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Aggiornato: 4 mesi 1 settimana fa

Piantedosi: “Nuovo Patto su migrazione e asilo per superare le regole di Dublino”

Mar, 10/10/2023 - 09:41

A oltre 20 anni dalle norme quadro introdotte dalle leggi Turco-Napolitano e modificate dalla Bossi-Fini, i tempi sono maturi per un nuovo testo unico sull’immigrazione? Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi risponde così: “Il fenomeno migratorio è cambiato nel tempo, come le cause che lo alimentano. Le leggi che lo regolano possono quindi essere cambiate ed adeguate ai tempi, purché questo non avvenga solo per sterili posizioni ideologiche”. Le regole sul Paese di primo ingresso per la richiesta d’asilo? Cambieranno, perché “il nuovo Patto su migrazione e asilo su cui abbiamo trovato l’intesa costituirà il sostanziale superamento delle regole di Dublino, definite antistoriche anche dal nostro presidente Mattarella”. Il titolare del Viminale è in continuo movimento. Passa da un vertice europeo a un comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. Quando Avvenire lo ricontatta per concludere un colloquio a distanza iniziato nei giorni scorsi, sta per decollare verso Reggio Calabria. Nelle stesse ore, il conflitto scoppiato in Israele ha fatto salire il livello di prevenzione antiterrorismo: “C’è grande attenzione sul fronte della prevenzione. Il contesto internazionale è critico e preoccupante e ci attende una fase difficile – considera il titolare del Viminale -. C’è il massimo impegno degli apparati dello Stato per tutelare la sicurezza dei cittadini. Tutte le prefetture hanno già disposto il rafforzamento delle misure a protezione degli obiettivi ritenuti sensibili e del dispositivo di prevenzione generale”. Da qui, il colloquio si dipana lungo la direttrice delle politiche migratorie, cardine del programma del governo Meloni e fra gli ambiti di competenza dell’Interno. Per Piantedosi, i risultati del Consiglio europeo informale di Granada – nonostante il muro alzato da Polonia e Ungheria – sono un passo in avanti dell’Ue verso un cambiamento di paradigma nella gestione dei flussi di profughi e richiedenti asilo: “Abbiamo ottenuto che decisioni importanti non venissero prese senza il voto dell’Italia, che ha saputo svolgere una funzione determinante in un contesto in cui bisogna trovare delicati ed equilibrati punti di mediazione. La nuova prospettiva europea in tema di immigrazione è importante – afferma Piantedosi – perché fa riferimento alla necessaria solidarietà nei confronti dei Paesi di primo ingresso. I punti declinati dalla presidente Von der Leyen a Lampedusa costituiscono i cardini della futura azione dell’Europa, concordati col governo italiano”. E si fondano “prioritariamente sull’obiettivo della prevenzione della partenze, prefigurando” pure, sostiene, “la possibilità di una missione navale europea”. L’esecutivo continua a insistere sul fatto che bisogna arrestare i flussi. Ma, superata quota 130mila arrivi da gennaio, la stessa premier Meloni ha ammesso: i risultati non sono quelli che speravamo.

Perché? Cosa non sta funzionando nel programma del governo, ministro?
Condivido le valutazioni della premier Meloni, che trovano evidenza nei numeri delle persone arrivate sino ad oggi. Stiamo affrontando una delle più gravi crisi sociali ed economiche in alcuni Paesi del continente africano. E gli ingressi irregolari sono crescenti anche sulle rotte che interessano altri Paesi europei di primo ingresso. Abbiamo gestito questo afflusso straordinario con efficaci misure mai adottate in precedenza. L’obiettivo che continuiamo a prefiggerci è quello della prevenzione delle partenze.

Davvero lo ritiene possibile?
Il grande lavoro che stiamo svolgendo sugli scenari internazionali, in particolare da parte del presidente Meloni, porterà quanto prima a quelle soluzioni stabili e durature a cui la stessa premier ha fatto riferimento.

Nel frattempo in Italia il governo continua a varare norme restrittive a suon di decreti. Ma i tribunali – da Catania a Firenze – le bocciano, perché in contrasto col quadro costituzionale ed europeo. Non ritenete necessarie correzioni di rotta?
Le decisioni balzate all’attenzione della stampa sono circoscritte, anche territorialmente, e limitate a casi per i quali faremo impugnazione. In generale, nell’assoluta maggioranza dei casi, le decisioni da noi assunte trovano riscontro anche in sede giudiziaria.

Dunque non cambierete approccio?
I provvedimenti del governo sono ponderati nell’ambito della cornice europea, in un bilanciamento tra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali delle persone. E continueranno ad esserlo.

La sentenza di Catania ha portato con sé uno strascico polemico, relativo alla presenza della giudice Apostolico in una manifestazione del 2018, ripresa in alcuni video. Come escono fuori quelle immagini, 5 anni dopo?
Ci sono diversi video, effettuati da più parti in quella che era una manifestazione “pubblica”. Ogni ipotesi di dossieraggio o cose simili è pertanto priva di fondamento. Ed è singolare invocare garanzie di privacy in relazione ad occasioni “pubbliche”. Se un magistrato, un funzionario pubblico o chi svolge una funzione caratterizzata da terzietà non vuole apparire “di parte”, non deve fare altro che evitare di manifestare le proprie opinioni su argomenti divisivi.

Alcune sentenze ritengono la Tunisia un Paese “non sicuro”. Ciò non smonta uno dei cardini dell’impalcatura di governo? Cosa accadrà se i 14mila tunisini giunti da gennaio ricorreranno contro decisioni avverse delle commissioni territoriali, in caso di protezione negata?
Come osservato da autorevoli giuristi, non compete a un singolo giudice definire un Paese sicuro o meno. La Tunisia è ritenuta tale in base a una determinazione interministeriale, adottata secondo la legge italiana che si richiama alla normativa europea e che costituisce l’esito di un’articolata istruttoria.

E la cauzione di 5mila euro chiesta a richiedenti asilo per evitare il trattenimento non le pare beffarda?
Si è resa necessaria per adempiere ad una previsione della normativa europea. Trovo singolare la disinvoltura con cui si passa da una richiesta di rispettare l’ordinamento europeo a valutazioni tese, invece, a prescinderne, se non si condividono quelle stesse norme.

A Marsiglia Papa Francesco ha definito “gesti di odio” quelli di chi “impedisce” alle navi delle ong di andare in mare per salvare i migranti. Perché il governo italiano continua a ritenere problematica l’attività degli enti umanitari che effettuano salvataggi in mare?
Non si è mai trattato di pregiudizio, ma solo della necessità di dare regole ad una attività, quella della ricerca e del salvataggio in mare, caratterizzata da particolare delicatezza. Nulla di più.

Le tensioni a Ventimiglia con la Francia sono terminate?
A Ventimiglia abbiamo rinnovato piena collaborazione con la Francia per controllare quel tratto di frontiera. E col collega francese Darmanin ho sottoscritto a Palermo un’intesa di cooperazione per la costituzione di una cabina di regia tra le nostre forze di polizia.

Riguardo alla stesura della mappa dei nuovi Cpr, la contrarietà di alcuni governatori e sindaci non pare superata…
I Cpr sono prescritti anch’essi dalla normativa europea. Sono strutture utili per rimpatriare cittadini stranieri irregolari che hanno manifestato elementi di pericolosità o hanno commesso reati, secondo una valutazione sul trattenimento che viene sottoposta al vaglio della autorità giudiziaria. Andremo avanti nella realizzazione del piano, ricercando il più possibile la condivisione degli amministratori delle località interessate.

Com’è noto, il governo ha varato un decreto flussi triennale per l’ingresso di 452mila lavoratori immigrati. Ma non c’è il rischio che le pratiche siano lente come quelle della sanatoria 2020 per carenza di addetti del Viminale?
La rete territoriale delle prefetture ha dato prova di una buona capacità di lavoro nella gestione dell’ultimo decreto flussi, anche grazie ad alcune semplificazioni procedurali introdotte col decreto legge Cutro. Prima di noi, si facevano le sanatorie ma poi si aggravavano le procedure. Noi siamo contrari alle sanatorie, ma semplifichiamo le procedure per gli ingressi regolari. Ciò detto, gli obiettivi di rafforzamento delle strutture del ministero dell’Interno sono tra i primi posti degli obiettivi dell’esecutivo e saranno valutati nella prossima legge di bilancio.

Lei è finito nella bufera mediatica per affermazioni come “carico residuale” o come quelle sui “viaggi pericolosi” da non intraprendere, all’indomani del naufragio di Cutro. C’è qualcosa che le piacerebbe chiarire?
Ho capito che, se una frase viene decontestualizzata o modificata ad arte, può diventare veicolo di messaggi opposti rispetto al contenuto che si voleva esprimere. L’espressione “carico residuale” non l’ho letteralmente mai usata, è una artificiosa forzatura che tradisce il senso di quanto avevo detto. Alcuni giornali hanno persino sostenuto che avrei usato quest’espressione riferendomi ai superstiti del naufragio di Cutro, avvenuto mesi dopo. Se ne stanno occupando i miei avvocati. Per il resto, la mia storia personale parla da sola.

