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Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 4 mesi 1 settimana fa

Appello del Papa su Nagorno-Karabakh. Patriarca Minassian: “Distruggere i luoghi di culto significa voler cancellare un popolo”

Lun, 16/10/2023 - 10:32

“L’appello ieri del Papa non è una sorpresa. Era informato del pericolo che c’è sui monasteri e i luoghi di culto che sono rimaste vuoti, senza nessuno a proteggerle”. Contattato dal Sir, Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, patriarca di Cilicia degli Armeni, a Roma per partecipare al Sinodo, commenta le parole di Francesco che ieri all’Angelus, rivolto “un particolare appello in favore della protezione dei Monasteri e dei luoghi di culto della regione”. “Auspico – ha detto il Papa – che a partire dalle autorità e da tutti gli abitanti possano essere rispettati e tutelati come parte della cultura locale, espressioni di fede e segno di una fraternità che rende capaci di vivere insieme nelle differenze”. Secondo una risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2022, ci sono 1.456 monumenti armeni che dopo il cessate il fuoco del 2020 sono passati sotto il controllo dell’Azerbaijan e che già durante la guerra sono stati danneggiati.

(Foto SIR)

Beatitudine, perché questo appello?
“Nel passato abbiamo vissuto un’esperienza simile. Hanno attaccato i nostri cimiteri, hanno distrutto le croci sulle tombe. C’è quindi il pericolo di una storia antica che può ritenersi. Distruggere le chiese e i monasteri che si trovano in quella in quella regione, significa voler cancellare una storia e quindi distruggere un intero popolo con la sua cultura e le sue radici più profonde. Ringraziamo il Papa per aver preso questa iniziativa. Il nostro auspicio è che le sue parole possano risvegliare l’Onu e la comunità internazionale affinché agiscano a protezione della storia e della cultura di tutte le Nazioni.

Domenica 15 ottobre, il presidente dell’Azerbaijian Ilham Aliyev ha issato la bandiera della sua nazione sulla capitale del Nagorno- Karabakh conosciuta come Khankendi dagli azeri e Stepanakert dagli armeni. Nela cerimonia ha riaffermato il controllo di Baku sulla regione contesa. Che effetto le fanno queste immagini?
Le immagini non le ho viste, sono comunque tutti gesti che si compiono per dire al mondo che hanno vinto. Ma la vittoria di una battaglia non significa la vittoria di una guerra. Gli azeri hanno improvvisamente preso tutto, hanno svuotato tutto il paese. Se c’è ancora un minimo di coscienza nel mondo, bisogna riconoscere questa ingiustizia subita da un popolo che non era armato, non è un esercito. Senza considerare tutti i massacri che hanno compiuto, le uccisioni di bambini, donne e giovani e anziani. Le Nazioni Unite e la comunità internazionale si trovano di fronte ad un bivio, o accettano tutti questi massacri, questi genocidi morali, sociali e fisiche e ammettono però la loro debolezza o si assumono un dovere verso l’umanità e verso il diritto di ogni persona su questa terra di vivere liberamente con i suoi diritti umani. 

Si sono anche viste immagini sulle condizioni difficilissime in Armenia dei migranti forzati dal Nagorno che si trovano purtroppo anche per strada. Lei che notizie ha?
So che si sta cercando di dare una mano a tutti ma non è facile coprire in così breve tempo le necessità di tutte queste famiglie che sono state forzate ad uscire dalla loro terra. Quello che stiamo vedendo sono immagini molto tristi. Tra l’altro anche gli aiuti che si aspettavamo da parte delle organizzazioni, fanno fatica ad arrivare. Purtroppo la guerra è dappertutto: c’è guerra in Ucraina, c’è guerra in Medio Oriente, c’è guerra in Armenia. Sono situazioni pesanti. E anche se avessimo la possibilità di costruire nuovi alloggi, occorrono almeno 6/7 mesi per farlo e l’inverno è vicino e da noi l’inverno è molto rigido. Stiamo facendo tutto il possibile. Io tra l’altro sono anche del parere di non dare la nazionalità per salvaguardare il loro diritto di ritorno nelle loro case.

La scorsa settimana, il parlamento armeno ha aderito alla Corte penale internazionale, il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Lei cosa ne pensa?
È un passo importante che l’Armenia ha deciso di compiere. Si tratta di chiedere giustizia su tutto questo sangue che è stato versato inutilmente su questa terra. 

 Qual è la sua speranza?
La mia speranza è che si trovi veramente una luce di riconciliazione, di rispetto del diritto dell’uomo e di ascolto di chi ha veramente perso tutto, anche il futuro. Ci sono bambini e giovani sono rimasti senza scuola. Ci sono famiglie e anziani che sono stati strappati dalla loro terra. Non è facile riprogettare una nuova vita in queste condizioni. La mia speranza è che la comunità internazionale senta il dovere di intervenire.

 

Ultimatum Israele: cristiani a Gaza, tra la telefonata del Papa e il battesimo di Gabriele

Lun, 16/10/2023 - 09:56

Ancora bombe nella notte a Gaza dove Israele ha preso di mira i quartieri di al-Zaytoun e al-Shujaiya di Gaza City. Colpite anche postazioni di Hezbollah in Libano. Non si ferma nemmeno il lancio indiscriminato di razzi da parte dei gruppi armati palestinesi a Gaza contro i centri abitati israeliani, compresa l’area metropolitana di Tel Aviv. Un portavoce dell’esercito ha riferito che, dall’inizio del conflitto, da Gaza sono stati lanciati 6.000 razzi.

Bilancio di guerra. Gli ultimi bilanci, forniti da Ocha, l’Ufficio Onu che coordina gli affari umanitari nei Territori palestinesi occupati, parlano di 2.750 morti e di 9.700 feriti tra i palestinesi. Le vittime israeliane sono 1.300 e i feriti 3.621. Nella giornata di ieri è stata completata l’evacuazione quasi totale della città di Sderot, nel sud di Israele. Anche gran parte dei residenti della città di Ashqelon se ne sarebbero andati mentre le comunità israeliane più piccole intorno alla Strisci sono state completamente evacuate nei giorni precedenti. A Gaza gli sfollati sarebbero oltre un milione, praticamente metà della popolazione, per una emergenza umanitaria che si aggrava sempre di più e con gli ospedali al collasso. Un po’ di sollievo potrebbe arrivare, questa mattina, da un cessate-il-fuoco di 5 ore concordato tra Israele, Usa e Egitto per permettere l’apertura del valico di Rafah con la Striscia di Gaza. In questo tempo saranno evacuati gli stranieri e sarà permesso l’ingresso di aiuti umanitari. Ieri, intanto, Israele ha parzialmente ripreso la fornitura d’acqua all’area orientale di Khan Younis.

Decisi a restare. Chi è sempre più decisa a non muoversi verso sud, come intimato dall’Esercito israeliano, è la comunità cristiana di Gaza, che da qualche giorno si è raccolta dentro il compound parrocchiale della Sacra Famiglia, unica parrocchia cattolica della Striscia. Attualmente sono ospitate almeno 500 sfollati, tra questi anche alcune famiglie musulmane. Altri sfollati sono ospitati nella chiesa greco-ortodossa di San Porfirio. Ieri sera alla parrocchia è giunta la telefonata di Papa Francesco. Grande l’emozione come ha raccontato al Sir, suor Nabila Saleh, preside della scuola più grande della Striscia, che con le consorelle è andata a stare nella parrocchia: “Il Papa ha chiamato padre Yusuf che mi ha dato il suo telefono perché parlassi direttamente con il Pontefice visto che lui non parla bene l’italiano”.

“Il Papa ci ha assicurato che siamo nelle sue preghiere e che conosce la sofferenza che stiamo patendo”.

“Il Santo Padre – ha aggiunto la religiosa – ha chiesto quante persone sono ospitate dentro le strutture parrocchiali, ce ne sono circa 500, tra malati, famiglie, bambini, disabili, persone che hanno perso la casa e ogni avere. Il Papa ha voluto impartire la sua benedizione a tutti in parrocchia. Io e padre Yusuf lo abbiamo ringraziato a nome di tutta la comunità e abbiamo detto che

offriamo le nostre sofferenze per la fine della guerra, per la pace, per la Chiesa e anche per il Sinodo”.

I fedeli e gli ospiti della parrocchia hanno accolto questa telefonata con grande gioia e speranza – ha detto poco fa al Sir, suor Maria del Pilar, una delle religiose dell’Istituto del Verbo incarnato (Ive) missionarie a Gaza – speranza mista ad angoscia perché il futuro appare sempre più incerto. Questa notte le bombe sono cadute nella nostra zona, al-Zaytoun, ma qui in parrocchia non abbiamo subito danni. Stiamo tutti bene”. Tuttavia, ricorda la religiosa, “moltissimi hanno perso la casa e i loro pochi averi. Senza casa, senza lavoro, senza salute che futuro sarà. Solo la fede ci sostiene e ci fa andare avanti. La vicinanza del Papa, la sua preghiera, ci confortano e non ci fanno sentire soli. Che la sua voce raggiunga il cuore e la mente di israeliani e palestinesi”.

Il battesimo di Gabriele. “Le giornate qui in parrocchia trascorrono tra preghiera continua e attività quotidiane necessarie di cucina, pulizia e attività per i tanti bambini che sono con noi” spiega al Sir suor Nabila che non trattiene la sua gioia per il battesimo celebrato ieri mattina, domenica, in chiesa: “abbiamo battezzato un bambino. Gli è stato dato il nome di

Gaza, il battesimo di Gabriele (Foto Parrocchia Latina)

Gabriele, l’angelo delle buone notizie, il messaggero di Dio. Quasi un annuncio della vicinanza del Papa annunciata dalla sua stessa viva voce. Ma aspettiamo con fede anche l’annuncio della fine della violenza e della guerra”. Sempre ieri, dice la religiosa, “abbiamo avuto la visita fraterna del parroco ortodosso di Gaza, padre Silas, che ha portato il saluto del vescovo greco-ortodosso di Gaza, mons. Alexios. Questa visita dimostra come nei momenti di prova ci sia unità e collaborazione tra tutti i cristiani della Striscia di Gaza.

Visita di p. Silas, ortodosso, a padre Yusuf della parrocchia latina di Gaza (Foto parrocchia latina)

Preghiamo per la Pace e per tutti gli abitanti della Striscia, cristiani e musulmani, e per tutti gli abitanti della regione. Che la Provvidenza ci sostenga”. Una preghiera, a quanto pare, ascoltata: ieri nella parrocchia una associazione umanitaria del Kuwait ha portato del cibo per pranzo, dei datteri e del pane.

80° rastrellamento ghetto di Roma. Fadlun (Com. ebraica di Roma): “Quello di oggi non è un attacco a Israele ma alla civiltà occidentale”

Lun, 16/10/2023 - 09:48

Non sarà come tutti gli anni. La memoria del rastrellamento degli ebrei dalla città di Roma che quest’anno compie 80 anni, cade in un momento drammatico per Israele e per tutte le comunità ebraiche presenti anche nel nostro Paese. Il clima è di orrore per quanto sta accadendo in Israele e di massima allerta in tutte le zone frequentate dagli ebrei romani con un livello innalzato di sorveglianza e sicurezza. È stata la premier Giorgia Meloni in persona ad assicurarlo recandosi martedì 10 ottobre in visita alla Sinagoga di Roma. “Il senso di questa visita – ha detto uscendo – è chiaramente portare la solidarietà alla comunità ebraica romana e italiana”. “Bisogna intensificare – ha proseguito – la protezione dei cittadini di religione ebraica anche sul nostro territorio perché il rischio di emulazione degli atti criminali da parte di Hamas potrebbe arrivare anche da noi”. Per il 16 ottobre, Roma Capitale, con il contributo del Ministero dell’interno, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Roma, la Fondazione Museo della Shoah e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), ha messo a punto un programma articolato di eventi e appuntamenti che dureranno una settimana ma avranno come momento culmine la cerimonia nella serata del 16 ottobre, al Portico d’Ottavia, con la deposizione di una corona di alloro lungo il muro della Sinagoga da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il Sir ne ha parlato con il presidente della comunità ebraica di Roma, Victor Fadlun.

Victor Fadlun, presidente Comunità ebraica Roma

Presidente, in quale clima la comunità ebraica romana si appresta a celebrare quest’anno il 16 ottobre?

Il 16 ottobre rappresenta la pagina più buia della storia contemporanea della mia comunità. Come sappiamo quel giorno furono strappati dalle loro case oltre 1.000 ebrei a Roma. Fu il più grande rastrellamento dei nazisti in Italia. La destinazione finale di queste persone era Auschwitz. Appena arrivati, oltre 800 furono immediatamente assassinati nelle camere a gas. Di tutti loro tornarono solo in 16, 15 uomini e una donna e nessun bambino. Fu un vero grande dramma di cui ci portiamo dentro gli effetti ancora oggi. La mia comunità è composta dai nipoti, dai bisnipoti di quelle persone. Chiaramente non si può paragonare o fare parallelismi rispetto a quello che vediamo oggi. Il contesto è completamente diverso. Oggi abbiamo un nuovo tipo di guerra: miliziani di Hamas che irrompono nelle case di ignari civili e compiono stragi. Le documentano per generare orrore e paura nella collettività. E poi mandano online quanto riprendono. I pochi sopravvissuti li strappano dalle loro case e li portano in grotte dell’orrore, dove poi saranno oggetto di altre violenze e utilizzati come merce di scambio.

Tutto questo è disumano.

Cosa significa, Presidente, che la storia purtroppo non insegna nulla?

