è iniziato il quarto modulo dei lavori del Sinodo, l’ultimo dedicato all’esame dei contenuti dell’Instrumentum laboris, relativo alla sezione B3, dedicata alla partecipazione.

“I grandi media, soprattutto quelli più lontani dalla Chiesa, sono interessati a eventuali cambiamenti su un numero molto limitato di temi”,

ha osservato il cardinale: “Ma anche le persone più vicine, i nostri collaboratori, i membri dei consigli pastorali, le persone che si impegnano nelle parrocchie si stanno chiedendo che cosa cambierà per loro, in una Chiesa che risulta ancora poco sinodale, in cui sentono che la loro opinione non conta e che a decidere tutto sono pochi o uno solo”.

“Una relazione di sintesi, relativamente breve e al servizio di un processo che continua”.

Così Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e presidente della Commissione per l’informazione, ha definito il testo che la Commissione per il documento di sintesi redigerà a conclusione della prima fase del Sinodo sulla sinodalità, in corso in Aula Paolo VI fino al 29 ottobre. “Si tratta di un testo transitorio, basato sull’esperienza di questa assemblea, dove saranno indicati i punti di consenso e quelli dove c’è mancanza di accordo, le domande aperte che necessitano di un approfondimento d carattere teologico, spirituale e pastorale”, ha spiegato Ruffini: “Non è l’Instrumentum laboris della prossima assemblea, il fine è quello di accompagnare le fasi successive”, ha precisato. Oggi intanto i partecipanti al Sinodo hanno approvato a larghissima maggioranza

una lettera-messaggio “per raccontare a tutto popolo di Dio, soprattutto a chi non è stato ancora coinvolto, l’esperienza che i fratelli e le sorelle, vescovi e non vescovi, hanno vissuto al Sinodo”.

I presenti erano 348, i votanti 346, la maggioranza assoluta era di 175.

“La Chiesa è sempre nuova”, ha spiegato padre Timothy Radcliffe nella sua meditazione in Aula Paolo VI: “Oggi il nostro Dio sta già facendo nascere una Chiesa che non è più principalmente occidentale: una Chiesa cattolica orientale, asiatica, africana e latino-americana. È una Chiesa in cui le donne stanno già assumendo responsabilità e stanno rinnovando la nostra teologia e spiritualità. I giovani di tutto il mondo, come abbiamo visto a Lisbona, ci stanno già portando in nuove direzioni, nel continente digitale”. “Mai come oggi – e per oggi intendo questi giorni drammatici, quando la pace sembra sospesa a un filo – l’umanità ha bisogno di una testimonianza forte e convinta di una Chiesa che sia segno e strumento di pace tra i popoli”. Ne è convinto don Dario Vitali, coordinatore degli esperti teologi.

“I popoli indigeni ci aiutano a comprendere la relazione con l’ambiente e la necessità di curare la nostra casa comune. Ci aiutano ad essere una Chiesa attiva, samaritana, presente, misericordiosa”.

E’ l’omaggio del card. Leonardo Ulrich Steiner, arcivescovo di Manaus (Brasile), che durante il briefing odierno sul Sinodo ha raccontato la “lunga esperienza di sinodalità” vissuta dal suo Paese, con una capitale come Manhaus che vanta due milioni di abitanti e la foresta dell’Amazzonia, “che si sprona a curare maggiormente l’ambiente in questa situazione deplorevole in cui si trova”. “Il Sinodo è un processo”, ha proseguito il cardinale facendo un parallelo tra l’esperienza della Chiesa universale e quella della sua Chiesa locale: “Non stiamo cercando soluzioni, ma esercitando la sinodalità. Tutti siamo coinvolti in questo processo, abbiamo la possibilità di parlare, di esprimerci, sempre tenendo in considerazione la missione del gregge. Per noi l’Amazzonia è un incentivo a continuare in questo cammino che cerca di coinvolgere tutti nel processo di evangelizzazione”.

“La tendenza omosessuale come tale non è un peccato, ma è da considerare un peccato se le persone entrano in un rapporto sessuale tra di loro. Ma questo vale non solo per gli omosessuali: per ognuno è un peccato il rapporto sessuale fuori dal matrimonio. Tutti siamo chiamati alla castità, il Catechismo della Chiesa cattolica è molto chiaro”.

Così mons. Zbigņevs Stankevičs, arcivescovo di Riga (Lettonia), ha risposto alle domande dei giornalisti sul tema della benedizione delle coppie gay, nel briefing odierno. “Se arriva un omosessuale come persona individuale, dicendo che vorrebbe vivere nella grazia di Dio, non vedo alcuna controindicazione nel pregare per lui e aiutarlo con una benedizione. Se arrivano due persone omosessuali che dicono di voler vivere nella castità, si può pregare per loro e anche benedirli per aiutarli a vivere in castità. Ma se vengono due persone omosessuali dicendo di convivere come marito e moglie, è un problema: così benediciamo chi vive nel peccato”. “Come dice il Papa, nella Chiesa c’è posto per tutti: la Chiesa non rifiuta nessuno”, ha osservato il vescovo:

“Dobbiamo accogliere queste persone, non giudicarle, rispettare la loro dignità umana e non discriminarli ingiustamente. Li accogliamo con amore, con rispetto, ma il vero amore non è separabile dalla verità, perché se è separato dalla verità non è più amore vero, diventa permissivismo”. 

Anche mons. Pablo Virgilio S. David, vescovo di Kalookan (Filippine), ha stigmatizzato “la tendenza a giudicare le persone omosessuali: nelle Filippine c’è una stessa parola per uomo e donna, siamo tutti figli di Dio. Occorre abbandonare la tendenza a discriminare le persone per il proprio orientamento sessuale”. Al briefing di oggi ha partecipato anche Wyatt Olivas, testimone del processo sinodale in America del Nord, che con i suoi 19 anni è il più giovane partecipante al Sinodo, da lui definito “molto emozionante, una straordinaria esperienza di ascolto di persone provenienti da ogni parte del mondo”.

 

 

 

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