Gli scontri a Torino hanno mostrato ancora una volta scene di agenti di polizia che manganellano manifestanti. Per il prefetto di Torino Cafagna, era “un intervento dovuto”. Condivide quella valutazione?
Non c’è alcun interesse a utilizzare la forza pubblica, se non in casi estremi in cui si è costretti a farlo per tutelare la libertà di manifestare da parte di tutti e la libertà di tutti di esprimere il proprio pensiero pacificamente. A Torino, l’intervento si è reso necessario per garantire il regolare svolgimento di un evento pubblico, a cui partecipavano autorità istituzionali e numerosi cittadini. A volerlo impedire era una minoranza di trecento persone. La Polizia ha saputo contenere al minimo il rischio di incidenti nonostante le provocazioni di alcuni noti agitatori, che hanno cercato di strumentalizzare i giovani manifestanti. E alcuni agenti sono rimasti feriti.

Dica la verità: si sente ancora un “tecnico prestato alla politica”? E Matteo Salvini è tuttora il suo ancoraggio politico alla maggioranza?
Il ruolo del ministro dell’Interno è inevitabilmente a forte caratterizzazione politica. Ciò detto, mi sembra un tema inconsistente, come le illazioni sulla presunta maggiore vicinanza all’uno o all’altro leader politico oppure, al contrario, sulla distanza che mi separava dagli uni o dagli altri, fino ai presunti “commissariamenti” e altre sciocchezze del genere. Ne sorridiamo nelle riunioni di governo, nella consapevolezza che si tratta di tentativi per minare la compattezza tra noi. Una volta la notizia di una mia presunta rottura con un collega di governo ci raggiunse mentre, con lui stesso, eravamo a cena con comuni amici: potete immaginare l’ilarità che ne seguì.

(*) Avvenire

Attacco a Israele: quarto giorno di guerra. Hamas: “Pronti a un lungo conflitto”

Mar, 10/10/2023 - 09:40

Sono oltre 200 gli obiettivi colpiti nella notte dalle Forze di Difesa Israeliane (Idf) nella Striscia di Gaza dove continuano i bombardamenti, soprattutto nelle zone di Rimal e Khan Yunis. Fra i siti colpiti, secondo quanto riferito da fonti militari, anche un deposito di armi in una moschea, un grattacielo e un appartamento utilizzati da Hamas per lancio di missili, oltre ad altre installazioni militari. In un briefing di questa mattina un portavoce dell’Esercito ha spiegato che le sedi del Parlamento e dei ministeri a Gaza “sono obiettivi legittimi dell’offensiva contro Hamas. Se c’è un uomo armato che lancia razzi a partire da lì, questi si trasformano in un obiettivo militare”.

Sotto assedio. Attualmente Gaza è sotto assedio, interrotte le forniture di elettricità, cibo e carburante, in ritorsione all’attacco del 7 ottobre. Nel frattempo l’esercito israeliano ha comunicato di aver ripreso “il pieno controllo” del confine con la Striscia di Gaza. “Nell’ultimo giorno non un solo terrorista è entrato attraverso la barriera” ha assicurato il portavoce delle Forze di difesa israeliane, Daniel Hagari. Tuttavia non si escludono altre infiltrazioni. Da quando è iniziato l’attacco di sabato mattina l’esercito di Israele ha recuperato “circa 1.500 corpi” di miliziani di Hamas.

Bilancio delle vittime. Con il passare delle ore si aggiorna, purtroppo, il bilancio delle vittime, riportato dai media israeliani: i morti in Israele sono più di 900, di questi 124 sono soldati e 37 agenti di polizia. I feriti ammontano a 2.600, di cui almeno 376 versano in gravi condizioni. I morti palestinesi nella Striscia ammontano a 687, tra cui 140 bambini. Sono 3.726 i feriti, secondo l’ultimo conteggio del Ministero della Salute gazawo.

(Foto ANSA/SIR)

Circa 150 ostaggi. Alto il numero degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas e della Jihad islamica: secondo l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan, sarebbero “tra i 100 e i 150″, un numero “senza precedenti che comprende anche cittadini americani”. L’esercito di Israele ha fatto sapere di “avere informato oltre 100 famiglie che i loro parenti sono prigionieri di Hamas”. Il gruppo terroristico, per bocca di un suo membro in esilio in Libano, Ali Barakeh, citato da media internazionali, ha affermato che “Hamas è pronta ad una lunga guerra” e che “utilizzerà gli ostaggi per ottenere il rilascio dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e statunitensi”. Abu Obaida, portavoce dell’ala militare di Hamas, ha precisato che la sua organizzazione “non negozierà sugli ostaggi israeliani sotto il fuoco nemico. Israele dovrebbe essere pronto a pagare un prezzo elevato in cambio della libertà dei prigionieri”. Davanti ad una escalation della guerra e a una possibile invasione di terra, Israele sta avvisando i palestinesi di lasciare Gaza per l’Egitto: “Il valico di Rafah è ancora aperto. Il consiglio è quello di uscire”.

Attacco a Israele: Romanelli (parroco) la vita della piccola comunità cattolica sotto i razzi e le bombe, “ogni giorno il Rosario per la pace”

Lun, 09/10/2023 - 14:28

“Tutte le strade sono chiuse e per questo sono ancora bloccato a Betlemme. La situazione peggiora ora dopo ora. La paura ha preso il sopravvento anche perché molti abitanti hanno ricevuto messaggi dall’Esercito israeliano che avvisano di attacchi imminenti. I bombardamenti sono proseguiti, duri, durante la notte. Nonostante l’abitudine alla guerra dei gazawi, la sensazione diffusa è che solo un miracolo – che tutti invocano – potrà evitare una guerra che sarà lunga e cruenta”.

Parrocchia latina di Gaza (Foto redazione)

Padre Gabriel Romanelli, parroco della parrocchia latina, l’unica cattolica di Gaza (poco più di 100 battezzati, su oltre due milioni abitanti islamici, ndr.) racconta al Sir gli ultimi sviluppi dalla Striscia dove si continua a combattere. Poco fa l’annuncio del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant,  che ha ordinato l’assedio della Striscia di Gaza, e l’interruzione delle forniture di elettricità, carburante, cibo e acqua.

Israele invita a sgomberare. Nella Striscia le fonti parlano di 436 morti (oltre ai circa 400 miliziani uccisi in territorio israeliano, ndr.). Tra gli israeliani si contano 700 vittime e almeno 2mila feriti. Ci sarebbero anche molti ostaggi tra militari e civili israeliani catturati da Hamas e portati a Gaza”. “Non sappiamo dire se gli attacchi saranno aerei o da terra, ma l’invito è chiaro: sgomberare al più presto case e palazzi di vari quartieri della Striscia. Israele sta colpendo anche i quartieri centrali di Gaza”.  Padre Romanelli riferisce i racconti dei suoi parrocchiani: “nella parrocchia sono accolte circa 15 famiglie, molte rimaste senza casa. Le autorità militari continuano a mandare messaggi per invitare i gazawi ad abbandonare alcuni quartieri che potrebbero essere bombardati. Un messaggio è stato inviato anche al patriarcato latino per avvisare di un possibile attacco alla zona di Rimal, dove si trova anche l’università islamica. Gli attacchi israeliani hanno colpito anche le vicinanze della scuola del Patriarcato latino tenuta dalle suore del Rosario, che grazie a Dio, non ha registrato ingenti danni, ma solo vetrate rotte. Israele invita la popolazione a sgomberare, ma mi chiedo dove dovrebbe andare tutta questa gente se è circondata da muri e se i quartieri sono già tutti stracolmi di abitanti”.

Gaza, parrocchia latina. Bambini pregano per la pacxe (Foto Parrocchia latina/Sir)

Pregare per la pace. La piccola comunità cattolica intanto da sabato 7, giorno dell’attacco, si ritrova tutte le sere a pregare il Rosario per la Pace: “i fedeli si radunano in chiesa per la Messa e poi davanti al Santissimo pregano il Rosario. Per i bambini abbiamo pensato ad un piccolo oratorio, con la speranza di donare qualche momento di serenità in una situazione che si profila sempre più drammatica”. La possibile invasione terrestre annunciata da Israele, conclude il parroco, “sarebbe una carneficina. Combattere casa per casa, in un ambiente densamente popolato, avrebbe effetti devastanti su ambedue i contendenti”.

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Le parole del Papa. La speranza che le parole di Papa Francesco, ieri all’Angelus, “La guerra è una sconfitta: ogni guerra è una sconfitta! Preghiamo perché ci sia pace in Israele e in Palestina!”, “possano essere ascoltate dai responsabili israeliani e palestinesi. Preghiamo per il bene di questi due popoli e perché le armi tacciano subito. Basta sofferenza”.