Quello che noi stiamo affrontando oggi non è un attacco a Israele o un attacco agli ebrei. Questo è un attacco alla civiltà occidentale, ai valori di inclusione, di rispetto reciproco che abbiamo faticosamente conquistato con i grandi dolori della nostra storia recente. Chi compie questi atti, è pronto a replicarli nel nostro Occidente, in Italia, a Roma, in Francia, in Europa, negli Stati Uniti. Sappiamo che le forze del terrorismo si copiano l’una con l’altra. Israele deve riuscire a vincere questa guerra contro l’orrore, altrimenti questo orrore sarà esportato presto nelle nostre case. Lo vedremo in azione pari pari a casa nostra. 

Quale il messaggio che voi il 16 ottobre da Roma volete gridare al mondo? 

Non abbandoniamo Israele. Israele è il baluardo della democrazia in Medio Oriente. Israele deve vincere questa battaglia, deve essere sostenuto con la solidarietà e con interventi fattivi di tutto il mondo occidentale, altrimenti non sarà perso Israele, sarà perso il mondo per come lo conosciamo.

Voi come comunità ebraica di Roma, avete paura? Il 16 ci saranno delle misure di sicurezza aggiuntive. Come vive la Comunità questo stato di allerta? 

La Comunità vive con senso di gratitudine verso le nostre Istituzioni e verso le forze politiche che, unanimi, condannano questa guerra orribile e nel contempo con il ministro Piantedosi, il capo della polizia, il prefetto Giannini, tutti che si sono messi al lavoro per aumentare sensibilmente i livelli di protezione della nostra Comunità. Ma ripeto, io vedo questa vicenda nei suoi confini internazionali. È stata sferrata una guerra di ideologia contro il mondo per come lo conosciamo. Non illudiamoci che questa storia finisce in Medio Oriente. Questa storia è pronta a essere portata a casa nostra, a meno che tutti insieme non la combattiamo. 

Il Sir si rivolge in particolare alle diocesi, alle comunità cattoliche. Che parola vuole rivolgere, in particolare alle comunità di fede cristiana? 

Sostenere con amore e con gli ideali di solidarietà e di pietà cristiana un Paese e un popolo che è sottoposto a torture, che è sottoposto a un attacco inaudito.

Santa Teresa del Bambino Gesù: no reperto museale ma testimone vivente

Lun, 16/10/2023 - 09:26

Le parole d’apertura dell’esortazione “C’est la confiance”ne contengono già il sigillo: “È la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore!”, afferma Teresa e Francesco di rimando: “Soltanto la fiducia, ‘null’altro’, non c’è un’altra via da percorrere per essere condotti all’Amore che tutto dona. Con la fiducia, la sorgente della grazia trabocca nella nostra vita, il Vangelo si fa carne in noi e ci trasforma in canali di misericordia per i fratelli”.

“Genio della sua spiritualità” ma anche genio di dottrina, troppo spesso messo da parte o non compreso nella radicale originalità:

“Precisamente, il contributo specifico che Teresina ci regala come Santa e come Dottore della Chiesa non è analitico, come potrebbe essere, per esempio, quello di San Tommaso d’Aquino. Il suo contributo è piuttosto sintetico, perché il suo genio consiste nel portarci al centro, a ciò che è essenziale, a ciò che è indispensabile. Ella, con le sue parole e con il suo personale percorso, mostra che, benché tutti gli insegnamenti e le norme della Chiesa abbiano la loro importanza, il loro valore, la loro luce, alcuni sono più urgenti e più costitutivi per la vita cristiana. È lì che Teresa ha fissato lo sguardo e il cuore”.
Teresa è Dottore della scienza dell’amore: “Una delle scoperte più importanti di Teresina, per il bene di tutto il Popolo di Dio, è la sua “piccola via”, la via della fiducia e dell’amore, conosciuta anche come la via dell’infanzia spirituale. Tutti possono seguirla, in qualunque stato di vita, in ogni momento dell’esistenza. È la via che il Padre celeste rivela ai piccoli”.

Francesco ha voluto che non si guardasse a una ricorrenza per pubblicare l’Esortazione, quasi per onorarla, ma ha voluto dischiuderla in un’apertura maggiore: “La data della pubblicazione, memoria di Santa Teresa d’Avila, vuole presentare Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo come frutto maturo della riforma del Carmelo e della spiritualità della grande Santa spagnola”.

Considerata la semplicità e la brevità di vita di Teresa sembrerebbe ovvio cogliere la sua personalità, mentre Teresa fora e sfora in quanto va sperimentando: “…la scoperta del cuore della Chiesa è una grande luce anche per noi oggi, per non scandalizzarci a causa dei limiti e delle debolezze dell’istituzione ecclesiastica, segnata da oscurità e peccati, ed entrare nel suo cuore ardente d’amore, che si è incendiato nella Pentecoste grazie al dono dello Spirito Santo. È il cuore il cui fuoco si ravviva ancora con ogni nostro atto di carità. “Io sarò l’amore”: questa è l’opzione radicale di Teresina, la sua sintesi definitiva, la sua identità spirituale più personale”.
L’esistenza consumata in un oscuro Carmelo di Normandia non la ha resa avulsa dal suo secolo, Francesco ne mette in primo piano il coinvolgimento nella storia: “È vissuta infatti alla fine del XIX secolo, cioè nell’“età d’oro” dell’ateismo moderno, come sistema filosofico e ideologico. Quando scriveva che Gesù aveva permesso che la sua anima «fosse invasa dalle tenebre più fitte», stava a indicare l’oscurità dell’ateismo e il rifiuto della fede cristiana.”
Teresa non è un reperto museale e neppure una pia immagine, è testimone vivente: “Sta pellegrinando con noi, facendo il bene sulla terra, come ha tanto desiderato. Il segno più bello della sua vitalità spirituale sono le innumerevoli “rose” che va spargendo, cioè le grazie che Dio ci dona per la sua intercessione piena d’amore, per sostenerci nel percorso della vita”.

Pope Francis: St. Therese is “the breath of fresh air” for the Church

Lun, 16/10/2023 - 09:23

“From heaven to earth, the timely witness of Saint Therese of the Child Jesus and the Holy Face endures in all the grandeur of her little way”, writes Pope Francis in the apostolic exhortation “C’est la confiance”, in which he defines Saint Therese Lisieux “a breath of fresh air” for the Church, a treasure yet to be fully discovered. “In an age that urges us to focus on our ourselves and our own interests, Therese shows us the beauty of making our lives a gift”, Francis writes, almost in the form of a prayer: “At a time when the most superficial needs and desires are glorified, she testifies to the radicalism of the Gospel. In an age of individualism, she makes us discover the value of a love that becomes intercession for others. At a time when human beings are obsessed with grandeur and new forms of power, she points out to us the little way. In an age that casts aside so many of our brothers and sisters, she teaches us the beauty of concern and responsibility for one another. At a time of great complexity, she can help us rediscover the importance of simplicity, the absolute primacy of love, trust and abandonment, and thus move beyond a legalistic or moralistic mindset that would fill the Christian life with rules and regulations, and cause the joy of the Gospel to grow cold. In an age of indifference and self-absorption, Therese inspires us to be missionary disciples, captivated by the attractiveness of Jesus and the Gospel.”

“It is confidence and nothing but confidence that must lead us to Love”.

For the Pope, these words from one of the world’s most famous saints, beloved by non-Christians and non-believers alike, and recognised by UNESCO as one of the most significant figures for contemporary humanity, “say it all. They sum up the genius of her spirituality and would suffice to justify the fact that she has been named a Doctor of the Church” in 1997 by Saint John Paul II. Hers was a brief life, a mere twenty-four years, “and completely ordinary, first in her family and then in the Carmel of Lisieux”, Francis remarks, but whose extraordinary spiritual fruits, with the publication of her writings and the innumerable graces obtained by the faithful who invoked her, were promptly recognised by the Church immediately after her death. The name of Jesus “was constantly on her lips, even to her last breath.”  “Jesus is my one love”: her interpretation of the supreme statement of the New Testament: “God is love.”

The final pages of her Story of a Soul are a “missionary testament”, for  “they express her appreciation of the fact that evangelization takes place by attraction, not by pressure or proselytism.”

Saint Therese, the Patroness of the Missions, frees us from self-absorption, for – she writes – “a soul that is burning with love cannot remain inactive.” Her “little way”, the path of trust and love, also known as the way of spiritual childhood, writes the Pope, is “one of the most important insights of Therese”, which the Saint describes as follows: ““I can, then, in spite of my littleness, aspire to holiness. It is impossible for me to grow up, and so I must bear with myself such as I am, with all my imperfections. But I want to seek out a means of going to heaven by a little way, a way that is very straight, very short, and totally new”. This is the “sweet way of love”, paved by Jesus for the small and the poor, for all. “In place of a Pelagian notion of holiness, individualistic and elitist, more ascetic than mystical, that primarily emphasizes human effort – explains the Pope –  Therese always stresses the primacy of God’s work, his gift of grace. It is most fitting, then, that we should place heartfelt trust not in ourselves but in the infinite mercy of a God who loves us unconditionally and has already given us everything in the Cross of Jesus Christ.

Jesus does not demand great actions from us, but simply surrender and gratitude”.

The confidence that Therese proposes embraces the totality of concrete existence and finds application in our daily lives, “where we are often assailed by fears, the desire for human security, the need to have everything under control”:

“The complete confidence that becomes an abandonment in Love sets us free from obsessive calculations, constant worry about the future and fears that take away our peace. If we are in the hands of a Father who loves us without limits, this will be the case come what may; we will be able to move beyond whatever may happen to us and, in one way or another, his plan of love and fullness will come to fulfilment in our lives.

Not even in the great “trial against the faith” that began at Easter of 1896, in the final months of her life, did the total and faithful abandonment in Love abandon Therese, and in fact it enables her to triumph in spiritual combat, which in the face of the “darkness of atheism” led to experience “despair and sheer emptiness.” Before entering the Carmel, Therese had felt a remarkable spiritual closeness to one of the most unfortunate of men, the criminal Henri Pranzini: “By having Masses offered for him and praying with complete confidence for his salvation, she was convinced that she was drawing him ever closer to the blood of Jesus, and she told God that she was sure that at the last moment he would pardon him “even if he went to his death without any signs of repentance.” “Jesus I love you”, the act of love which became as natural to Therese as breathing, is the key to her understanding of the Gospel.

the message of Saint Therese of the Child Jesus is “a breath of fresh air for the Church”, the Pope concludes. “I shall be love” is Saint Therese’s radical preference for a Church that is not triumphalist but a “loving, humble and merciful Church”: “a great source of light for us today. It preserves us from being scandalized by the limitations and weaknesses of the ecclesiastical institution with its shadows and sins”

Papa Francesco: Santa Teresina è “aria fresca per la Chiesa”

Lun, 16/10/2023 - 09:23

“Dal cielo alla terra, l’attualità di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo rimane in tutta la sua ‘piccola grandezza’”. Ne è convinto Papa Francesco, che nell’esortazione apostolica “C’est la confiance” definisce Santa Teresa di Lisieux “aria fresca” per la Chiesa, tesoro ancora da scoprire. “In un tempo che invita a chiudersi nei propri interessi, Teresina ci mostra la bellezza di fare della vita un dono”, scrive Francesco, quasi sotto forma di preghiera: “In un momento nel quale prevalgono i bisogni più superficiali, lei è testimone della radicalità evangelica. In un tempo di individualismo, lei ci fa scoprire il valore dell’amore che diventa intercessione. In un momento nel quale l’essere umano è ossessionato dalla grandezza e da nuove forme di potere, lei indica la via della piccolezza. In un tempo nel quale si scartano tanti esseri umani, lei ci insegna la bellezza della cura, di farsi carico dell’altro. In un momento di complessità, lei può aiutarci a riscoprire la semplicità, il primato assoluto dell’amore, della fiducia e dell’abbandono, superando una logica legalista ed eticista che riempie la vita cristiana di obblighi e precetti e congela la gioia del Vangelo. In un tempo di ripiegamenti e chiusure, Teresina ci invita all’uscita missionaria, conquistati dall’attrazione di Gesù Cristo e del Vangelo”.

“E’ la fiducia e null’altro che deve condurci all’Amore”.

Queste parole di una delle sante più conosciute in tutto il mondo, amata anche da non cristiani e non credenti e riconosciuta dall’Unesco tra le figure più significative per l’umanità contemporanea, secondo il Papa “dicono tutto, sintetizzano il genio della sua spiritualità e sarebbero sufficienti per giustificare che sia tata dichiarata Dottore della Chiesa” nel 1997 da San Giovanni Paolo II. Una vita breve, 24 anni, e “semplice come qualunque altra, prima in famiglia e poi nel Carmelo di Lisieux”, sottolinea Francesco, ma i cui straordinari frutti spirituali furono riconosciuti rapidamente dalla Chiesa, già immediatamente dopo la sua morte, con la pubblicazione dei suoi scritti e con le innumerevoli grazie ottenute dai fedeli che la invocavano. Teresa “respira” continuamente il nome di Gesù, fino alla morte. “Gesù è il mio unico amore”, la sua interpretazione dell’affermazione culminante del Nuovo Testamento: “Dio è amore”.

Le ultime parole della “Storia di un’anima” sono “un testamento missionario ”perché “esprimono il suo modo di intendere l’evangelizzazione per attrazione non per pressione o proselitismo”.