Attack on Israel. Patton (Custos of the Holy Land): “This is not a reaction to a surprise visit to the Al-Aqsa Mosque compound”

Lun, 09/10/2023 - 12:58

“I honestly believe that no one had expected such a meticulously planned attack. I was afraid that something would happen after the confrontations and violence we witnessed in recent months. What happened was not a reaction to a surprise visit to the Al-Aqsa Mosque compound, it was a well-planned attack.” The Custos of the Holy Land, Father Francesco Patton, speaks to SIR from a “completely empty” Jerusalem.

Instructions to the communities. “The situation is extremely serious; a state of war has been declared. We know that the places where we live are safe, but we have to be careful and we have to watch out for any possible developments of the situation. There is a great risk of the conflict spilling over into the Palestinian territories of the West Bank, and we must be very careful and patient,” says the Franciscan. Since the day of the attack, October 7th, the Custody has given precise instructions to its friars to act with caution at this critical moment. This means “remaining in the monasteries” or travelling “only when necessary for study purposes or work.” The Custody notes that the restrictive measures imposed by the Israeli authorities in a state of war “apply to the territory of the Custody, that is, to Jaffa, Ramleh and Jerusalem (including Beit Hanina and Ein Karem).” The ceremony of reception in the diocese of the Latin Patriarch and new Cardinal, Pierbattista Pizzaballa, which was to take place this week, has been postponed to a later date.

Moderation and prayer. The attack carried out by Hamas saw many cities in the West Bank, where the Custody administers several parishes and shrines, rallying in support. The Custody’s message is clear: “We are trying to keep our communities distant from political conflicts at the moment, as we always do in these cases. There have been demonstrations supporting Hamas, as can be seen on television and social networks, but we recommend not getting involved because that’s not why we’re here. Our invitation is always one of moderation and prayer. In situations of conflict, Christians are always the weakest party. In fact, after every war, it often happens that a large number of Christians emigrate abroad.”

Open Shrines. Father Patton’s thoughts are with the pilgrims in the Holy Land:

“We have decided to leave the shrines open so that they can visit them and pray in them, so that they live out their religious experience to the full.”

“We do not know exactly how many groups are here at the moment, some are in Bethlehem, others in Galilee, in Nazareth. They will return to Italy as soon as possible.” To date, the prospects are bleak:

“I am afraid that with this attack we will again be alone with the local faithful for a long time.”

He continued: “For my part, I have said that it is not safe to organise pilgrimages. As soon as it is safe again we will announce it and invite the churches to return. October is the month of the rosary: I ask everyone to pray for this tormented land.”

Attacco a Israele. Patton (custode Terra Santa): “Non è una reazione ad una passeggiata sulla Spianata delle Moschee”

Lun, 09/10/2023 - 12:58

“Onestamente credo che nessuno si aspettasse un attacco così pianificato nei minimi dettagli. Pensavo che potesse accadere qualcosa dopo le provocazioni e violenze cui avevamo assistito nei mesi scorsi. Quanto è accaduto non è una reazione ad una passeggiata sulla Spianata delle Moschee, è qualcosa di altamente organizzato”. A parlare al Sir, da una Gerusalemme “completamente vuota”, è il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton.

Padre Francesco Patton (Foto Custodia)

Indicazioni alle comunità. “La situazione è molto grave, è stato dichiarato lo Stato di guerra. Nei luoghi dove siamo dislocati sappiamo di essere al momento al sicuro, ma dobbiamo essere prudenti e attenti a ogni possibile evoluzione della situazione. Il rischio di un allargamento del conflitto, esteso anche ai Territori palestinesi della Cisgiordania è reale e bisogna essere molto prudenti e pazienti”, spiega il francescano. La Custodia, sin dal giorno dell’attacco, il 7 settembre, sta dando indicazioni precise ai propri frati perché si muovano con accortezza, visto il momento delicato. Quindi “restare nei conventi” o spostarsi “solo se necessario per studio o lavoro”. La Custodia fa notare che le disposizioni restrittive disposte dalle Autorità di Israele, con lo Stato di guerra, “sono valide nel territorio della Custodia, dunque a Giaffa, Ramleh e Gerusalemme (incluse Beit Hanina e Ein Karem). Sono state rimandate ‘a data da destinarsi’ le celebrazioni di accoglienza in diocesi al patriarca latino e neo cardinale, Pierbattista Pizzaballa, in programma in questi giorni.

(Foto ANSA/SIR)

Moderazione e preghiera. L’attacco di Hamas ha suscitato manifestazioni di sostegno anche in tante città della Cisgiordania, dove la Custodia ha diverse parrocchie e santuari. Chiara l’indicazione del Custode: “In questo momento stiamo cercando di tenere le nostre parrocchie fuori dalle beghe politiche, come sempre facciamo in questi casi. Ci sono manifestazioni a sostegno di Hamas, come si possono vedere sui canali televisivi e sui social, ma l’indicazione è non lasciarsi tirare dentro perché non siamo qui per questo. L’invito è sempre alla moderazione e alla preghiera. Quando ci sono situazioni di conflitto i cristiani sono sempre la parte più debole. Di fatto dopo ogni guerra accade spesso che un buon numero di cristiani emigri all’estero”.

Santo Sepolcro, Gerusalemme (Foto Sir)

Santuari aperti. Il pensiero di padre Patton va ai pellegrini che sono ancora in Terra Santa:

“Per permettere loro di condurre l’esperienza spirituale nel migliore dei modi abbiamo deciso di lasciare i santuari aperti così che possono visitarli e pregarvi all’interno”.

“Non sappiamo quanti gruppi ci sono attualmente, qualcuno si trova a Betlemme, altri nella Galilea, a Nazaret. Non appena sarà possibile faranno ritorno in Italia”. Le prospettive ad oggi non sono rosee:

“Temo con questo attacco, torneremo a stare da soli con i fedeli locali per diverso tempo”.

“Da parte mia ho anche detto che non è prudente organizzare pellegrinaggi. Quando sarà di nuovo sicuro farlo allora daremo notizia e inviteremo le Chiese a ritornare. Siamo in ottobre, Mese del Rosario: chiedo a tutti di pregare per questa Terra dilaniata”.

Attacco contro Israele. Bressan (Lumsa): “11 settembre di Israele, salto di qualità che supera l’azione terroristica”

Lun, 09/10/2023 - 10:08

Al terzo giorno di guerra non si ferma il lancio di razzi da Gaza dove nella notte Israele ha ripetutamente bombardato e colpito circa 800 obiettivi di Hamas e delle altre fazioni nella Striscia. L’esercito fino ad ora ha condotto 1.149 attacchi aerei sull’enclave palestinese, nella giornata di ieri erano stati 800. Sarebbero sette, o forse otto, i villaggi nel sud di Israele in cui i militari israeliani combattono contro i miliziani armati di Gaza, entrati anche la notte scorsa. Fonti militari dell’esercito hanno affermato che entro oggi sarà ripreso il controllo totale delle località. Con il passare delle ore si chiarisce il numero delle vittime e dei feriti: quelle israeliane sono più di 700, compresi i 260 del massacro al rave party al confine, mentre i feriti superano i 2000. Un bilancio destinato a crescere come ha detto in un briefing notturno un portavoce dell’esercito israeliano. Mai così tante nella storia di Israele. A queste cifre si aggiunge quella degli ostaggi in mano ad Hamas e alla Jihad islamica, 130, tra militari e civili. Dal versante palestinese i morti a Gaza per gli attacchi aerei sono 436. A questi vanno aggiunti i miliziani armati delle fazioni, circa 400 uccisi dall’esercito in Israele secondo i dati diffusi dal portavoce militare. I feriti a Gaza – secondo il ministero della sanità locale – sono circa 2.270. Della guerra in corso ne abbiamo parlato con Matteo Bressan, analista e componente del Comitato scientifico del Nato Defense College Foundation e docente di studi strategici presso la Lumsa-Master school.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre potrebbe essere l’11 Settembre israeliano?
Possiamo chiamarlo anche l’11 Settembre di Israele ma ciò che balza agli occhi, in questo caso, è il salto di qualità che supera l’azione terroristica. Qui parliamo di attacchi coordinati su 20 località in territorio israeliano con migliaia di razzi lanciati da Gaza che hanno provocato ad oggi centinaia di vittime israeliane, tra civili e militari. Numeri da operazioni militari e non da attacchi terroristici.