Patrona delle missioni, Santa Teresina ci libera dall’autoreferenzialità, perché – come scrive – “un’anima infiammata di amore non può restare inattiva”. La sua “piccola via”, la via della fiducia e dell’amore, conosciuta anche come la via dell’infanzia spirituale, per il Papa è “una delle scoperte più importanti di Teresina”, che la santa descrive così: “Nonostante la mia piccolezza, posso aspirare alla santità. Farmi diversa da quel che sono, più grande, mi è impossibile: mi devo sopportare per quello che sono con tutte le mie imperfezioni; ma voglio cercare di andare in Cielo per una piccola via bella dritta, molto corta, una piccola via tutta nuova”. E’ la “dolce via dell’Amore”, aperta da Gesù ai piccoli e ai poveri, a tutti. “Di fronte a un’idea pelagiana di santità, individualista ed etilista, più ascetica che mistica, che mette l’enfasi principale sullo sforzo umano – spiega il Papa – Teresina sottolinea sempre il primato dell’azione di Dio, nella sua grazia. L’atteggiamento più adeguato è riporre la fiducia del cuore fuori di noi stessi: nell’infinita misericordia di Dio che ama senza limiti e che ha dato tutto nella Croce di Gesù.

Gesù non chiede grandi azioni, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza”.

La fiducia di Teresa abbraccia l’insieme dell’esistenza concreta e si applica a tutta la nostra vita, “dove molte volte ci sopraffanno le paure, il desiderio di sicurezze umane, il sogno di avere tutto sotto controllo”:

“La fiducia piena, che diventa abbandono nell’Amore, ci libera dai calcoli ossessivi, dalla costante preoccupazione per il futuro, dai timori che tolgono la pace. Se siamo nelle mani di un Padre che ci ama senza limiti, questo sarà vero qualunque cosa accada, potremo andare avanti al di là di ciò che ci succederà e, in un modo o nell’altro, si compirà nella nostra vita il suo progetto di amore e di pienezza”.

Neanche nella grande “prova contro la fede”, che cominciò nella Pasqua del 1896, durante l’ultima fase della sua vita, l’abbandono fiducioso alla misericordia divina abbandona Teresa, ed anzi è ciò che le permette di vincere il suo combattimento spirituale che, in piena temperie ateistica, le aveva fatto sperimentare “la disperazione, il vuoto del nulla”. Già prima del suo ingresso nel Carmelo, Teresa aveva sperimentato una singolare fraternità spirituale con una persona tra le più disperate, il criminale Henri Panzini: “Offrendo la Messa per lui e pregando con totale fiducia per la sua salvezza, lei è sicura di metterlo in contatto con il Sangue di Gesù e non dubita che nel momento finale Dio lo perdonerà, anche senza confessione né segno di pentimento”. “Gesù ti amo”, l’atto di amore continuamente vissuto da Teresa come il respiro, è la sua chiave di lettura del Vangelo.

Il messaggio di Santa Teresa di Gesù Bambino è “aria fresca” per la Chiesa, conclude il Papa. “Io sarò l’amore” è l’opzione radicale di Teresina per una Chiesa non trionfalistica, ma “amante, umile e misericordiosa”: “una grande luce anche per noi oggi, per non scandalizzarci a causa dei limiti e delle debolezze della istituzione ecclesiastica, segnata da oscurità e peccati”.

Sinodo. Ruffini: “Non c’è niente di segreto, ma la volontà di mantenere la riservatezza”

Sab, 14/10/2023 - 16:54

“Non c’è niente di segreto, ma la volontà di mantenere la riservatezza”. Così Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e presidente della Commissione per l’informazione, ha commentato alcuni articoli giornalistici che hanno pubblicato alcune relazioni dei 35 Circoli Minori del Sinodo dei vescovisulla sinodalità, in corso in Vaticano fino al 29 ottobre. “La segreteria generale – ha spiegato Ruffini fornendo un chiarimento in materia, durante il briefing odierno in sala stampa vaticana – ha creato un cloud per condividere alcuni documenti. Per accedervi erano necessarie delle credenziali, cioè uno user name e una password, ma alcuni partecipanti hanno avuto difficoltà, così è stato deciso di creare un link aperto a chi ne conosceva l’indirizzo per poter accedere senza credenziali. Fino alla fine del primo modulo il cloud conteneva solo documenti pubblici, ma al termine del primo modulo, viste le difficoltà di numerosi membri, sono state inserite le sintesi dei 35 gruppi di lavoro, e non i contributi personali nelle Congregazioni generali, in modo da permettere a tutti i membri di accedere con comodità alle informazioni utili”. “Non si tratta di documenti classificati, ma confidenziali per tutelare lo spazio di ascolto e di discernimento comune”, ha precisato Ruffini: “Poiché la soluzione trovata – un link riservato ma aperto – ha creato questo problema e non garantisce la confidenzialità indispensabile per mantenere il clima sinodale, sono stati reinserite il login e la password, con la disponibilità dei facilitatori e di altri addetti di aiutare chi trovasse ancora difficoltà”.

Al Sinodo, intanto, si continua a pregare per la guerra:

“Ci sono già stati due momenti di preghiera intensa sulla situazione del Medio Oriente e le guerre in generale”, ha ricordato Ruffini”. Quanto al clima che si respira al Sinodo, giunto a metà del suo cammino – in attesa della sessione dell’anno prossimo – Ruffini ha affermato: “C’è un dialogo sereno, anche quando ci sono opinioni diverse. Stiamo sperimentando la bellezza di affrontare le questioni in comunione: il Sinodo è uno straordinario esercizio di comunione anche nelle diversità. C’è lo sforzo di capire le ragioni dell’altro, per modificare anche le proprie”.

“Siamo la maggiore minoranza nel modo”. Lo h fatto notare Enrique Alarcón García, presidente di “Frater España – Fraternidad Cristiana de Personas con Discapacidad”.

In questo contesto, l’impostazione che Papa Francesco ha deciso di dare al percorso sinodale, chiamanto a partecipare anche le persone con disabilità, “è un cambio radicale: la Chiesa ci chiama, ci ascolta, vuole sapere cosa pensiamo”. Questo significa, per Alarcón García, che “per la Chiesa la strada dell’inclusione è possibile, ed è un’alternativa al paternalismo o all’assistenzialismo a cui si assiste in molte parti del mondo. È una rivoluzione importante: la gerarchia sta incominciando a capire che è possibile mantenere un dialogo. È l’inizio di un processo, spero che il Sinodo porti un cambiamento nella struttura della Chiesa, all’insegna di una partecipazione reale”.

“Tutta la mia l’ho passata con i poveri, i contadini, le comunità di base e oggi con i migranti in transito che vengono dal Sud America, dal Centro America, dall’Africa, dall’Asia e da tutte le parti del mondo”.

Così suor Maria De Los Dolores Palencia Gómez, messicana, presidente delegato, ha riassunto i suoi oltre 50 anni a servizio della Chiesa, che l’hanno portata ad essere – ieri pomeriggio – la prima donna a presiedere un’assemblea di vescovi. “E’ un modo di vivere la corresponsabilità, un invito a camminare insieme in dialogo permanente, tenendo il passo degli altri”, ha proseguito la religiosa. “La Chiesa è dialogo”, ha detto citando l’Ecclesiam suam di Paolo VI: “ed è ciò che stiamo vivendo quotidianamente nel Sinodo.

Essere la prima donna in oltre venti secoli che presiede un’assemblea dei vescovi è un un dono e insieme una responsabilità, un invito a mostrare quello che come donne possiamo mettere al servizio del Vangelo e della speranza”.

In merito alla questione, dibattuta al Sinodo, del maggior riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa, suor Gómez ha risposto: “Sento che stiamo facendo un cammino all’insegna dell’inclusione. E’ un processo che ha bisogno dei suoi tempi, e che forse non porterà ad un cambiamento immediato: l’assemblea sinodale dell’anno prossimo sarà più decisiva”.

“San Benedetto diceva che un abate deve regolare il cammino del gregge in modo che i forti non siano mortificati nella loro generosità e i deboli non siano scoraggiati”.

Per l’abate generale dell’Ordine dei Cistercensi, Mauro Giuseppe Lepori, questa regola benedettina descrive bene il clima del Sinodo. “Il valore più grande non è tanto quello che diciamo o decidiamo, ma che si mantenga la comunione della Chiesa”, ha testimoniato il religioso. Rispetto al Sinodo del 2018, a cui ha partecipato, Lepori ha osservato che “c’è un metodo nuovo: mi sto convertendo ad un ascolto in cui mi accorgo che l’ascolto dell’altro mi dice sempre la verità, anche se l’altro dice qualcosa con cui io non sono d’accordo. L’importante è ascoltarci senza che la parola mia o dell’altro ci separi, ma con una parola sempre tesa ad un’unità molto più profonda, in cui so che anche quello che l’altro dice è vero perché parte dalla sua esperienza. E questo fa bene a me, mi rende più responsabile di quello in cui credo e di dirlo con fiducia. Si è creato come una comunione, un’empatia di fondo fra tutti che ci stupisce e ci riempie di speranza.

Stiamo andando verso qualcosa che è bello per la Chiesa intera. E’ bello dargli tempo, spazio, dando la possibilità di convertire il nostro cuore a quello che Dio vuole e non a quello che abbiamo nei nostri progetti”.

Alla Festa per gli oratori la preghiera per la pace nel mondo

Sab, 14/10/2023 - 10:12

Disposti in cerchio nel quadriportico del Palazzo Lateranense circa 600 ragazzi, tenendosi per mano, hanno recitato il Padre Nostro per implorare il dono della pace nel mondo. È una delle fotografie della festa svoltasi ieri sera, 13 ottobre, in ringraziamento per gli oratori e le attività estive che nei mesi scorsi hanno coinvolto migliaia di giovani animatori della diocesi di Roma. “La gioia che stiamo vivendo è offuscata dal momento molto triste che sta attraversando il mondo. Ma la gioia porta pace e con gioia prendiamoci per mano e chiediamo al Signore di renderci tutti strumenti di pace” ha detto il vescovo ausiliare di Roma Dario Gervasi. Organizzata dall’Ufficio diocesano per la pastorale giovanile con la collaborazione del Centro oratori romani, gli scout dell’Agesci e della Fse, l’Azione cattolica e l’Anspi, la prima festa di ringraziamento è iniziata con la celebrazione eucaristica nella basilica di San Giovanni in Laterano presieduta dal cardinale vicario Angelo De Donatis. Tra i concelebranti il nuovo rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore, mons. Michele Di Tolve, e tre vescovi ausiliari che hanno accompagnato i giovani romani alla Gmg di Lisbona: il vicegerente Baldo Reina, Paolo Ricciardi e Dario Gervasi.

La navata centrale era gremita di giovani molti dei quali hanno partecipato alla Giornata mondiale della gioventù di Lisbona, altri ai campi estivi o agli oratori parrocchiali. Esperienze di condivisione e di fraternità per le quali è giunta “l’ora della gratitudine e di presentare al Signore i frutti del proprio servizio” ha detto il porporato definendo i ragazzi “il popolo dell’aurora” perché ogni volta che si aderisce alla volontà del Signore e “si compie un gesto di servizio, di tenerezza, di accoglienza” si è “testimoni di continue aurore nel mondo. La vostra grandezza – ha aggiunto – è il servizio, la vostra forza è l’amicizia con il Signore e tra di voi”. Guardando gli animatori, che avrebbe voluto abbracciare “uno per uno” per ringraziarli del “dono fatto alla Chiesa e alla città di Roma”, De Donatis si è detto certo che “le fatiche e le gioie del servizio, del pellegrinaggio e della condivisione” hanno permesso loro di comprendere i due segreti della felicità. “Essere amici di Dio ed essere generosi – le parole del cardinale -. Credere e amare donano unità e non disperdono, non dividono interiormente. Questi due pilastri hanno regalato pace”. Accanto all’altare era stato disposto un ritratto del beato Carlo Acutis che la Chiesa celebra il 12 ottobre. Auspicio del cardinale è ritrovarsi ogni anno, proprio nel giorno della memoria liturgica del beato, morto a soli 15 anni nel 2006, per “restituire al Signore ciò che si è ricevuto dal Suo amore”.

L’invito è quello di essere capaci, come Carlo, di dire sempre sì all’amore del Signore “a casa, a scuola, tra gli amici, all’Università, in parrocchia. Un sì gioioso, stabile, certo, affidabile, coraggioso e definitivo”. Don Alfredo Tedesco, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale giovanile, ha ricordato che in questi giorni la liturgia propone spesso l’immagine della vigna. “Stiamo vivendo il periodo della vendemmia, il raccolto meraviglioso di questa estate” ha affermato soffermandosi sull’esperienza della Gmg che la diocesi di Roma ha vissuto con altre undici diocesi del Lazio. Oltre 1.300 ragazzi che hanno raggiunto Lisbona dopo un lungo viaggio in nave. “Una grande esperienza di fede, per tanti un cambio di vita” ha affermato. Anche da don Alfredo l’invito a pregare per la pace. “Mettiamo in questa Eucaristia la terra di Gesù e le guerre che attanagliano il mondo” ha detto. Durante la festa nel cortile del Vicariato ha illustrato i prossimi appuntamenti della Pastorale giovanile di Roma a partire dalla Gmg diocesana che sarà celebrata domenica 26 novembre, solennità di Cristo Re. I giovani romani parteciperanno alla Messa presieduta da Papa Francesco a San Pietro alla quale seguirà un momento di festa nel centro storico. Dal 2 al 7 gennaio è in programma un pellegrinaggio la cui destinazione è ancora da stabilire. “Doveva essere in Terra Santa – ha spiegato don Alfredo -. lo faremo comunque in altro luogo pregando sempre per la pace”.

A breve prenderanno il via anche le visite nelle parrocchie a cura della pastorale giovanile diocesana, una missione alla scoperta delle realtà territoriali. Per la prossima estate si pensa ad un pellegrinaggio a Taizé. La parola è quindi passata ai ragazzi che hanno parlato delle attività alle quali hanno partecipato questa estate. Mirko, della parrocchia San Giovanni Leonardi, è stato animatore dell’oratorio estivo. Per lui l’Ores è “sinonimo di comunione, musica e divertimento”. Giulia ha invece vissuto l’esperienza del Villaggio oratorio, ossia “la settimana di formazione per animatori, catechisti e animatori che vogliono mettersi al servizio dei bambini in oratorio”. Per descrivere il Villaggio ha scelto le parole “comprensione, felicità e casa” perché per lei “tutto ciò che riguarda la Chiesa è analogo al clima familiare di casa”. Silvia, della parrocchia San Bonaventura da Bagnoregio, questa estate è stata animatrice in oratorio e ha partecipato sia alle giornate di formazione al Villaggio sia al pellegrinaggio che l’ha portata a Lisbona. La Gmg è stata “un’esperienza di crescita e fratellanza. Ho capito che ho tanti fratelli nella fede e ho compreso quali sono le cose essenziali della vita” ha detto. I rover e le scolte del clan Phoenix del gruppo scout Agesci Roma 15 hanno invece partecipato al campo estivo. Per loro “un’estate scout piena di sorrisi, di gioia e di vita”.

Parrocchia di Sant’Antonio di Padova del quartiere di Carbonara a Bari. Viaggio in Albania con i giovani per essere Chiesa in uscita

Sab, 14/10/2023 - 10:02

Un viaggio per uscire da se stessi, conoscere quante sofferenze ci sono nel mondo, aprire il cuore agli altri, attraverso una solidarietà concreta verso chi vive il disagio. È stato questo, in sintesi, il senso del viaggio promosso dalla parrocchia barese di Sant’Antonio di Padova del quartiere “Carbonara”, in una delle periferie più complesse della città e della diocesi di Bari-Bitonto. La meta, ci spiega il parroco, don Alfonso Giorgio, che è anche l’assistente ecclesiastico nazionale del Mac-Movimento apostolico ciechi, è stata l’Albania, nelle realtà più abbandonate ed emarginate, in particolare a Valona. “Ci siamo inseriti”, precisa il sacerdote, nel progetto del “Gruppo Quetzal” onlus, un’associazione apolitica, di ispirazione cristiana e cattolica, che si occupa di volontariato e cooperazione in Italia, America Latina e Albania.

“È stata una grande gioia andare in Albania e vivere questa esperienza di slancio missionario, nello stile della Chiesa in uscita che non rimane chiusa nel proprio territorio ma va oltre, per raggiungere le periferie e soprattutto le periferie esistenziali”, dichiara il parroco, che ha voluto portare con sé, in questo viaggio, 7 giovani – due minorenni, un ragazzo di 16 anni, una ragazza di 17 e il resto ventenni – e con loro ha raggiunto l’Albania anche la presidente del Gruppo Quetzal, Elsa Di Noia. “I giovani prevalentemente sono studenti, alcuni dei quali lavorano pure – racconta don Giorgio -, li ho invitati proprio perché prendessero in qualche modo atto di quella che è la realtà fuori dal loro mondo e, dal vivo, conoscessero queste situazioni, uscendo un po’ dal loro campo ristretto che molto spesso è relativo al mondo dei social, di internet, dello smartphone e del cerchio dei soliti amici”.

Il Gruppo Quetzal, con cui si è organizzato il viaggio, “fa capo anche alla parrocchia di Sant’Antonio di Padova – chiarisce don Alfonso – e già da molti anni aiuta bambini dell’orfanotrofio a Valona e il centro con i ragazzi con disabilità, realtà statali che risalgono a molto tempo fa e che comunque vengono sostenute da diverse realtà e associazioni. Non manca l’impegno dello Stato ma, essendo poche le risorse, risulta insufficiente, non riuscendo a offrire un servizio esaustivo. Per questo, volentieri è accettato l’intervento di volontari dell’associazione che da tempo è impegnata in un progetto di sostegno attraverso attività ludiche e di cura sanitaria e sociale per gli orfani e anche per i ragazzi con disabilità”. Attualmente l’orfanotrofio è ridotto nei numeri in quanto “c’è un cambio di prospettiva e il governo vuole trasformare l’istituto in una casa famiglia. Molti bambini sono stati dati in adozione. Durante la nostra visita i bambini presenti erano pochissimi. L’aiuto, quindi, ora non si limita più ai pochi ospiti dell’orfanotrofio, ma anche ai bambini di famiglie povere del territorio. I nostri ragazzi sono rimasti molto colpiti e toccati dall’affetto dei bambini dell’orfanatrofio e anche l’esperienza al centro dei ragazzi e delle ragazze con disabilità è stata molto arricchente. I ragazzi ci hanno accolto con gioia. I giovani della parrocchia hanno corrisposto con molto amore alla richiesta di affetto e contatto di quei ragazzi”.

(Foto: don Alfonso Giorgio)

Anche le Suore Francescane Alcantarine del centro San Francesco, nel villaggio Babice, alla periferia di Valona, collaborano con l’orfanotrofio e il centro disabili, oltre ad accogliere, ogni giorno, nel loro centro un centinaio di bambini di ogni estrazione ed età, per formarli al dialogo, all’incontro con l’altro, sostenendo anche le loro famiglie, soprattutto le meno abbienti. “Ho apprezzato molto – dichiara il sacerdote – che le Suore cerchino di integrare i ragazzi e le ragazze con disabilità con i bambini del Centro, prelevandoli dall’Istituto ogni giorno. Ed è proprio in questo ambito che si potrebbero inserire i nostri volontari, in futuro”. Nel viaggio c’è stata una puntata anche a Flak, una località vicino Durazzo, per incontrare i ragazzi e le ragazze di un centro informatico gestito dalle Suore del Cenacolo e che è sostenuto anche dal Gruppo Quetzal onlus.

A Scutari c’è stata la visita all’arcivescovo, mons. Angelo Massafra. Tra i momenti forti del viaggio in Albania, c’è stato anche l’incontro a Scutari con fra Vincenzo Focà, vice postulatore della causa di beatificazione dei martiri albanesi, e la visita alle celle in cui furono rinchiusi, al tempo del comunismo. “È stato un momento toccante quando ho chiesto ai ragazzi di stare da soli per tre minuti nelle celle, dove erano stati rinchiusi i martiri, per immedesimarsi in quello che hanno vissuto, pensando a quanta fede hanno avuto per sopportare tante torture, persino crocifissioni, mentre la nostra fede tante volte è mediocre o addirittura superficiale. L’invito è stato guardare ai martiri per capire come vivere la fede, con audacia. Li ho sentiti anche singhiozzare mentre erano nelle celle”. C’è stata anche “una visita alle stimmatine dove sono conservati i resti mortali di una giovane e bella novizia, la beata Maria Tuci, che dopo essere stata arrestata si è rifiutata di concedersi ai capi del regime e per questo ancora più torturata”.

Un’altra tappa è stata al santuario dedicato a Sant’Antonio di Padova (Kisha e Shen Ndout), che “ha contribuito a fare la storia del cristianesimo in Albania”. Si trova su di una altura, di circa 500 metri, alle spalle del territorio di Laç, piccola cittadina a sud di Lezhë. “La piccola chiesa, con tutto lo spazio circostante, è diventata uno centro di culto frequentato non solo dai cristiani. Abbiamo visto in preghiera musulmani, come pure cristiani ortodossi e nell’uscire dal santuario indietreggiare in modo da non dare mai le spalle al Santo. È noto che in Albania, indipendentemente dal proprio credo religioso, chi emette un giuramento, giura quasi sempre su sant’Antonio di Laç”.

(Foto: don Alfonso Giorgio)

Don Alfonso offre un bilancio: “Il viaggio, con il suo doppio valore sociale e spirituale, di recupero della fede e di slancio missionario, è andato bene. Già alcuni ragazzi hanno deciso di voler tornare come volontari dopo aver fatto esami nel loro percorso di studi e per la prossima estate hanno già chiesto informazioni, vogliono stare lì con i bambini per un mese. Sono stati entusiasti di questa esperienza, che è servita a far crescere in loro il desiderio di servire e donare il proprio tempo ai più poveri sulle orme di don Tonino Bello, nostro riferimento spirituale, per porci al passo degli ultimi”. Ora, l’auspicio, “tocca anche ai ragazzi che sono stati in Albania coinvolgere loro coetanei e tutta la comunità in un concreto processo sinodale di ascolto e aiuto verso i più svantaggiati”. La solidarietà, infatti, si può vivere anche in parrocchia dove “abbiamo una mensa dei poveri da 12 anni, un centro di ascolto e un centro di orientamento sanitario”.

In sala “L’ultima volta che siamo stati bambini” e “Dogman”, su Prime Video “Everybody Loves Diamonds”

Sab, 14/10/2023 - 10:02

Custodire la memoria, soprattutto in tempi fragili e incerti. L’opera prima di Claudio Bisio, “L’ultima volta che siamo stati bambini”, dal romanzo di Fabio Bartolomei, ci consegna una storia di infanzia sognante messa alla prova della crudezza della Seconda guerra mondiale. Un film dolce, marcato dai toni della favola, pensato per ricordare il drammatico rastrellamento del Ghetto di Roma nel suo 80° anniversario (16 ottobre 1943) e per rafforzare la memoria comune sui crimini del nazi-fascismo e l’orrore della Shoah. Un’opera che esce al cinema, con Medusa, in una cornice temporale difficile, che nessuno poteva immagine. Ancora, al cinema con Lucky Red l’intenso “Dogman” firmato dal geniale regista francese Luc Besson, che orchestra un racconto sociale di disperante solitudine, che sembra perdersi in derive fosche alla “Joker” per poi aprirsi invece alla grazia. Eccellente la prova di Caleb Landry Jones. Infine, su Prime Video la serie giallo-poliziesca “Everybody Loves Diamonds” sul clamoroso furto di diamanti ad Anversa nel 2003. La regia è di Gianluca Maria Tavarelli, protagonisti Kim Rossi Stuart, Anna Foglietta e Gian Marco Tognazzi. Il punto Cnvf-Sir.

“L’ultima volta che siamo stati bambini” (Cinema, 12.10)
Il debutto alla regia di Claudio Bisio con “L’ultima volta che siamo stati bambini” è stato suggellato dalle splendide parole della senatrice Liliana Segre. “Caro Claudio – ha scritto – ho molto apprezzato il tuo film perché hai saputo rendere la freschezza e l’innocenza dei bambini con un tratto talmente sensibile da offuscare la tragedia che c’è sullo sfondo”.

Adattamento del romanzo omonimo di Fabio Bartolomei, il film si snoda come un racconto di formazione nel periodo più tragico della storia del XX secolo: la Seconda guerra mondiale, durante la follia nazi-fascista. Un film che si pone sul terreno della custodia della memoria, il ricordo della Shoah, sposando una prospettiva di racconto originale, in linea con il registro di opere come “La vita è bella” (1997), “Train de vie” (1998) e “Jojo Rabbit” (2019): storie che esplorano l’orrore, le stanze del Male, ricorrendo a sguardi puntellati di umorismo gentile e ironia acuta. Il film di Bisio segue questa traiettoria, scegliendo di posizionare la macchina da presa ad altezza di bambino. Protagonisti i giovani Alessio Di Domenicantonio, Vincenzo Sebastiani, Carlotta De Leonardis e Lorenzo McGovern Zaini, affiancati da Marianna Fontana, Federico Cesari e Antonello Fassari.

(Alessio Di Domenicantonio Vincenzo Sebastiani Lorenzo McGovern Zaini @Federica DiBenedetto)

La storia. Roma, 1943. I preadolescenti Italo, Cosimo, Vanda e Riccardo giocano con innocenza alla guerra mentre sullo sfondo risuona l’allarme per i veri bombardamenti. Quando Riccardo, appartenente a una famiglia ebrea, scompare all’improvviso, gli amici decidono di indagare e scoprono così che è stato messo su un treno per la Germania. Italo, Cosimo e Vanda non si perdono d’animo e si mettono in marcia per andare a liberare l’amico…

“L’ultima volta che siamo stati bambini” rivela chiaramente il suo intento educativo, il suo farsi portatore dei valori della memoria e al contempo di sensibilizzazione verso i pericoli dell’odio e dell’intolleranza, di ieri e di oggi. Il film, che ha potuto contare sull’appoggio della Comunità ebraica di Roma, esce in occasione dell’80° anniversario dei rastrellamenti del Ghetto di Roma, il 16 ottobre del 1943.

Bisio si misura dunque con un genere ormai consolidato, ma di certo sempre scivoloso per la delicatezza del tema e per la scelta del linguaggio da adottare. La sua vis umoristica come attore torna utile qui nel gestire situazioni e tempi comici affidati ai giovani (bravissimi) interpreti. Il film viaggia spedito come un racconto avventuroso brillante, un road-movie che richiama cult alla “Stand by Me” (1986) e “I Goonies” (1983). A un certo punto fa ingresso il realismo della guerra, il Male, e il film vira su note più dolenti.

Ottime le intenzioni dell’opera, dell’autore, che sono da valorizzare e supportare; da un punto di vista stilistico-formale, però, non si può non scorgere qua e là qualche ingenuità di troppo o soluzioni un po’ acerbe, esposte a inciampi didascalici o mielosi. Nell’insieme “L’ultima volta che siamo stati bambini” risulta un’opera valida, soprattutto per una visione in chiave scolastica e familiare. Consigliabile, problematico, per dibattiti.