Con questo attacco cade anche il mito della sicurezza di Israele. Da quanto sta emergendo sembra chiaro che ci siano state delle falle incomprensibili. Come si può spiegare?
Ad oggi non abbiamo commenti ufficiali da parte delle forze israeliane. È evidente che un confine così controllato in termini di videocamere, pattuglie e droni sia stato esposto a molteplici attacchi. In ogni caso andrei molto cauto nel dare valutazioni, anche perché siamo solo a poco più di due giorni dall’attacco e prima di accertare eventuali responsabilità c’è da gestire l’emergenza. Ulteriori vittime tra i civili e i militari israeliani, associate a quelle che si sono già registrate, rappresenterebbero un danno enorme all’immagine della sicurezza dello Stato ebraico. L’uso di foto e video della gente sequestrata, dei carri armati in fiamme fa parte della comunicazione strategica volta a colpire e indebolire la volontà di combattere dell’avversario. Vero che Israele si sta compattando ma sono immagini destabilizzanti.

Chi o cosa potrebbe stare dietro questo salto di qualità di cui parlava prima? Hamas da solo avrebbe potuto compiere una simile azione di guerra?
Per tutta una serie di dinamiche storiche consolidate è lecito pensare a un coinvolgimento indiretto del cosiddetto autoproclamato ‘Asse della Resistenza’, composto da Iran ed Hezbollah libanesi. Una partecipazione in termini di forniture e training. Non abbiamo prove che confermino questo coinvolgimento con certezza ma abbiamo le dichiarazioni di pieno sostegno di Iran e Hezbollah ad Hamas e all’attacco di sabato.

‘Casus belli’ adesso sembra essere quello degli ostaggi, molti sono civili e soldati israeliani, ma ce ne sono anche di nazionalità straniera. Come pensa potrebbe gestire Israele questo aspetto del conflitto? A riguardo sappiamo che Israele ha chiesto la mediazione dell’Egitto.
È prematuro, in questa fase, pensare ad un negoziato che possa portare alla liberazione di questi ostaggi. Diverse le opzioni sul tavolo mentre i bombardamenti su Gaza si sono intensificati. Tuttavia quando uno strumento militare prospetta ai vertici politici possibili azioni, tra le questioni poste sul tavolo presumo ci sarà anche quella degli ostaggi. Ma come detto dalle autorità israeliane bisogna prima fermare gli attacchi sul terreno israeliano e impedire ad Hamas di continuare a lanciare razzi. È in questo contesto che si colloca ‘la partita’ degli ostaggi, mai stati così tanti, che va giocata sul piano negoziale e diplomatico con i diversi interlocutori che si propongono come l’Egitto, la Turchia, i Paesi del Golfo.

Attack on Israel. Bressan (LUMSA): “Israel’s September 11, a qualitative leap beyond terrorist action”

Lun, 09/10/2023 - 10:08

On the third day of the war, a rocket barrage from Gaza continues to fall into Israel, which has repeatedly bombed and hit around 800 Hamas targets and other targets in the Strip overnight. So far, the army has carried out 1,149 air strikes on the Palestinian enclave, including 800 yesterday. There are seven, possibly eight, villages in southern Israel where the Israeli military is battling armed Gaza militia that infiltrated the area again last night. Military sources said full control of the villages would be regained by the end of the day. As the hours go by, the number of dead and wounded is rising: more than 700 Israeli dead, including 260 from the rave party massacre at the border zone, and more than 2000 wounded. The toll is destined to rise, as an Israeli army spokesman said in an overnight briefing. An unprecedented number in the history of Israel. There are also 130 hostages held by Hamas and Islamic Jihad, including soldiers and civilians. Airstrikes killed 436 Palestinians in Gaza. To these must be added the armed militiamen of the factions, some 400 of whom were killed by the army in Israel, according to data issued by the military spokesman. The Gaza Health Ministry reported some 2,270 wounded. We discussed the ongoing war with Matteo Bressan, analyst and member of the Scientific Committee of the NATO Defense College Foundation and Professor of Strategic Studies at the LUMSA Master’s degree programme.

Could the Hamas attack of October 7 be Israel’s 9/11?

We could also call it Israel’s 9/11, but what stands out in this case is the qualitative leap that extends beyond acts of terrorism. What happened was a coordinated attack on 20 sites on Israeli territory, with thousands of rockets fired from Gaza, which have so far claimed hundreds of Israeli victims, both civilians and soldiers. These are the numbers of military operations, not terrorist attacks.

This attack has dealt a serious blow to Israel’s security myth. Based on the emerging reports, it seems clear that there were some incomprehensible security failures. How can this be explained?

So far, the Israeli army has made no official statement. It is evident that such a heavily monitored border, with video cameras, patrols and drones, has proved vulnerable to multiple attacks. In any case, I would be very cautious in making any assessment, not least because less than two days have passed since the attack, and there is an emergency to be dealt with before determining possible responsibilities. Any further casualties among Israeli civilians and military personnel, in addition to those reported so far, would do enormous damage to the security image of the Jewish state. The dissemination of photos and footage of abductees and burning tanks is part of a strategic communication designed to strike and weaken the enemy’s will to fight. Granted, Israel is pulling together, but these are destabilising images.

Who or what could be driving the qualitative leap that you mentioned earlier? Could Hamas have carried out this warlike operation on its own?

Due to a number of consolidated historical dynamics, it is reasonable to assume the indirect involvement of the self-proclaimed “Axis of Resistance”, consisting of Iran and the Lebanese Hezbollah. An involvement in terms of supplies and training. We have no evidence to confirm this involvement with certainty, but we do have statements of full support from Iran and Hezbollah for Hamas and for Saturday’s attack.

The hostages now seem to be the casus belli; many of them are Israeli civilians and soldiers, but there are also foreigners. How do you think Israel could deal with this aspect of the conflict? In this regard, we understand that Israel has asked for Egypt’s mediation.

At this stage, it’s too early to think about a negotiation that could lead to the release of these hostages. Several options are on the table, while the bombardment of Gaza has intensified. However, when a military authority will present possible actions to the political leadership, I assume that the hostages will be one of the issues on the table. But as the Israeli authorities have said, the first step is to stop the attacks on Israeli soil and to stop Hamas from continuing to fire rockets. In this context, there is the ‘hostage crisis’ – there have never been so many hostages – which has to be played out at the negotiating and diplomatic level with the various interlocutors, such as Egypt, Turkey and the Gulf countries.

Un corso base di formazione missiologica e missionaria: “Il cristiano è in missione h 24”

Lun, 09/10/2023 - 09:58

Quando si parla di missione la prima immagine che viene in mente è quella del sacerdote o della religiosa che portano il messaggio evangelico nei luoghi più remoti della terra. Non si pensa al proprio condominio, al luogo di lavoro, al supermercato vicino casa, all’ufficio postale. “Il cristiano è in missione h 24. Non ci si mette l’abito per andare in missione, perché l’abito del cristiano è la missione stessa. La missione del cristiano è illuminare, benedire, testimoniare con gioia la presenza di Cristo nella sua vita”. A parlare è Rosalba Manes consacrata dell’Ordo Virginum, biblista, docente nella Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Gregoriana.