“Dogman” (Cinema, 12.10)
Un titolo che ha lasciato il segno a Venezia80, anche se non ha ricevuto i riconoscimenti sperati. Parliamo dell’intenso dramma esistenziale “Dogman” firmato dal regista francese Luc Besson, autore di opere di risonanza come “Le Grand Bleu” (1988), “Nikita” (1990), “Léon” (1994) e “Il quinto elemento” (1997). Besson torna dietro alla macchina da presa per raccontare una storia di sofferenza ed emarginazione, disegnando un’istantanea sociale del nostro presente nella direzione in cui si era già mosso Todd Phillips con il suo bellissimo e sfidante “Joker” (2019). A ispirarlo, un fatto di cronaca.

La storia. Stati Uniti oggi, Douglas (Caleb Landry Jones) è un giovane uomo che viene arrestato dalla polizia mentre, vestito da Marylin Monroe, è alla guida di un furgone pieno di cani. Condotto in cella, è interrogato dalla psichiatra Evelyn (Jojo T. Gibbs). Douglas si dimostra subito collaborativo raccontandole la sua storia, a partire dall’infanzia con percosse e violenze psicologiche, richiuso per lungo tempo in una gabbia con diversi cani. Esperienza che lo ha segnato irreparabilmente, facendogli perdere fiducia negli esseri umani ma trovando solido conforto negli amici a quattro zampe…

(DOGMAN – Actor Caleb Landry Jones -Credits_Shana_Besson)

“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”. È la riflessione del poeta Alphonse de Lamartine che apre il film di Luc Besson. L’autore si addentra nella società americana per raccontare una storia di privazioni, violenza e di riscatto. Besson compone un quadro sociale livido e tragico, il racconto di un “ultimo” rifiutato da tutti, in primis dai suoi genitori, che trova conforto solo negli amici animali. Douglas – magnifica l’interpretazione di Caleb Landry Jones – è un povero disgraziato che non appare molto distante dall’Arthur Fleck di “Joker”, che alla fine decideva di abbandonarsi alla violenza per vendicare ingiustizie e delusioni subite. In “Dogman” apparentemente la traiettoria sembra simile, dai riferimenti tematici alla messa in scena, compreso lo stile fosco; il film però prende una piega diversa – nonostante la violenza sia un elemento centrale, in linea con “Nikita” e “Leon” –, delineando l’animo di Douglas non incline a perdersi nei sentieri del Male (a differenza di Arthur Fleck), bensì desideroso di guadagnare la pace, di un abbraccio riconciliante. “Dogman” è scandito anche da un ricorrente simbolismo religioso, da alcuni rimandi cristologici, non lontani dalle suggestioni di “The Whale” e “Gran Torino”. Un film denso, sfidante per temi e violenza, marcato anche da poesia. Complesso, problematico, per dibattiti.

“Everybody Loves Diamonds” (Prime Video, 13.10)
Il furto del secolo arriva su Prime Video. A raccontarlo è la serie “Everybody Loves Diamonds”, 8 episodi diretti da Gianluca Maria Tavarelli (“Il giovane Montalbano”, “Maltese”), con protagonisti Kim Rossi Stuart, Anna Foglietta, Gian Marco Tognazzi, Carlotta Antonelli, Leonardo Lidi, Rupert Everett e Malcom McDowell. Ispirato a una storia vera, la serie è firmata dall’head writer Michele Astori; una produzione Wildside – Gruppo Fremantle e Prime Video.

La storia. Belgio 2003, Leonardo Notarbartolo si finge un gioielliere, esperto in diamanti, per entrare nel Diamond Center di Anversa. Il suo obiettivo è scassinare l’inaccessibile caveau, grazie al supporto di una banda di professionisti. Il colpo del secolo viene messo a segno la notte del 14 febbraio…

(Cop. Prime Video)

La serie corre veloce su un binario comico e giallo-“heist”, richiamando i classici del genere da “I soliti ignoti” (1958) alla trilogia “Ocean’s” (2001-07), sino a recenti titoli come “Lupin” e “La casa di carta” (Netflix). A giudicare dai primi episodi, la serie possiede di certo una buona dinamica e chiaro ritmo – merito anche della regia esperta di Tavarelli –, muovendosi con fluidità tra i vari registri del racconto. Lo stile visivo è curato, forse un po’ patinato, il tono narrativo coinvolgente, attento a solleticare l’attenzione del pubblico rompendo anche la cosiddetta “quarta parete”: Kim Rossi Stuart si rivolge spesso in camera, allo spettatore. Nell’insieme “Everybody Loves Diamonds” presenta una narrazione agile e godibile, una proposta interessante pensata più per l’evasione che per rimettere al centro dell’attenzione un fatto di cronaca. Consigliabile, problematico, per dibattiti.



I Beati Coniugi Beltrame Quattrocchi visitano la loro amata Napoli

Sab, 14/10/2023 - 10:02

Papa Francesco aprendo i lavori del Sinodo, mercoledì 4 ottobre, ha spiegato ai partecipanti: “È una pausa di tutta la Chiesa, in ascolto”. In ascolto reciproco, per affinare l’attenzione cercando di sentire la voce dello Spirito Santo, vero autore di “quell’armonia che non è sintesi, è un legame di comunione fra parti dissimili”. Una Chiesa, dunque, che sa mettersi per strada, rischiando il viaggio e rinunciando ad accontentarsi di “tirare avanti” perché apparteniamo al “santo popolo fedele di Dio”, come si legge nella Evangelii gaudium. Dal lavoro sinodale, che pone al centro il silenzio più che la parola, il discernimento prima della presa di posizione, la preghiera come fondamento di ogni passo emergerà un modo di essere cattolici nel mondo che abitiamo, contorto e incerto com’è, sfidante per una fede che dovrà essere sempre più capace di tradursi in opere e cultura dentro il secolo delle nuove questioni umane e globali, e ancor prima quanto siamo radicati nella Chiesa e impegnati a stare con il Papa che la guida. È in questa esperienza profonda di ascolto e creatività, che la Chiesa di Napoli accoglierà in Cattedrale per la venerazione, sabato 14 e domenica 15 l’artistica urna contenente le reliquie dei Beati Coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, prima coppia nella storia della Chiesa ad essere innalzata agli onori degli altari da San Giovanni Paolo II il 21 ottobre 2001; e che Papa Francesco nel X incontro internazionale delle famiglie accolse nell’Aula Paolo VI.
Un programma ricco di momenti di preghiera e riflessione in cui i protagonisti sono dei Coniugi insieme alla loro famiglia. Essi hanno narrato la bellezza, la freschezza, la novità di vivere il Vangelo, attingendo la grazia proprio dal sacramento stesso del matrimonio, poggiando la loro opera educativa sull’esempio e l’accompagnamento spirituale; in questo modo hanno ricostruito, indicato e consegnato il progetto originario di pace e armonia a tutte le famiglie. Un evento straordinario come questo: “i Coniugi Beltrame Quattrocchi visitano la loro amata Napoli”, è un forte invito a camminare sulla via della santità, significa incontrare e conformarsi a Cristo.
Venerare le Loro reliquie, vero e proprio tabernacolo dello Spirito per come hanno vissuto il loro legame con Dio, significa cogliere e percepire una vera e propria testimonianza di luce, come è stata la vita dei Beati. San Paolo dice nella prima lettera ai Corinzi: “Siate miei imitatori, come anche io lo sono di Cristo”. Dunque, l’invito a imitare l’esempio di santità di questi Coniugi, con l’obiettivo di percorrere la nostra via verso la santità, che è l’incontro con Cristo, il vivere profondamente il Vangelo. La venerazione delle reliquie diventa allora l’occasione per raggiungere la vera fonte della santità, che è Gesù. Insomma, venerare il Santo, ma riflettendo sulla propria vita e sul proprio percorso di santità. I Beati Coniugi sono degli intercessori potenti presso Dio, sono una “porta” per arrivare alla fonte che è Dio. Non c’è modo migliore di vivere bene questo pellegrinaggio e venerazione delle reliquie che partire anzitutto da una conoscenza approfondita della vita di questi Coniugi e conoscere lo specifico che li ha resi Coniugi Beati. Ma questa è solo la prima parte, quella propedeutica al passaggio più importante: l’incontro con Cristo nell’eucarestia e nel sacramento della riconciliazione. Due momenti nel quale possiamo giungere alla fonte della santità. Le Loro reliquie in mezzo a noi, ci riconsegnano uno sguardo rinnovato, ci mostrano la possibilità, la capacità di generare un’esistenza dedicata in modo eccezionale a Dio e alla Chiesa, insegnandoci che la santità come – accoglienza, perdono, ascolto, preghiera, offerta, ringraziamento, missione – non va cercata lontano, ma che essa può abitare tra le nostre case, sulle strade della nostra quotidianità.

(*) Postulatore delle Cause dei Santi

Padre Carmelo: una porta aperta alla speranza

Sab, 14/10/2023 - 09:54

“Tenete a mente che chi semina con larghezza con larghezza raccoglierà” (2Cor. 9,6). È forse uno dei passi della Scrittura che più di altri descrive la vita e l’opera di padre Carmelo Di Giovanni nei suoi 43 anni vissuti a Londra come parroco della Chiesa italiana di San Pietro a Londra. Punto di riferimento prezioso per gli italiani immigrati, la Saint Peter Church è stata fondata nel 1863 da San Vincenzo Pallotti e ancora oggi accoglie migliaia di nostri connazionali. Per chiunque lo abbia fatto, varcare le porte di quella chiesa è significato sentirsi a “casa” perché per padre Carmelo non c’erano infatti orari né chiusure. Anzi. Come suggerisce il titolo del suo ultimo libro, “Una porta aperta. 4 Back Hill, Londra” (Ancora edizioni), barriere per tenere lontani anche gli indesiderabili non ce ne erano. Il prete, semplicemente il prete. Questo è stato e questo ha fatto padre Carmelo durante i suoi anni di missione a Londra. Un sacerdote attento ai bisogni di tutti e di ciascuno, che per scelta non ha mai voluto fare “vita da sagrestia” scegliendo ogni giorno di essere accanto e non abbandonare, di guidare e sostenere, di ammonire e accogliere, di rischiare e dare fiducia. In una parola di seminare “il bene” e con larghezza appunto. E alla presentazione del suo libro presso la Sala Zuccari del Senato, erano in tanti. Da Davide Serra, manager e Imprenditore a padre Zenon Hanas Rettore generale della Società dell’Apostolato Cattolico, da padre Vittorio Trani, cappellano del carcere romano di regina Coeli a Mons. Paolo Lojudice arcivescovo metropolita di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino-Montepulciano-Chiusi-Pienza. Manager di successo, deputati, ex terroristi, artisti di successo, padri e madri di famiglia. Uomini e donne però tutti segnati dall’incontro, allora come oggi, con questo vulcanico sacerdote e dal suo desiderio di dare luce e speranza a chiunque fosse nel buio e nella tristezza. Frutti e allo stesso tempo testimoni di questa splendida e generosa semina, desiderosi di raccontare la quotidianità di un prete capace di vivere l’ordinario in maniera straordinaria. Nel testo, così come nelle testimonianze ascoltate, sono stati ripercorsi gli anni più duri della missione inglese del religioso. Anni segnati dalle difficoltà e dai mali del tempo. Padre Carmelo sbarca a Londra nel settembre del 1971 e con coraggio inizia la sua missione ad gentes che però non si esaurisce nell’ambito della parrocchia. In quel periodo infatti deve confrontarsi col problema della tossicodipendenza, una piaga che non risparmia i giovani immigrati italiani. Dalla tossicodipendenza all’AIDS il passo è breve. Il virus letale che, a partire dagli anni ’80, inizia a diffondersi a macchia d’olio e a mietere vittime in tutto il mondo. Toccherà proprio a lui assistere in un carcere britannico il primo morto di Aids: è un giovane italiano. Sì, il carcere, la sua seconda parrocchia. Vi entra la prima volta su richiesta dell’Istituto di pena di Wormwood Scrubs per seguire un giovane detenuto italiano che aveva tentato il suicidio. A quella prima visita ne seguirono molte altre effettuate nelle carceri di tutto il mondo.
Nella sua vita, padre Carmelo ha incarnato e accolto con speranza e coraggio, l’invito che Papa Francesco fin dall’inizio del suo pontificato non ha mai smesso di ricordare al mondo: essere una chiesa in uscita.
“Una volta usciti dal carcere – racconta – i ragazzi bussavano alla parrocchia. Abbiamo rischiato tanto perché la porta aperta ha condotto anche a dei contenziosi con la polizia. Ma credevo che fosse una parte fondamentale della nostra funzione accogliere tutti. Gesù incontrava la gente per la strada mentre noi abbiamo paura di uscire. Credo però che stia nascendo ora una Chiesa più nuova, più bella”. Altro capitolo della vita di questo religioso dal sorriso solare è quello segnato dal terrorismo. Negli anni di piombo in Italia e poi nelle carceri inglesi, padre Carmelo entra in contatto con tutti: i brigatisti, i Nar, gli appartenenti all’Ira irlandese e poi all’organizzazione basca Eta.
“La sofferenza dei detenuti è grande, ma quella dei detenuti innocenti ha un volto indescrivibile – ha detto don Vittorio Trani cappellano del carcere romano di Regina Coeli – e padre Carmelo ha saputo e sa accoglierla facendola propria condividendo il dolore con la persona colpita. Sa stare accanto alla gente, con semplicità”.
L’esperienza del carcere gli impartisce lezioni dure ma anche un’inesauribile speranza che traduce nel St. Peter’s project, il progetto nato per aiutare i malati, i tossicodipendenti e i detenuti. “È stata un’esperienza varia e ricca – dice padre Carmelo – ed è qui che la parrocchia aveva realmente una porta aperta come il cuore di Cristo. Il rischio c’era. Ma siamo chiamati a rischiare. Gesù non è mieloso. A volte è anche duro, non approva tutto”.
Nella foto scelta per la copertina del libro, il parroco è ritratto di spalle mentre apre la porta di una cella: “È quella del carcere di Londra. Quando andavo a trovare i detenuti, quelli in prigione per terrorismo pensavano che fossi una spia perché avevo tutte le chiavi che il direttore mi metteva a disposizione. Anche quando conducevo con me personalità in visita potevo trasferire i detenuti per gli incontri. Tutti, specie gli italiani, erano stupiti per la fiducia che il sistema inglese di giustizia mi accordava”.
Sono centinaia i ragazzi che padre Carmelo ha seguito in percorsi tortuosi. Alcuni hanno ritrovato la giusta direzione, altri invece si sono interrotti bruscamente.
Oggi padre Carmelo vive a Roma. All’inizio, nel 2013, il ritorno in Italia è stato traumatico: “mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Ho trovato difficile adattarmi anche ai mezzi pubblici. Ho ripreso il lavoro a Regina Coeli dove ho incontrato papa Francesco che amo da morire, è l’uomo di Dio. È maltrattato perché purtroppo la Chiesa è piagata dalla ipocrisia”.
Infine, nel libro, oltre ai numerosi ringraziamenti, anche la descrizione degli incontri particolari con persone importanti e famose. Tra tutti spicca quello con Madre Teresa di Calcutta. “Veniva spesso a Londra. Era una donna meravigliosa dall’aspetto fragile che emanava una luce spettacolare. Per me è stato un punto di riferimento forte”.