Questa sera, lunedì 9 ottobre, introdurrà con il vescovo Daniele Libanori, ausiliare della diocesi di Roma per il settore Centro, il primo Corso base di formazione missiologica e missionaria promosso dalla parrocchia di San Marco Evangelista al Campidoglio. L’incontro proseguirà con la relazione “Chiesa delle origini e missione” del vicario apostolico di Anatolia, il gesuita Paolo Bizzeti. Organizzato in occasione del decimo anniversario dell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” – la prima di Papa Francesco, promulgata il 24 novembre 2013 – il corso inizierà di fatto il 12 ottobre e proseguirà fino all’11 luglio 2024 con appuntamento ogni secondo giovedì del mese alle ore 20 nella cappella della Madonnella di San Marco a piazza Venezia. Dieci serate di due ore ciascuna durante le quali il tema della missione sarà declinato da docenti universitari, medici, laici, in vari contesti come la comunicazione, la cultura, la cura e in varie forme, a partire dalla sinodalità, con un taglio teologico pastorale, partendo sempre dalle Sacre Scritture. Per iscriversi al corso, “rivolto a tutti gli uomini e le donne di buona volontà”, si può inviare una mail al parroco di San Marco Evangelista Renzo Giuliano, all’indirizzo parroco@sanmarcoevangelista.it. Il costo è di 200 euro e al termine ogni partecipante dovrà presentare una tesina. Sabato 14 settembre i corsisti trascorreranno la giornata al Ciam (Centro internazionale di animazione missionaria) dove si terranno vari workshop sulla missione, saranno consegnati gli attestati di partecipazione, sarà celebrata l’Eucaristica all’interno della quale ci sarà una sorta di mandato missionario “perché chi ha fatto questo corso abbia contezza della sua chiamata missionaria e possa rinnovare questa passione per il Vangelo di Gesù Cristo e per l’annuncio del Regno di Dio” aggiunge Manes. La Messa sarà presieduta dal vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, Christian Carlassare, comboniano, missionario in Africa dal 2004, vittima di un agguato nel 2021, un mese prima dell’ordinazione episcopale. Nell’ambito del corso sono previste anche visite al palazzo di Propaganda Fide, sede del Dicastero per l’evangelizzazione – sezione per la prima evangelizzazione e le nuove Chiese particolari, e delle Pontificie opere missionarie/Pontificia unione missionaria. Presentando il ciclo di incontri di formazione, Manes riflette che “è abbastanza riduttivo pensare che la missione sia un’azione, un atto squisitamente clericale. Non è il prete che va in missione. È il popolo dei battezzati che, fatta l’esperienza dell’incontro con Cristo Maestro, la trasmette”. La Chiesa, infatti, da secoli risponde al mandato preciso che il Risorto diede ai suoi apostoli: “Andate e fate discepole tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. C’è quindi “un’azione sacramentale” della Chiesa la quale, rimarca Manes, “si fa prolungamento della missione di Cristo. Missione non è andare in Africa”. Anche perché, basandosi sul numero di iscrizioni all’università Gregoriana, la docente riflette che nella facoltà di teologia sono aumentati gli studenti africani. “Se si considera che le vocazioni diminuiscono tremendamente in Europa e aumentano in Africa non so se andiamo noi a fare la missione in Africa o se è l’Africa che viene da noi” osserva. Per la biblista è importante oggi scrollarsi di dosso l’idea della missione fatta lontano da casa. “Come insegna Papa Francesco nell’esortazione apostolica ‘Evangelii gaudium’ – prosegue Manes – missione è l’azione precipua della Chiesa. Non c’è Chiesa senza missione e come è scritto nel decreto sull’attività missionaria della Chiesa del Concilio Vaticano II “Ad Gentes”, la Chiesa è per sua natura missionaria. Bisogna sfatare tutti i falsi miti della missione”. La missiologia, disciplina che in tutto il mondo ha, nell’ambito cattolico, apposite facoltà solo nelle Pontificie Università Gregoriana e Urbaniana, non è esente da criticità. “In questo tentativo di un dialogo costruttivo con gli uomini e le donne di buona volontà, di altre religioni e confessioni, il rischio che si corre è quello di annacquare un po’ il messaggio – afferma Manes -. Per esempio viene meno la parola ‘conversione’ che invece è costitutiva della nostra esperienza, è la Rivelazione divina contenuta nelle Scritture ebraico-cristiane. ‘Convertitevi e credete al Vangelo è il primo annuncio’. La conversione è un elemento importante, senza mai dimenticare che la fede è un atto di libera adesione, non una forzatura. Il missionario è innanzitutto una persona rispettosa di una cultura. È importante evangelizzare una cultura ed è necessario che tutti i cristiani impregnino il mondo di Vangelo ma non imponendolo. Il cristiano non costringe, non chiacchiera, testimonia”.

Allerta nelle sinagoghe italiane. Di Segni (Ucei): “La vita va avanti, non ci piegheremo al terrore”

Lun, 09/10/2023 - 09:57

“La vita va avanti, la vita deve andare avanti. Noi non ci pieghiamo al terrore, assolutamente. Il terrore vuole proprio questo, l’interruzione e la paura. Non lo possiamo permettere. Per questo continuiamo a vivere e non chiudiamo le sinagoghe. La vita è la cosa più importante. È chiaro che non dipende solo dalla nostra volontà. Dipende anche da quanto lo capiscono gli altri paesi e nei contesti internazionali. Dal diritto di Israele a vivere, a sopravvivere, a resistere alla minaccia”. Al termine di una giornata difficilissima, Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia (Ucei), risponde così al Sir che l’ha contattata per fare il punto sull’allerta massima scattata anche in Italia attorno alle sinagoghe e ai centri ebraici mentre in Israele infuria la guerra. Ieri le comunità ebraiche celebravano l’ottavo giorno di Sukkoth che prende anche il nome di Simchat Torah, la “gioia della Torah”, perchè è il giorno in cui si termina la lettura dei cinque libri in cui la Torah è composta.

Presidente Di Segni, c’è un’allerta anche in Italia?
C’è stata un’allerta di una minaccia precisa e mirata a tutte le comunità e quindi c’è un incremento di tutto quello che possono essere i presidi di sicurezza interni delle forze dell’ordine.

(Foto ANSA/SIR)

Concretamente come cambia la vita in sinagoga alla luce di questa allerta?
Dobbiamo ovviamente attenerci alle regole scrupolose di attenzione. Ma la vita continua perché deve continuare ed è giusto che le sinagoghe siano rimaste aperte durante il sabato e ieri per la festività. Ovviamente con una maggiore attenzione. Questo vale per tutta l’Italia.

Ci sono stati episodi particolari oppure questi due giorni è andata bene?
No, è andata molto bene. Ringraziamo tutte le forze dell’ordine perché non è scontato e se le cose vanno bene, c’è sempre qualcuno dietro che le fa andare così. Tanti volontari e tanta professionalità.

Qual è il sentimento che si registra nelle vostre comunità?

Siamo sconvolti, scioccati. Siamo devastati, sfiniti dalle immagini che vediamo.

Uno shock totale, per tutti i massacri perpetrati ai civili e per tutti i civili deportati a Gaza. Abbiamo visto cose orribili, decine e decine di neonati, ragazzi, donne e anziani, usati come scudi e trofei umani. Terrificante. Ma c’è anche il sentimento di arginare l’isolamento di Israele, di affermare la legittimazione di Israele di potersi difendere, di capire con chi si ha a che fare. E’ fondamentale che il mondo capisca con chi abbiamo a che fare e appoggi il pieno diritto d’Israele di difendersi in una situazione di guerra. A tutti i livelli, senza te e senza ma.

Oggi all’Angelus anche il Papa ha lanciato un appello. Ha detto che la guerra è una sconfitta sempre e per tutti. Quanto sono importanti le voci di Papa Francesco e dei leader religiosi?
Noi abbiamo apprezzato molto anche il suo riferimento allo Stato di Israele. Forse è una novità, cioè capire che quella è l’entità, non è solo la Terra Santa. E’ lo Stato di Israele. E’ lì che si sta svolgendo questo attacco ed è contro lo Stato di Israele che si è sferrata la guerra. Penso che sia molto importante che anche il mondo religioso abbia dato un segnale di condanna così forte.

Il prossimo 16 ottobre si celebrano gli 80 anni dal rastrellamento del ghetto di Roma. Questa ricorrenza cade purtroppo mentre siamo sprofondati in una guerra drammatica con immagini di deportazioni che pensavamo fossero relegate per sempre alla storia. Cosa significa per voi questo?
Vivremo questo anniversario con la consapevolezza che non sono solo pagine di storia, che quanto avvenuto nel passato, succede ancora oggi, adesso, qui. Più evidente di così, non può essere. Non sarà quindi solo un richiamo a dire mai più. Al contrario, dovremmo dire che la storia può ripetersi e che c’è ancora oggi chi vuole che si ripeta. In modi diversi, con tecnologie nuove e situazioni che lo consentono. Non sono più pagine di storia da studiare e da ricordare. È realtà, attualità. Succede lì, succederà qua.

Voi siete ormai diventati veramente degli esperti della memoria. Quale l’antidoto all’odio e alla guerra?
Per noi è la cosa più importante è educare i nostri figli, dal giorno stesso in cui nascono, ad amare gli altri esseri umani. Essere incuriositi dagli altri e apprezzare la vita che si ha e le libertà che si hanno.

Quel grido lanciato tante volte dai leader religiosi “mai più” sembra essere caduto invano.
Si è tradotto in “purtroppo ancora”.

La guerra si prospetta lunga. Quale la sua speranza?
Intanto noi possiamo pregare, ogni minuto e ogni secondo, perché la guerra possa fare meno vittime possibili e spargere meno sangue. Però, anche il mondo ha i suoi poteri e le sue responsabilità per frenare e denunciare questi massacri, portandoli davanti ai tribunali internazionali e condannando la loro strumentalizzazione. Quanto sta accadendo non è deciso dal popolo palestinese ma sostenuto dalle organizzazioni terroristiche. E, ovviamente, condannando l’Iran e non accordando nulla di nulla. Ci sono quindi tanti livelli in cui anche il mondo può fare la sua parte. Noi continueremo a pregare che Dio protegga i ragazzi, soldati, volontari e famiglie, impegnati nella difesa delle preziose vite e ogni palmo di terra di Israele, in queste precipitose ore, e porti guarigione alle migliaia di feriti in cura.

Security alert in Italian synagogues. Di Segni (UCEI): “Life goes on, we will not give in to terror”

Lun, 09/10/2023 - 09:57

“Life goes on, life must go on. We will not succumb to terror. That’s what terror wants, to cause disruption and fear. We will not let that happen. That is why we will go on with our lives and we will not close the synagogues. Life is the most important thing. Of course, it does not depend on our will alone. It also depends on the extent to which other countries and international contexts recognise this. Israel’s right to live, to survive, to withstand this threat.” At the end of a very tense day, Noemi Di Segni, President of the Union of Jewish Communities in Italy (UCEI), was contacted by SIR to comment on the high alert in Italy for synagogues and Jewish community centres, while the war rages in Israel. Yesterday the Jewish communities celebrated the eighth day of Sukkoth, also known as Simchat Torah, the “Joy of the Torah”, which marks the end of the reading of the five books that make up the Torah.

President Di Segni, are Jewish communities in Italy on high alert?

There has been an alert, indicating a specific, targeted threat against all communities, which has led to increased surveillance by the internal security forces.

How will this alert affect religious life in the synagogues?

There is, of course, the need for strict compliance with the most rigorous precautions. But life goes on as it must, and it is only natural that the synagogues remain open on the Sabbath and yesterday for the holiday. With increased vigilance, of course. This applies to all of Italy.

Were there any particular incidents or did these two days go by without any problems?

Everything went smoothly. We would like to thank the police. It is not something to be taken for granted and when things go well, there is always someone who makes it happen. So many volunteers and so much professionalism.

 What is the mood in your communities?

We are shocked, devastated. We are overwhelmed, shattered by the images we are seeing

We are in a state of utter shock at all the massacres of civilians and at the deportation of so many civilians to Gaza. Horrible images, dozens and dozens of babies, young women and old people being used as human shields and trophies. It’s horrifying. But at the same time there is a desire to end Israel’s isolation, to reaffirm Israel’s right to self-defence, to understand who it is we are fighting against. It is of vital importance that the world understands what we are up against and that it supports Israel’s inherent right to defend itself in a state of war. At all levels, without ifs or buts.

The Pope made an appeal to this effect at the Angelus prayer on Sunday. He said that war is always a defeat, for everyone. How important is the voice of Pope Francis and religious leaders?

His reference to the State of Israel was also very much appreciated. This is perhaps a novelty, to recognise that this is the entity, it is not just the Holy Land. It is the State of Israel. That is where this attack is taking place and it is against the State of Israel that the war is being waged. I think it’s very important for the religious world to come out and condemn this as strongly as possible.

This coming 16 October will mark the 80th anniversary of the Nazi raid on Rome’s Jewish ghetto. Sadly, this anniversary comes at a time when we have been plunged into a tragic war with images of deportations that we thought would be bound forever to our historical memories. What does this mean to you?

We will mark this anniversary in the knowledge that these are not just pages of history, that what happened in the past is still happening today, right here. It could not be more evident. So it will not just be a reminder to say never again.

On the contrary, we should say that history can repeat itself and that there are those who still want it to repeat itself. In different ways, with new technologies and circumstances that make it possible.

These are no longer pages of history to be studied and remembered. It is reality, the present situation. It is happening there, it will happen here.

You have become true experts in the importance of remembrance. What is the antidote to hate and war?

For us, the most important thing is to teach our children to love their fellow human beings from the day they are born. To be curious and appreciate the life we have and the freedoms we are given.

The cry of ‘never again’ so often uttered by religious leaders seems to have fallen on deaf ears.

It has become ‘unfortunately again’.

 This war is expected to last a long time. What are your hopes?

First of all, we can pray, every minute and every second, that the war will claim the smallest number of victims and the least bloodshed.

But the world has its own powers and responsibilities. It can stop these massacres, denounce them, bring them before international courts and condemn their instrumental exploitation.

What is happening is not decided by the Palestinian people, it is supported by terrorist organisations. And, of course, Iran is to be condemned and nothing conceded. So there are many levels at which the international community can play its part. We will continue to pray to God to protect the young men, soldiers, volunteers and families involved in the defence of precious lives and every inch of Israel’s land in these desperate hours, and to bring healing to the thousands of wounded receiving medical treatment.

Marco Paolini e “Vajonts23”: sessant’anni dopo la tragedia in scena un nuovo racconto corale

Lun, 09/10/2023 - 09:49

Quella sera, il 9 ottobre 1997, da un sito decisamente improprio per uno spettacolo teatrale, nei pressi della diga del disastro del Vajont, nel versante riempito dalla frana, Marco Paolini squarciò un velo.
Davanti ad un pubblico che si riparava dal freddo, in diretta su Raidue, rappresentò “Il racconto del Vajont”, conosciuto anche come “Vajont 9 ottobre ’63 – Orazione civile”, il monologo teatrale che aveva lanciato nel 1993, a trent’anni dalla caduta di quella frana che aveva davanti. Con l’aiuto di una lavagna spiegò, finalmente, agli italiani la storia del Vajont, quali furono le omissioni, le forzature, le bugie e le responsabilità che generarono quella disgrazia. Un evento che ridiede dignità e fiducia ai cittadini e alle comunità colpite, stravolte.

(Foto ANSA/SIR)

Paolini, cosa ha rappresentato per lei, come cittadino e come uomo di teatro, quello spettacolo del 1993, poi proposto in televisione nel 1997?
Per me la storia del Vajont voleva dire restituire giustizia a chi non l’aveva avuta. E in fondo anche mettere me stesso alla prova, perché anch’io avevo “archiviato” quella storia come un disastro naturale. Quindi è stato molto importante per me raccontare la sofferenza, l’ingiustizia, dire i nomi dei colpevoli. Trent’anni dopo, del Vajont sappiamo molto di più. Giustizia è stata fatta, la memoria è stata ricostruita.

Nel sessantesimo anniversario un nuovo spettacolo, perché?
Nel 1997 erano passati 34 anni dal disastro. Adesso, sono 60. Cos’è cambiato? Noi non siamo gli stessi. È passata una generazione, ma non è solo questione anagrafica. Da alcuni anni ho cominciato a studiare i report sul clima, a leggere i libri di chi prova a narrare ciò che stiamo vivendo, a misurare le strategie del negazionismo prima e del populismo poi nel cavalcare i luoghi comuni che contrastano il quadro scientifico, giustificando un’inerzia diffusa alla transizione ecologica. A ogni catastrofe sentiamo ripetere parole che non servono a impedirne altre.

Stavolta è una proposta assai diversa. Come è stata pensata?
La storia del Vajont è stata anche una catena di errori. E racconta non solo ciò che è accaduto sessant’anni fa, ma quello che potrebbe accadere a noi su scala diversa, in un tempo assai più breve. Dunque oggi quello che chiediamo con questa occasione, è di riflettere sugli errori più che sulle colpe. E di riflettere ragionando sulla complessità delle storie di tutto il nostro Paese. Per questo è un Vajont con la “esse”, al plurale, perché le situazioni di fragilità idrogeologica dell’Italia e le nuove situazioni di siccità a cui la crisi climatica ci espongono richiedono anche al mondo del teatro, dell’arte in generale, di occupare un ruolo civile, di “colla sociale” tra i cittadini.
È questo il senso del coro che noi abbiamo messo in campo per il 9 ottobre 2023, una partitura suonata, eseguita, narrata, detta da centinaia di artisti in tante parti di questo Paese in contemporanea. Un coro che chiama i cittadini senza fornire loro delle risposte tecniche, senza indicazioni politiche su che cosa bisogna fare. Non compete a noi la direzione politica. Ma ci compete rimettere i cittadini in una presenza attiva di quella che noi chiamiamo Prevenzione civile. Quindi un ruolo prepolitico del teatro, rispetto al quale però la politica oggi non è in grado di rispondere, perché divisiva. Dunque noi abbiamo bisogno di ricostruire questo tessuto, e storie come quella del Vajont ci aiutano a rimettere insieme le persone. Le altre storie dobbiamo imparare a raccontarle.