 

La teologia del popolo secondo Papa Francesco

Sab, 14/10/2023 - 09:54

“L’essere umano è sempre culturalmente situato, natura e cultura sono strettamente necessari” con questa frase di Papa Francesco si è aperta la presentazione e il relativo dibattito, sul libro del giovane Dante Monda presso la sede dei missionari vincenziani a Roma lo scorso sabato, nel parco-orto di “Mediterranea Rete”. Il volume, edito da Morcelliana dal titolo “Papa Francesco e il popolo. Una sfida per la Chiesa e la democrazia” è il brillante inizio di una ricerca che l’autore fa del magistero di Bergoglio con particolare attenzione alla sua “teologia politica”. A discutere con l’autore del saggio erano presenti Giovanni Grasso, giornalista di lungo corso e attualmente Consigliere per la stampa e la comunicazione della Presidenza della Repubblica, e Tommaso Giuntella inviato politico di Rai3. Al centro del dibattito la nozione di “popolo” nel magistero di Papa Francesco e la stretta correlazione tra la “comunità” e la giusta “narrazione” della stessa secondo l’assunto che ogni popolo nasce anche dal racconto che fa di se stesso.
Per Grasso “il magistero di Francesco è certamente profetico”, in quanto prima di altri ha compreso la crisi della democrazia occidentale e della partecipazione che ha escluso via via la parte maggioritaria della popolazione. “Egli – ha proseguito il Consigliere di Mattarella – indica tematiche che dovranno essere al centro dell’agenda politica dei nostri paesi. Il suo insistere continuamente sulla crisi climatica racconta della sua preoccupazione rispetto alle pesanti ricadute economiche e sociali che tali crisi avrà sofferenza popoli e paesi”. Secondo Grasso “la nostra è una politica asfittica, che guarda che al breve periodo. Per questo il Papa mette il dito nella piaga della scarsa lungimiranza dell’Occidente”.
“Il tema alto, globale, del clima – ha detto durante suo intervento Dante Monda, autore del libro, docente di storia e filosofia –, come la freccia scagliata in alto per andare più lontano secondo l’immagine di Machiavelli, ci dice che dobbiamo guardare più in profondità se vogliamo capire che la crisi che investe l’Occidente da oltre trent’anni è più il segno di una transizione se non addirittura di un collasso”. Ma la riflessione del Papa è sempre stata un insieme di “et … et”, come ricorda e conferma la celebre locuzione “il pastore deve avere l’odore delle pecore” che per il giornalista Tommaso Giuntella è il segno inequivocabile di una compartecipazione della Chiesa “alla costruzione di un popolo. Stare tra la gente – ha sottolineato l’inviato politica della Rai – vuol dire assecondare l’emergere di una comunità”; vuol dire emersione che è anche movimento perché “questo Papa è autore di un pensiero aperto, legato alla frontiera, alla ricerca della periferia umana ed esistenziale”. Non dice andate, ma andiamo. Del resto “aiutare il prossimo, non è solo un precetto morale e religioso, ma un insegnamento con precisi risvolti politici” ha aggiunto ancora Giovanni Grasso.
La serata, oltre che opportunità di assistere ad una discussione franca, è stata anche l’occasione di proporre una raccolta di fondi per le iniziative di Mediterranea Rete, l’associazione culturale nata nel 2018 da un progetto della Società di San Vincenzo de Paoli che ha messo a disposizione un parco di due ettari di fianco a Villa Doria Panphilj e la Cooperativa Medihospes che gestisce diversi Centri di accoglienza SPRAR a Roma. Un progetto che si avvale del contributo di amici giardinieri, ortolani, artisti, grafici, stilisti, architetti, designer e grazie al sostegno e a collaborazioni con associazioni, enti e università, da un lato intende sfruttare le potenzialità del terreno a disposizione e dall’altro cerca sviluppare le capacità e le risorse del gruppo di migranti che provengono prevalentemente dall’Africa Subsahariana al Medio Oriente. Una molteplicità di attività che giorno dopo giorno crea una piccola comunità di lavoro molto coesa e ricca di risorse e competenze. Tra queste, anche la capacità di fabbri e falegnami con i quali si avvia da subito la costruzione di elementi come tavoli, panche, bancali per il vivaio, realizzati esclusivamente con materiali poveri o di scarto.

Ultimatum di Israele. Capi delle Chiese di Gerusalemme: “Civili innocenti ricevano cure e aiuti. C’è ancora tempo per fermare l’odio”

Sab, 14/10/2023 - 09:44

Sono proseguiti nella notte a Gaza raid aerei e incursioni via terra delle Forze armate israeliane mentre continuano gli appelli delle organizzazioni umanitarie ad Israele perché revochi l’ordine di evacuazione dei palestinesi che abitano nel nord della Striscia.

(Foto ANSA/SIR)

Una richiesta in tal senso è stata inoltrata ad Israele da 12 ong internazionali, tra cui Oxfam, attive nella Striscia: “il trasferimento della popolazione, in tempi così brevi, mette a rischio la vita di coloro che sono costretti a fuggire. Al sud non ci sono strutture adeguate ad ospitare in sicurezza i residenti del nord di Gaza e la loro incolumità rimane a rischio, dato che gli attacchi aerei israeliani continuano a colpire il centro e il sud di Gaza”. L’ultimo appello in ordine di tempo è quello di stamattina dell’Unicef: il direttore generale Catherine Russell chiede “una pausa umanitaria” e parla di “situazione catastrofica, con bombardamenti incessanti e un aumento massiccio degli sfollati, bambini e famiglie. Non ci sono luoghi sicuri. Un cessate il fuoco immediato e l’accesso umanitario sono le priorità assolute per consentire ai bambini e alle famiglie di Gaza di ricevere gli aiuti tanto necessari”. Per Martin Griffiths, responsabile dell’Onu per il coordinamento degli aiuti umanitari “costringere civili spaventati e traumatizzati, tra loro donne e bambini, a spostarsi da un’area densamente popolata ad un’altra, senza nemmeno una pausa nei combattimenti e senza sostegno umanitario, è pericoloso e oltraggioso”.

(Foto AFP/SIR)

La risposta di Israele. Le Forze di difesa israeliane hanno risposto informando la popolazione palestinese residente nel nord di Gaza, con un post su X del suo portavoce, Avichay Adraee, che ci saranno due corridoi umanitari, due direzioni lungo cui muoversi “senza alcun danno”, verso sud tra le 10 e le 16 di oggi ora locale. “I civili palestinesi a Gaza non sono nostri nemici e non li prendiamo di mira come tali” ha ribadito poi un portavoce dell’esercito israeliano. “Stiamo cercando di fare la cosa giusta, stiamo cercando di evacuare i civili per ridurre al minimo il rischio per loro”. Secondo fonti Onu 423.000 persone sono già state sfollate a causa della distruzione delle loro le case. Dall’inizio delle ostilità, sono dati del ministero della Sanità di Hamas, i morti a Gaza per gli attacchi israeliani sono stati 1.900. Solo ieri sono stati 256 i morti (compresi 20 minori) e 1.788 i feriti.

La voce delle Chiese. A far sentire la propria voce anche i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme. In un comunicato diffuso nella serata di ieri si legge: “Chiedere a 1,1 milioni di persone, compresi tutti i membri delle nostre comunità cristiane locali di trasferirsi nel sud entro 24 ore non farà altro che aggravare una catastrofe umanitaria già disastrosa. L’intera popolazione di Gaza è priva di elettricità, acqua, carburante, cibo e medicine”. “Molti civili a Gaza – affermano i leader religiosi – ci hanno detto che non esistono modi realistici per farlo.

Chiediamo allo Stato di Israele, con il sostegno della comunità internazionale, di consentire forniture umanitarie di entrare a Gaza in modo che migliaia di civili innocenti possano ricevere cure mediche e beni di prima necessità.

Invitiamo tutte le parti a ridurre l’escalation di questa guerra per salvare vite innocenti continuando a servire la causa della giustizia”. “Stiamo testimoniando – rimarcano i capi religiosi – un nuovo ciclo di violenza con un attacco ingiustificabile contro tutti i civili. Le tensioni continuano a crescere e sempre più persone innocenti e vulnerabili stanno pagando il prezzo più alto. Il livello drammatico di morte e distruzione a Gaza lo dimostra chiaramente”. Tuttavia, concludono,

“c’è ancora tempo per fermare l’odio”.

“Per questo invitiamo le persone delle nostre congregazioni e tutti quelli di buona volontà nel mondo a osservare una Giornata di preghiera e digiuno martedì 17 ottobre”.

La comunità dei Focolari: “Vogliamo gridare al mondo che vogliamo la pace”

Sab, 14/10/2023 - 09:44

“Vogliamo gridare al mondo che vogliamo la pace, che la violenza genera violenza e che la nostra fiducia in Dio è grande. Ma se Dio ci chiamasse a sé, siate certi che dal Cielo continueremo a pregare con voi e a supplicarlo con maggiore forza di avere compassione del suo popolo e di voi. Pace, sicurezza, unità e fratellanza universale, questo è ciò che desideriamo e questa è la volontà di Dio e anche la nostra. Come in cielo così in terra”. A scrivere è una cristiana della piccola comunità di Gaza, legata al Movimento dei Focolari. Il suo messaggio sta facendo il giro del mondo. “Desidero ringraziarvi con tutto il cuore, ognuno personalmente”, scrive mentre Gaza è sotto assedio. “Non voglio parlare della guerra e della sofferenza che stiamo vivendo. Voglio dire che, alla luce di questi avvenimenti, nutriamo speranza per il fatto che ci sono persone come voi. I vostri messaggi, le vostre chiamate ci hanno dato molta gioia”. “Mi avete dato la forza di non arrendermi al male, di non dubitare della misericordia di Dio e di credere che il bene esiste. In mezzo ad ogni oscurità c’è una luce nascosta”. “Non possiamo pregare, pregate voi, noi offriamo e il nostro operare insieme è completo”.

“Se siete in contatto con gli amici del Focolare a Gaza, inviate loro il mio amore e la mia vicinanza”, scrive un’ebrea ortodossa che vive in una località del distretto di Tel Aviv. Segno che pur in mezzo al dolore e alle macerie, ci sono persone che, da entrambe le parti, aspirano alla pace. “La mia esistenza in questi ultimi giorni è così”, racconta: “sono a casa con la mia famiglia. Tutte le scuole sono chiuse e restiamo vicini ai rifugi. Siamo molto fortunati ad avere una stanza sicura nel nostro appartamento, e i bambini dormono lì, sul pavimento. I gruppi whatsapp locali sono un continuo brusio di appelli e offerte di aiuto, per le famiglie fuggite, per i soldati e le loro famiglie. Ci sono anche notizie di persone in lutto che hanno bisogno di aiuto per onorare i morti come dovrebbero essere onorati. Sembra che tutti i giovani siano stati chiamati a combattere e temiamo per gli amici, i parenti e i padri degli amici dei nostri figli. Temiamo ciò che ci aspetta ancora”. La paura è forse il sentimento più diffuso in questi momenti. Nonostante tutto, il pensiero riesce ad abbattere i muri della guerra. “Cerco di proteggere i miei figli dalla paura”, è la testimonianza della donna ebrea. “Il nostro orrore è insignificante rispetto a quanto accaduto ai nostri fratelli e sorelle del Sud. Penso ai prigionieri e temo per loro”. “Temo anche per quelli di Gaza. Penso ai miei amici arabi in Israele che corrono a cercare rifugio come noi. Cerco di pregare alla stessa ora del mio amico musulmano, così possiamo essere una comunità di preghiera anche se tanto ci divide”.