(*) precedentemente pubblicato su “L’Azione” (Vittorio-Veneto)

Longarone 9 ottobre 1963: il ricordo della maestra Teresa D’Incà

Lun, 09/10/2023 - 09:45

La mattina del 9 ottobre 1963 la maestra Teresa D’Incà di Trichiana, che in quel periodo abitava a Belluno, si reca come tutti i giorni a Longarone per far scuola alle alunne della classe quinta elementare. In quei tempi a Longarone le classi erano divise tra maschi e femmine. In tutto 23 allieve alle quali aveva insegnato anche nell’anno scolastico precedente.
Apparentemente è una giornata tranquilla, la scuola è ripartita da appena una settimana. Quella mattina, prima di entrare in classe, il collega maestro Paolino De Bona, che abitava con la famiglia nella frazione di Rivalta, pronuncia queste parole che Teresa ricorda molto bene: “Se la diga del Vajont cede, sono il primo a partire!”.
La diga non è crollata, ma la devastante onda di morte causata dalla caduta del monte Toc nel bacino della diga, lo ha portato via insieme alla moglie ed alle sei bambine. Il corpo fu ritrovato decapitato. Fu possibile riconoscerlo dall’incisione nella fede nuziale.
Questo è solo uno dei tanti drammi che Teresa si trovò ad affrontare e, come molti altri episodi, sono tuttora ben vivi nella sua memoria.
Della sua classe – racconta – si salvarono solo cinque bambine. Dei 153 studenti della scuola si salvarono in 40; e sei dei 14 insegnanti. E la bidella che abitava nella scuola fu portata via dall’acqua, mentre le sue tre bambine riuscirono a salvarsi.
È con emozione che Teresa mostra le fotografie scattate alla fine dell’anno scolastico precedente alle sue scolare ed ai suoi colleghi. Immagini di gioia e spensieratezza di un fine anno scolastico.
“Nei giorni precedenti la catastrofe – racconta Teresa – gli alunni riportavano in classe discorsi sentiti a casa, raccontando che in paese c’era ansia e preoccupazione per alcuni episodi che si erano verificati alla diga. Sulla strada a monte dello sbarramento erano comparse larghe crepe sulla strada. Erano state svuotate velocemente le malghe dalle mucche e si vedevano gli alberi piegati, segno evidente che il terreno era in movimento. La preoccupazione era comunque generale in tutti i paesi sopra la diga come a Longarone”.
“La sera del 9 ottobre – prosegue Teresa – esco di casa ed improvvisamente vedo spegnersi tutte le luci della strada. La televisione in casa non funzionava, decisi cosi di andare a letto. Fu mia zia che il mattino successivo a dirmi che alla radio ed alla televisione avevano dato la notizia che era crollata la diga del Vajont. Parto per Longarone, ma a Ponte nelle Alpi come molte altre persone vengo fermata, non si può proseguire. Apprendo che Longarone come molti altri paesi sono stati spazzati via dall’acqua della diga e non esistono più. Mi salgono l’ansia e un’agitazione interna; in farmacia mi viene dato un tranquillante. Il mio pensiero corre alle mie alunne, ai loro genitori, ai colleghi, non avevo modo di avere informazioni su di loro. Solo la domenica, quando la Croce Rossa mi chiese di portare un materasso in Zoldo ad un sopravvissuto che aveva perso tutto, casa e famiglia, ospite da parenti, riesco ad arrivare nei pressi di Longarone. La via di comunicazione assomigliava più al greto di un torrente che a una strada. Longarone non c’era più, solo un’immensa distesa di fango.
Con un grande sforzo il mercoledì successivo il disastro, viene riaperta la scuola. Si riformano alcune classi dove c’era l’archivio del Municipio, vicino alle brande dove dormivano i militari, con l’obiettivo di tenere il più possibile lontani i bambini dalla visione dei morti.
Ho potuto così entrare nella mia aula, al primo piano della scuola elementare, che fortunatamente era rimasta in piedi. L’acqua era arrivata al soffitto! Sentivo che dovevo darmi da fare, dovevo fare qualcosa. Bisognava ripartire.Le lezioni iniziavano alle 8, fino alle 5 del pomeriggio. Tenevamo occupati il più possibile gli alunni. Avevo una classe mista di 5 alunne e 5 maschi. I bambini a scuola erano traumatizzati, avevano un blocco totale che impediva loro di esprimersi. Questo durò per mesi, nessuno voleva parlare del dramma del Vajont che aveva sconvolto le loro vite. Il primo giorno di scuola c’erano le televisioni, i giornalisti, i fotoreporter che in qualche modo con la loro presenza hanno aiutato i bambini a mitigare la sofferenza di vedersi cosi in pochi.
La domenica con la Croce Rossa andavo a consegnare di pacchi viveri alle persone sopravvissute con lo scopo di capire le loro necessità, il loro stato d’animo e, con grande fatica, provare a instaurare un dialogo, una relazione seppur tra tante difficoltà”.
“Nel 2003 – ricorda la maestra D’Incà -, in occasione del 40esimo anniversario, ho voluto ritrovarmi insieme ai mei alunni della classe di allora per una pizza. Insieme a loro ho ripreso in mano le preziose fotografie ed i documenti che avevo: alcuni che mi sono stati donati dai parenti dei miei colleghi deceduti ed i temi degli alunni che ho conservato gelosamente. Tanti piccoli frammenti di un passato al quale sono ritornata – conclude Teresa -, come in un intimo pellegrinaggio, raccolti in una pubblicazione del titolo “Din, dòn, le campane di Longaròn””.

(*) precedentemente pubblicato su “L’Azione” (Vittorio-Veneto)

Attacco contro Israele. Caritas Jerusalem: “Situazione destinata a peggiorare”

Sab, 07/10/2023 - 13:40

Almeno 5mila razzi sono stati lanciati, all’alba di oggi, dalla Striscia di Gaza verso il sud e il centro di Israele (Tel Aviv e Gerusalemme comprese). Contestualmente numerosi miliziani armati di Hamas sarebbero penetrati, a sorpresa, in 14 luoghi di Israele situati lungo il confine con Gaza arrivando anche dal mare e in parapendio. Mohammad Deif, uno dei comandanti delle Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām, il braccio armato di Hamas a Gaza, ha definito l’operazione “Alluvione al-Aqsa” motivandola con il rifiuto di Israele di liberare “i nostri prigionieri” e con “la profanazione dei luoghi santi a Gerusalemme”. Al momento le vittime israeliane sarebbero 22, 545 i feriti, alcuni dei quali gravi, secondo quanto riportato dai media israeliani. Tra i morti anche il presidente del Consiglio regionale di Shaar Hanegev, in cui si trova Sderot, uno dei due settori delle comunità israeliane vicino alla Striscia. Non sono al momento confermate le notizie che miliziani armati palestinesi avrebbero preso il controllo di tre kibbutz. Hamas, poco fa, ha pubblicato delle foto che mostrerebbero la cattura di soldati israeliani e di alcuni civili, tenuti in ostaggio. Negli ospedali di Gaza, secondo fonti locali, da questa mattina, sono 161 i morti e quasi mille (931) i feriti.

Pronta la reazione israeliana. “C’è stato un attacco combinato con l’aiuto di parapendii”, ha confermato alla stampa il portavoce dell’esercito israeliano, il tenente colonnello Richard Hecht, che ha aggiunto che le Forze armate israeliane stanno combattendo in diversi punti della Striscia di Gaza. Nessuna conferma da parte del portavoce delle notizie della cattura di soldati israeliani da parte di combattenti palestinesi. Confermata, invece, la chiamata dei riservisti destinati a operare a Gaza, ai confini con il Libano e la Siria, e nella Cisgiordania occupata. Il premier Netanyahu ha parlato di “guerra” e ha annunciato la controffensiva denominata “Spade di ferro”, con decine di aerei che stanno attaccando Hamas a Gaza.

Testimonianza. Da Betlemme, dove è in attesa di entrare nella Striscia, “spero di farlo domani”, a parlare è il parroco latino della parrocchia della Sacra Famiglia, l’unica cattolica di Gaza, padre Gabriel Romanelli: “il valico di Erez è chiuso. Le notizie che arrivano da Gaza sono molto brutte – dice al Sir – fortunatamente i nostri parrocchiani stanno bene anche se la paura si sta diffondendo. Alcuni di loro hanno chiesto rifugio alla parrocchia dove già da qualche mese abbiamo approntato una sorta di rifugio, con cibo, acqua, materassi, dove poter avere riparo durante le emergenze dovute alle continue campagne militari. Preghiamo perché i combattimenti cessino ma temo che le cose possano volgere al peggio”. Padre Romanelli riferisce che anche “a Betlemme la tensione è alta. Alcuni religiosi che da Betlemme si sono recati a Gerusalemme hanno trovato i check point chiusi”.

La voce della Caritas Jerusalem. A confermare la morte di “numerosi soldati e civili israeliani” e il rapimento di “molti altri a Gaza” è la Caritas Jerusalem che in una nota pervenuta al Sir ricostruisce le prime ore dell’attacco di Hamas e la reazione israeliana. “Attualmente – dicono da Caritas Jerusalemme – tutti i posti di blocco della Cisgiordania sono chiusi e anche tutti gli accessi che conducono alla città vecchia di Gerusalemme sono chiusi. L’ingresso è consentito solo ai civili di età superiore ai 30 anni”. In via precauzionale la Caritas Gerusalemme ha sospeso “le sue operazioni a Gaza per garantire la sicurezza del suo personale e ha temporaneamente chiuso il centro sanitario”. Tuttavia, fa sapere la Caritas, “il piano di emergenza, che doterà le nostre équipe mediche di kit di pronto soccorso e medicinali essenziali, è pronto per fornire assistenza man mano che la situazione si chiarirà”. Quanto sta accadendo in queste ore, per la Caritas Jerusalem, “segna uno dei periodi più significativi degli ultimi decenni e, sfortunatamente, la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente”.