 

“In queste ore, gli spostamenti sono limitati e cerchiamo di rimanere in contatto tramite telefono e messaggi di WhatsApp. Cerchiamo di essere vicini a tutti. Più di questo, in questo momento non possiamo fare”, confida al Sir da Gerusalemme Claudio Maina, corresponsabile della comunità del Movimento dei Focolari in Terra Santa a cui appartengono cristiani delle varie denominazioni, ebrei e musulmani. “Ma possiamo stringerci tutti in preghiera per invocare il dono della pace e far sentire la nostra voce. Rispondiamo così anche noi agli appelli di Papa Francesco e del Patriarca di Gerusalemme”. “La speranza è che si fermi al più presto questa spirale di violenza e di odio e si cominci ad affrontare questa crisi alle sue radici”. Le notizie che arrivano da Gaza sono drammatiche. Claudio conferma: “Ci arrivano messaggi brevi. L’ultimo diceva che i cristiani hanno tutti lasciato le loro case e sono andati a rifugiarsi nelle chiese”. Cresce la preoccupazione e l’angoscia per quello che potrà ancora succedere: “Da una parte c’è l’assedio, dall’altra c’è stato un attacco terroristico feroce, continuano a piovere razzi, ci sono gli ostaggi, i giovani che vanno a combattere e la paura che si aprano altri fronti. Due popoli stanno soffrendo. L’unica cosa che ora possiamo fare è essere vicini e pregare”.

Da New York, un rabbino cerca di liberare il cugino rapito da Hamas: “Viviamo in un mondo fragile”

Sab, 14/10/2023 - 09:42

(da New York) Riportare a casa Hersh. E insieme a lui tutti gli ostaggi che da sabato scorso sono nelle mani di Hamas e di cui non si ha nessuna notizia. Gela gli animi la comunicazione del gruppo militare filopalestinese che il 7 ottobre è penetrato in territorio israeliano provocando morte, distruzione assieme ad una controffensiva di bombardardamenti da parte di Israele: 13 degli ostaggi sono morti, a seguito delle bombe sganciate su Gaza. Il rabbino Burton L. Visotzky, professore di Midrash ed emerito di studi interreligiosi al Seminario teologico ebraico d’america di New York, non intende arrendersi. Hersh Goldberg-Polin è suo cugino: un giovane di 23 anni, uscito di casa venerdì scorso per celebrare la fine delle lunghe settimane festività ebraiche e lo Shabbat, ma mai rientrato a casa. Di questo giovane di 23 anni, appena compiuti restano solo due messaggi inviati alle 8.11 del mattino di sabato ai genitori: “Vi voglio bene” e “Vi chiedo scusa”. E resta una foto sui social che lo vede ammassato dentro un rifugio. Hersh era uno dei giovani partecipanti al festival musicale Supernova Sukkot Gathering, vicino il kibuz Re’im e preso d’assalto dai militanti di Hamas. Burton sente ogni giorno i genitori, impegnati a rilasciare interviste a quanti più media possibili per riuscire a sapere cosa ne è di Hersh.

Il giovane, secondo la ricostruzione della famiglia, quando si è reso conto dell’assalto ha cercato di fuggire e insieme agli amici si sono precipitati dentro un bunker che i miliziani di Hamas hanno assalito lanciando un gran numero di granate, che il migliore amico di Hersh ha provato a buttare fuori, ma è morto proprio nel tentativo di salvare gli altri.

“Ad Hersh è saltato il braccio. Ha cercato di fermare il sangue con un improvvisato laccio emostatico e quando i guerriglieri di Hamas sono entrati nel rifugio, chiedendo ai sopravvissuti di alzarsi e camminare, anche lui l’ha fatto ed è stato catturato e preso in ostaggio”. La voce del rabbino è rotta, mentre racconta il dramma che la sua famiglia sta vivendo. L’ultimo segnale del telefonino del giovane è stato captato dalla polizia al confine con Gaza. I genitori, dopo aver ricevuto i due messaggi, hanno cercato notizie sui social, hanno contattato gli amici sopravvissuti perché si sono finti morti e alla fine hanno capito che tra gli oltre 100 ostaggi trattenuti nella Striscia c’era anche il loro figlio.

Hersh è americano e israeliano: è nato infatti a Chicago e Burton ha ancora presenti le dispute sul campionato di baseball e le tante risate condivise. “Ciò che è successo è stato così terribile, così oltre ogni limite, così barbaro, così semplicemente terrificante” mi dice Burton, esprimendo parole di condanna assoluta per Hamas e pieno supporto a Israele, “anche se non sempre approviamo quello che fa”, ma in questo momento le sue speranze di riportare a casa Hersh sono tutte lì e sente che bisogna restare uniti.

Burton ha chiamato i suoi amici cattolici e quelli musulmani e racconta che “il cardinale di New York, Timothy Dolan, sta mobilitando i suoi contatti e i miei colleghi musulmani hanno contattato esponenti della Mezzaluna rossa pur di avere qualche informazione e qualche forma di assistenza, viste le ferite di mio cugino, ma anche di tutti gli altri ostaggi che sono sicuro hanno bisogno di cure”.

Burton e la moglie non riescono a guardare la tv in questi giorni concitati. Lo fa invece il padre centenario che vive con loro. “Piange raccontandoci la brutalità e la ferocia di Hamas trasmessa dai notiziari”, racconta, aggiungendo che tutto questo orrore ha “effetti terrificanti su ciò che è il nostro essere più profondo, il nostro essere umani e civilizzati”.
Il rabbino Visotzky venerdì era a fianco dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, “per raccontare di Hersh in modo che capiscano che si tratta di persone reali. Questo non è un generico cittadino statunitense, ma è semplicemente un essere umano meraviglioso, adorabile e possiamo solo pregare che ritorni a casa e con lui tutti gli altri”.
Riguardo all’imminente attacco di Israele e ai bombardamenti, Burton è molto chiaro: “Ogni vita è importante e non fa differenza se si tratta di una vita ebrea o di una vita palestinese. Allo stesso tempo Hamas non può continuare a fare quello che ha fatto, non possono farla franca perché lo rifaranno ancora”. Il rabbino ha ancora la voce spezzata mentre dice: “Prego che le scelte siano misurate e che si capisca che questo non è un attacco contro i palestinesi: loro non sono i nemici. Qui il nemico comune è Hamas”. Burton spera che si giunga ad un accordo, dopo questi giorni crudeli in cui va ripristinato una sorta di ordine. “Nella mia fantasia mi auguro che se anche Israele entrasse in guerra contro Hamas, si possa raggiungere un accordo con l’Autorità Palestinese in modo che palestinesi e israeliani possano vivere insieme in pace”, è l’auspicio del rabbino che ricorda: “Viviamo in un mondo fragile, dove dobbiamo andare avanti e cercare la gioia nel quotidiano. La mia sarà piena quando tornerò a dibattere con Hersh, a ridere con lui e a parlare ancora di baseball”.

Sinodo: più spazio alle donne e a nuovi ministeri

Ven, 13/10/2023 - 13:12

“Una Chiesa sinodale è una Chiesa inviata in missione”, anche nel continente digitale, dove “abbiamo bisogno di essere guidati da coloro che lo abitano”: i giovani. Lo ha ricordato il card. Jean-Claude Hollerich, relatore generale al Sinodo sulla sinodalità, nella relazione tenuta durante l’ottava Congregazione generale, svoltasi in Aula Paolo VI alla presenza di Papa Francesco. “Molti di noi vedono Internet solo come uno strumento di evangelizzazione”, ha osservato il cardinale: “Ma è più di questo. Trasforma il nostro modo di vivere, di percepire la realtà, di vivere le relazioni. Così diventa un nuovo territorio di missione”. Dell’esperienza del “Sinodo digitale” ha parlato José Manuel De Urquidi Gonzalez facendo notare che quello attuale è il primo Sinodo in cui sono presenti veri e propri “missionari digitali”. “Per evangelizzare negli spazi digitali, non importa se sei un prete o un laico, un uomo una donna, un giovane o un adulto”, ha spiegato: “Dei 250 evangelizzatori in questa prima fase, il 63% sono laici, il 27% preti e il 10% religiose o religiose. Ciò che conta è la tua abilità di ascoltare ed entrare in dialogo”. “Tutti i battezzati sono chiamati e hanno diritto a partecipare alla missione della Chiesa, tutti hanno un contributo insostituibile da dare. Quanto vale per il continente digitale, vale anche per altri aspetti della missione della Chiesa”, ha spiegato Hollerich ai 344 partecipanti alla Congregazione odierna. È questo l’orizzonte nel quale si colloca il terzo modulo dei lavori del Sinodo, dedicato alla sezione B2 dell’Instrumentum laboris – con le relative le cinque Schede di lavoro – che hanno per tema la corresponsabilità nella missione. Oggi l’assemblea sinodale ne ha iniziato l’esame, prima nella Congregazione generale mattutina e poi nei 35 Circoli Minori nel pomeriggio. La decima giornata del Sinodo è cominciata con la Messa presieduta nella basilica di San Pietro dal card. Fridolin Ambongo Besungo, presidente del Secam, che ha messo in guardia dalla presenza costante e attiva del diavolo, che “vuole dividerci, potrebbe anche utilizzare qualcuno di noi per la sua causa”.

Al centro della relazione di Hollerich e degli interventi, la questione del maggior riconoscimento delle donne nella Chiesa. “Noi uomini percepiamo la diversità e la ricchezza dei carismi di cui lo Spirito Santo ha fatto dono alle donne?”, si è chiesto Hollerich: “O il modo in cui ci comportiamo dipende spesso dall’educazione che abbiamo ricevuto, dal background familiare in cui siamo cresciuti, o dai pregiudizi e dagli stereotipi della nostra cultura?

Ci sentiamo arricchiti o minacciati quando condividiamo la missione comune e quando le donne sono corresponsabili nella missione della Chiesa, in virtù della grazia del nostro comune battesimo?”.

La questione di un maggior riconoscimento del ruolo delle donne all’interno della Chiesa “non è una questione di riconoscimento in senso mondano, di diritti e aspirazioni, ma ne va del benessere della Chiesa”. Ne è convinta madre Maria Ignazia Angelini, che nella sua meditazione ha affermato che “quanto più la Chiesa si apre alla novità di Gesù in questo, tanto più respira, vive”.

“Il Vaticano II ha inaugurato un movimento di riforma rimasto interrotto”,

ha denunciato madre Angelini: secondo lo stile di Gesù, “le donne sono un elemento dinamico della missione, come presenza che – in passaggi critici, di rottura, spiazzanti – intuisce il movimento della vita, intesse relazioni nuove, improbabili, pazientemente porta e scioglie conflitti”. “Non è questione di diritti da rivendicare, ma di doni ricevuti”, ha ribadito la religiosa: “Una Chiesa sinodale in uscita incontra, in principio come oggi, subito la presenza di donne, varie diverse, non omologabili. Questa è l’evidenza della Parola. Elemento iscritto nelle radici generative, come tratto costitutivo della novità evangelica, per secoli disatteso. Gesù ha innovato, ha creato uno stile nuovo, arrischiato e rivelativo, nel suo modo di rapportarsi alle donne, ma tale peculiarità ha conferma provocatoria nella temperie della realtà attuale, ed è un kairòs. Oggi siamo nella concreta condizione di renderci conto che riguarda tutta la Chiesa, che cerca la riforma”, anche attraverso

“ministeri inediti, che chiedono di essere riconosciuti”.

“Intensificare la corresponsabilità dovrebbe aiutarci a vedere come i carismi laicali arricchiscono le comunità cristiane e migliorano la vita dei poveri; come ricreare vincoli di mutualità, reciprocità e complementarietà tra uomo e donna; come riconoscere e promuovere la dignità delle donne nella Chiesa”, ha detto don Carlos María Galli, decano della Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica Argentina, membro della Commissione Teologica Internazionale e Coordinatore del Gruppo teologico-pastorale del Celam. “Molte donne non hanno posto nei consigli parrocchiali o diocesani, anche se sono insegnanti, catechiste da anni, o sono quelle che si preoccupano delle ferite dei malati i dei migranti, che consigliano i giovani e giocano con i bambini”, la denuncia di suor Gloria Liliana Franco Echeverri. “Il cammino delle donne nella Chiesa è pieno di ferite, di situazioni dolorose e di redenzione”, ha proseguito la religiosa, secondo la quale “la Chiesa, che è madre e maestra, ma a che sorella e discepola, è femminile, e ciò non esclude gli uomini, perché in ciascuno, uomo e donna, risiede la forza del femminino, della saggezza, della bontà, della tenerezza, della forza, della creatività, della parresia e della capacità di donare la vita e di affrontare le situazioni con coraggio”. La Chiesa sinodale, per Echeverri, deve dar luogo “ad un nuovo modo di stabilire relazioni che renda possibile una identità rinnovata: più fraterna e circolare. Con nuovi ministeri, nei quali si intessano relazioni di solidarietà e solidarietà”.

Ultimatum di Israele. Suor Saleh da Gaza: “Non siamo cani da bastonare”. P. Romanelli (parroco): “Ritirare ordine di evacuazione”

Ven, 13/10/2023 - 11:51

“La situazione è veramente drammatica. Ci arrivano centinaia di messaggi dai nostri conoscenti e parrocchiani che chiedono cosa devono fare. Noi ospitiamo nelle nostre strutture parrocchiali bambini, anziani, disabili, malati, oltre agli sfollati arrivati in questi giorni di intensi bombardamenti. Dove dobbiamo andare, dove trasferire tutta questa gente?”. Da Betlemme, dove è bloccato da giorni, il parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli, commenta al Sir l’avviso diramato da Israele che “invita” i civili di Gaza City ad evacuare da casa entro 24 ore per la loro sicurezza e protezione e di spostarsi nell’area a sud del Wadi di Gaza, “una piccola vallata che segna il confine tra il nord e il sud di Gaza”.

Sfollati a Gaza (Foto Parrocchia latina)

Il nord di Gaza sta per diventare teatro di operazioni di guerra. Secondo l’Esercito israeliano, infatti, “i terroristi di Hamas si nascondono a Gaza City nei tunnel sotto le case e all’interno di edifici popolati da civili innocenti”. “Si tratta – spiega il parroco – di oltre un milione di persone che dovrebbero mettersi in marcia e abbandonare tutto. Anche i nostri cristiani. Tutte le strutture ecclesiali sono a Gaza City – dice padre Romanelli -. Mi riferisco ai locali parrocchiali, alla chiesa, alle nostre scuole, a quella delle suore del Rosario, al Centro san Tommaso d’Aquino, alla Caritas, alla chiesa degli ortodossi. Come facciamo a sgomberare, dove porteremo tutta la nostra gente? Dove porteremo i malati, i disabili, gli anziani, i bambini. Al sud non c’è niente. La gente sta pregando, è disperata”.

“Chiediamo che questo ultimatum venga ritirato subito. Queste azioni sono lontane dalla pace”.

Suor Nabila Saleh con gli alunni (Foto Gaza Rosary’s school)

Da Gaza. “Possiamo solo gridare”. A gridare da Gaza la sua indignazione è suor Nabila Saleh, preside della Scuola patriarcale delle Suore del Rosario. “Dove andiamo, dove andiamo – ripete in un messaggio inviato al Sir –. Al sud non ci sono posti, non c’è nulla dove poter stare, non ci sono case. A questo punto ci bombardassero tutti, così questa storia finirà. Secondo Israele dove dovremmo andare, dove dovrebbero andare anziani, malati, bambini, le famiglie, persone disabili. Dove?

Non siamo cani da bastonare, abbiamo anche noi i nostri diritti, non solo sulla carta.

Dov’è la comunità internazionale? I diritti valgono solo per gli altri e non per noi che siamo rinchiusi qui dentro? Non è giustizia! Non c’è umanità, non c’è rispetto. La gente di Gaza non ha nulla, dove potrà mai andare e avere un rifugio.

Prego il Santo Padre che faccia sentire la sua voce.

Qui siamo alla disperazione totale. Abbiamo paura e più che gridare non possiamo. Ma c’è qualcuno che ci ascolta?”.

(Foto ANSA/SIR)

Nella notte appena trascorsa le forze israeliane hanno colpito 750 obiettivi militari, tra cui tunnel sotterranei del terrore di Hamas, compound e postazioni militari, residenze di alti esponenti del terrorismo utilizzate come centri di comando militare, magazzini di stoccaggio delle armi, sale di comunicazione e hanno preso di mira alti esponenti del terrorismo. Intanto le Brigate Al-Qassam, ala armata di Hamas, sta sferrando un attacco con 150 missili contro la città di Ashkelon “in risposta allo sfollamento e al targeting dei civili”. Un razzo ha colpito una casa ad Ashkelon senza che al momento siano segnalate vittime.

Cammino sinodale. Don Angelelli (Cei): “Comunione, partecipazione, missione è anche il nostro stile operativo”

Ven, 13/10/2023 - 10:22

“Fin dall’inizio del Cammino sinodale la pastorale della salute si è sentita immediatamente coinvolta perché è una pastorale che opera al di fuori dei contesti ecclesiali, all’interno delle strutture sanitarie a contatto con i curanti, i malati e la sofferenza. Abbiamo la possibilità di incrociare le vite di tante persone che spesso in condizioni normali non frequentano i luoghi ecclesiali: i non credenti, i delusi, tutti coloro che a diverso titolo hanno accantonato il tema di Dio”. Esordisce così don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei che insieme ad altri tre Uffici ha dato vita ad un vero e proprio “cantiere sinodale”.

foto SIR/Marco Calvarese

Don Angelelli, pastorale della salute come luogo privilegiato di ascolto?
Sì; il nostro servizio ci consente di essere antenne, recettori sul territorio di tante sensibilità e di contesti diversi; ci permette in particolare di ascoltare chi ci guarda da fuori, da lontano. Una rete relazionale che abbiamo messo a frutto per poter contribuire a questa grande fase di ascolto. Del resto, la pastorale della salute si nutre proprio di ascolto: quello che facciamo ogni giorno incontrando e accompagnando la sofferenza delle persone. E ci sentiamo dei privilegiati.

Perché?
Perché in questo atteggiamento di ascolto incrociamo le domande esistenziali di tanta gente.

Il momento della malattia e della sofferenza fa emergere fondamentalmente la domanda di Dio.

Dall’ascolto all’avvio di un “cantiere sinodale” con altre realtà Cei. Di che si tratta?
Abbiamo voluto sviluppare il tema della vulnerabilità come elemento comune a quattro uffici e servizi nazionali della Cei – pastorale della salute, delle persone con disabilità, tutela dei minori, Caritas Italiana – avviando

un cantiere sinodale tra vulnerabilità e corresponsabilità

con l’obiettivo di sviluppare nuovi modelli di collaborazione, rafforzare sinergie e progettualità comuni, praticare un ascolto condiviso degli scenari di vulnerabilità nei diversi ambiti e territori, realizzare un censimento nazionale di questi ambiti condivisi e, infine, restituire in una sintesi quanto raccolto per progettare scenari di interventi pastorali futuri. Siamo tutti chiamati a trasformare lo sguardo per individuare le vulnerabilità dei nostri fratelli e sorelle; al tempo stesso è necessario, quando ci si ritrova vulnerabili, non avere timore di chiedere aiuto. Come ripete Papa Francesco, nessuno si salva da solo, ma in virtù dell’incontro con l’altro.

Come si è sviluppato finora il lavoro del cantiere?
Si è snodato lungo quattro direttrici:

individuare, sostenere, proteggere, accompagnare.

Siamo partiti dall’analisi degli scenari di vulnerabilità presenti sui territori di azione pastorale di ogni ufficio per condividerli e mettere in luce quelli di maggiore rischio, per poi analizzare gli strumenti già a disposizione e le azioni già in essere a sostegno degli scenari individuati. A seguire, l’esame degli interventi di prevenzione e cura più efficaci e il tipo di formazione specifica necessaria, nonché l’ipotesi di scenari condivisi con altri ambiti di azione pastorale. A conclusione del percorso si terrà un evento nazionale con i responsabili degli uffici e servizi diocesani per condividere quanto realizzato e porre le basi per linee condivise di progettazione pastorale in vista di uno strutturato cammino comune.

Comunione, partecipazione, missione le parole chiave del Sinodo. Come vi interpellano?
Tre atteggiamenti nei quali ci ritroviamo molto, propri della pastorale della salute. Comunione è per noi presenza empatica, apertura e accompagnamento dell’altro. Attraverso la relazione con il paziente, il personale sanitario e i familiari riusciamo a fare una proposta di Dio e a testimoniare una presenza nei luoghi del dolore. Partecipazione significa essere presenti fisicamente, sempre. Solo così cappellani ospedalieri e assistenti spirituali possono prendere parte concretamente all’esperienza della sofferenza. Per quanto riguarda la missione, ci consideriamo missionari in ambienti diversi da quelli tradizionali. Proprio perché

non siamo una Chiesa in uscita, ma una Chiesa che è da sempre stata fuori abitando le periferie esistenziali per annunciare con la presenza e la testimonianza.

Nella mia esperienza di cappellano mi sono a volte imbattuto in situazioni molto dolorose di fronte alle quali non trovavo parole da dire, ma sono stato ringraziato per esserci. Malattia e sofferenza mettono in contatto con la verità.

Che cosa si aspetta dal Sinodo, quali attese?
Ero presente quando i vescovi decisero di chiamarlo “Cammino sinodale”. All’interno della loro assemblea si respirava un bellissimo clima e mi fu chiaro fin dall’inizio che non dovevamo aspettarci un risultato ovvio, ma essere aperti per cercare di accogliere questo vento dello spirito che attraversava la Chiesa. Non so che cosa aspettarmi, ma non lo so per scelta. Voglio vivere questo cammino pienamente, senza la certezza di sapere a che cosa mi porterà ma con la coscienza e la profonda fiducia che

è lo Spirito a muovere il popolo di Dio.

In questo percorso di discernimento e di comprensione, senza risultati scontati, la Chiesa troverà certamente nuova linfa e nuove forze per annunciare il Vangelo.

Cammino sinodale. Diaco (Cei): “Missione della Chiesa e compito educativo sono strettamente connessi”

Ven, 13/10/2023 - 10:20

“In questi due anni il Cammino sinodale è già entrato nelle scuole attraverso gli insegnanti di religione, ma non solo, per dare forma a quello che è stato chiamato il tempo dell’ascolto e della narrazione. Un primo momento di contatto, una prima occasione di Chiesa in uscita è stata proprio il coinvolgimento di diversi studenti e insegnanti che, stimolati dalle indicazioni del Cammino sinodale, hanno aperto in molte diocesi momenti di ascolto reciproco”. Esordisce così Ernesto Diaco, direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Cei, al quale abbiamo chiesto se e in che modo il Cammino ecclesiale in atto interpella e sfida il mondo dell’educazione e della scuola.
“Dopo questi due anni – afferma – ci viene ora chiesto un passo in più: quello del discernimento. Anche qui il mondo dell’educazione – scuola, università, pastorale universitaria e associazioni di ispirazione cristiana che operano in questo ambito – è chiamato a giocare un ruolo significativo perché il discernimento richiede anche una riflessione ‘esperta’, una competenza dal punto di vista pedagogico, sociologico e, in primis, antropologico”.

Perché “in primis”?
Perché attraverso il Cammino sinodale la Chiesa vuole incontrare l’uomo di oggi, vuole mettersi in suo ascolto ma anche al suo fianco per camminare insieme. Nelle linee guida si chiede di

promuovere il confronto tra la verità del Vangelo e la condizione umana odierna,

ciò che già avviene in molti spazi educativi.

Nello specifico, qual è il ruolo delle scuole cattoliche?
Possono essere il luogo fecondo per

la promozione di una nuova sintesi cristiana adatta al contesto culturale e alla vita di oggi.

Nelle scuole cattoliche è ciò che si tenta di fare ogni giorno: mettere a confronto il patrimonio culturale, la tradizione, ma anche il mondo scientifico e umanistico nel senso più ampio, con persone che stanno crescendo nella società di oggi, nel mondo del digitale e dell’incontro tra culture e religioni. Nelle nostre scuole è pane quotidiano, così come la promozione di una cultura dell’incontro tra “diversi”, uno dei primi obiettivi del Cammino sinodale.

Cultura dell’incontro più che mai urgente in una società che appare spesso chiusa, arroccata in difesa e innervata di aggressività verso “l’altro”.
Assolutamente sì; non a caso in questi ultimi anni è stato reintrodotto l’insegnamento scolastico dell’educazione civica che non significa soltanto conoscenza della Costituzione e di alcuni elementi di diritto, ma educazione alla convivenza:

imparare a conoscersi, a vivere insieme, a riconoscersi fratelli.

Condivisione e corresponsabilità: educazione e stile ecclesiale si giocano anche su questo binomio?
Sì, nell’educazione come nella Chiesa ognuno, pur nella diversità dei compiti, svolge un ruolo preciso nel percorso della crescita propria e altrui. Un passaggio delle linee guida per la seconda fase del Cammino sinodale evidenzia la necessità di

coltivare la cultura della collaborazione educativa, riferita sia alle nostre comunità, sia ai diversi soggetti del territorio con i quali fare rete.

Per quanto riguarda la condivisione, la voglio leggere anche dal punto di vista, fondamentale, di una condivisione di sé, del proprio vissuto, della propria umanità; quel mettersi in gioco richiesto ad ogni educatore e ad ogni persona – bambino, ragazzo, giovane – che sta crescendo.

L’educazione “è la quotidianità della vita della Chiesa”, ha detto il card. Zuppi introducendo lo scorso 25 settembre i lavori del Consiglio episcopale permanente.
Il presidente della Cei ha non a caso citato il decennio sull’educazione che abbiamo vissuto gli anni scorsi per dire che

la missione evangelizzatrice è strettamente connessa con il compito educativo

perché il Vangelo, ossia il messaggio cristiano, incontrando le persone propone loro un cammino di crescita in umanità, un progetto di pienezza di vita. La Chiesa, da parte sua, è educatrice e, al tempo stesso, è educata alla scuola del Vangelo.

Che cosa può “insegnare” la scuola al cammino della Chiesa?
Il Cammino sinodale può “imparare” dalle dinamiche educative, pur nella diversità dei ruoli e dei compiti, lo stile dell’ascolto, dell’attenzione, della promozione e valorizzazione di ciascuno, soprattutto di chi appare più indietro nel suo percorso, più ai margini, ed ha pertanto più necessità di essere accompagnato. Tuttavia, senza idealizzare alcun ambiente o paradigma, occorre riconoscere che è stata la Chiesa a dare vita nel tempo ad esperienze e proposte educative ancora oggi diffuse, che hanno spesso modellato la società e aiutato le persone a trovare la propria strada.

Per la Chiesa si tratta di continuare, aggiornandolo alle sfide odierne, quello che è sempre stato il suo peculiare servizio all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo.

 

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