Voce dal kibbutz sotto attacco. Dal vicino kibbutz di Nirim, sito nel distretto di Eshkol (Negev occidentale), a poco più di due chilometri dal confine di Gaza, arriva la testimonianza di una sua abitante, Adele Raemer. Il kibbutz è da sempre un target dei razzi di Hamas e sembra essere attualmente uno di quelli sotto attacco: “Ho sentito un massiccio fuoco di mitragliatrice. Non ho idea se l’esercito sia già qui. Siamo tutti in lockdown nelle nostre ‘safe room’ (stanze blindate) e non possiamo uscire – dice Raemer – i terroristi stanno cercando di penetrare all’interno del kibbutz, casa per casa”. Il kibbutz venne fondato nel 1946, nella notte di Yom Kippur insieme ad altre 10 comunità ebraiche nel Negev, dai membri del movimento giovanile Hashomer Hatzair. Nel giorno della Dichiarazione di Indipendenza – 14 maggio 1948 – l’esercito egiziano invase il neonato stato di Israele e Nirim fu il primo insediamento israeliano ad essere bombardato dall’artiglieria egiziana che però fu respinta.

Laudate Deum. Morandini: “Il Papa ci invita a prendere in mano la storia e orientarla a un futuro sostenibile”

Sab, 07/10/2023 - 10:00

Un appello a tutte le persone di buona volontà di fronte alla crisi climatica che avanza e rispetto alla quale “non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura”. A otto anni dall’enciclica Laudato si’ lo lancia Papa Francesco, con l’esortazione apostolica Laudate Deum, pubblicata nel giorno della festa di San Francesco, il 4 ottobre, nella consapevolezza “che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti”. Della nuova esortazione del Pontefice parliamo con il teologo Simone Morandini.

(Foto: Redazione)

La Laudate Deum presenta un’analisi molto puntuale sul cambiamento climatico…

Il Papa cita ampiamente – come evidenziato nelle note del testo – report molto autorevoli dal punto di vista scientifico. La fonte principale è l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), promosso dalle Nazioni Unite, organismo che monitora le pubblicazioni scientifiche in materia di climatologia. Francesco attinge ampiamente ad esso, specie agli ultimi report usciti tra il 2022 e il 2023. Già qui ci sono due elementi di grande interesse. Il primo è la volontà, espressa a un livello inedito – anche superiore alla Laudato si’ – di attenersi allo stato dell’arte per quanto riguarda la comprensione scientifica di un fenomeno estremamente rilevante. Il secondo è la volontà di prendere esplicitamente posizione contro i negazionisti scientifici, che continuano a dire che il mutamento climatico non esiste, ma anche contro quei negazionisti di fatto, che, pur mostrandosi sensibili al problema, poi non intraprendono azioni concrete per opporsi a esso. C’è una doppia attenzione in questo senso e il Papa si esprime con molta forza in Laudate Deum.

Cosa l’ha colpita della Laudate Deum?

L’esortazione apostolica è un intervento autorevole in un dibattito che attraversa la comunità internazionale – non quella scientifica che ormai semplicemente consolida i propri argomenti e approfondisce temi -, ma solo quella politica. Ad essa si indirizza Francesco per chiamarla a un’attenzione e ad un’azione tempestiva e incisiva. Non è casuale che ben tre sezioni guardino alla politica internazionale, con la quinta che culmina in espliciti appelli indirizzati alla prossima Conferenza delle Parti di Dubai.

Un luogo che non promette bene per l’esito dei risultati della Cop…

Il Papa è stato delicato, dice che gli Emirati Arabi Uniti sono un Paese grande esportatore di energia fossile, anche se ha investito molto nell’energia rinnovabile.

Ma cosa possiamo aspettarci dalla Cop28? L’appello del Papa sarà raccolto in qualche modo?

Non faccio previsioni, ma ci si avvicina alla Cop28 in un clima non favorevole: al di là della localizzazione della Conferenza, le tensioni legate all’invasione russa in Ucraina hanno frammentato la comunità internazionale, che non è al momento propensa ad attivare dinamiche di collaborazione. Non si possono quindi avere a priori aspettative di alto livello; ricordo però che la stessa cosa si diceva pochi mesi prima della Cop21 di Parigi, alla quale fa riferimento anche la Laudate Deum. E sono in molti a testimoniare che i buoni risultati della Cop di Parigi sono anche il frutto dell’argomentazione morale e religiosa messa in campo da Papa Francesco nella Laudato si’, pubblicata alcuni mesi prima. Quindi aspettiamo a fasciarci la testa anche se le condizioni di partenza non sono favorevoli.

L’urgenza del problema e il richiamo fatto da Francesco possono avere un valore e orientare anche gli Stati più recalcitranti ad una maggior attenzione al tema.

Francesco parla di pungiglione etico.

Questa è una sfida che conosce ogni soggetto che non operi tramite il potere del denaro o il potere dell’influenza: l’appello non può che essere etico e abbiamo nella storia dell’umanità fasi in cui esso ha aiutato a cambiare, ha richiamato e invitato a prendere in considerazione altri fattori. Ad esempio, a proposito del bilanciamento tra posti di lavoro persi e guadagnati con uno spostamento verso l’energia verde, Francesco invita a non dimenticare che al momento quello che stiamo perdendo – e a velocità crescente – sono posti di lavoro e opportunità di vita a causa degli effetti del mutamento climatico che distrugge la natura, il mondo come lo conosciamo, rendendolo sempre meno abitabile per gli esseri umani. Abbiamo un pungiglione etico in cui l’altruismo si intreccia con l’egoismo intelligente, come richiamo a prendere in carico anche noi stessi, la nostra esistenza come famiglia umana. Davvero non solo i nostri figli, ma già noi stessi, che ormai tocchiamo con mano l’impatto del mutamento climatico sulle nostre vite.

Il Pontefice mette in guardia anche dal paradigma tecnocratico con l’idea di un essere umano senza limiti, la decadenza etica del potere, la politica internazionale debole, l’assenza di istituzioni e organizzazioni sovranazionali in grado di far rispettare gli impegni presi e di dirimere le controversie.

La critica alla tecnocrazia – non alla scienza o alla tecnica – era già forte in Laudato si’. Interessante l’accento forte posto sul multilateralismo nella sezione dedicata alla fragilità della politica internazionale. Un multilateralismo che vada al di là delle politiche prettamente orientate agli interessi nazionali che purtroppo vediamo in prevalenza in questi ultimi anni. Il primo elemento è ritornare a collaborare nel contesto di organizzazioni mondiali ben strutturate, senza trascurare la rilevanza della società civile che diventa pure un fattore importante. Papa Francesco sottolinea come essa diventi di fatto un’espressione del principio di sussidiarietà così caro alla Dottrina sociale della Chiesa, in un multilateralismo dal basso che coinvolga la responsabilità dei soggetti a vari livelli.

Tutto è collegato, nessuno si salva da solo, ricorda ancora una volta il Papa. È importante anche la conversione dei nostri stili di vita?

Ritengo che l’esortazione apostolica Laudate Deum vada sistematicamente letta avendo sullo sfondo l’enciclica Laudato si’, come suo presupposto anche rispetto alle categorie concettuali e agli orizzonti di riferimento. In Laudate Deum Francesco pone indubbiamente l’accento soprattutto sulle esigenze che toccano la politica internazionale, sulle responsabilità dei governi e delle organizzazioni sovranazionali nel prendere decisioni efficaci, urgenti e controllabili. Questo non significa che il Pontefice non sottolinei anche la responsabilità dei singoli, delle famiglie, delle comunità, in ordine a un rinnovamento degli stili di vita, a pratiche responsabili di consumo.

Contenere il mutamento climatico è una sfida così complessa che solo con una reale attivazione di una responsabilità a più livelli possiamo venirne fuori in modo efficace, salvando coloro che già ora ne stanno pagando le conseguenze.

Il Papa si rivolge ai fedeli cattolici e incoraggia anche i fratelli e le sorelle di altre religioni perché la fede autentica “illumina il rapporto con gli altri e i legami con tutto il creato”. Come sarà accolta a livello ecumenico e interreligioso la nuova esortazione?

È un testo che rispetto a Laudato si’ è più essenziale, si concentra soprattutto sull’istanza di etica socio-ambientale e dedica un’attenzione meno ampia al dialogo con altre comunità di fede, benché l’ultima sezione si apra con questo appello rivolto ai fratelli e alle sorelle di altre religioni ad approfondire le motivazioni che scaturiscono dalla loro fede così come è invitata a fare la comunità cattolica. Non è un testo esplicitamente orientato al dialogo come era Laudato si’ e come lo era, a maggior ragione, la Fratelli tutti. Questo è un testo di altra natura che presuppone quanto detto nelle due encicliche e lo rilancia sullo specifico versante del mutamento climatico. Era un testo comunque atteso; penso che susciterà un forte interesse e anche reazioni sintoniche da parte di altre comunità religiose.

C’è qualche aspetto particolarmente importante della Laudate Deum?

Sì, ci sono un paio di aspetti di rilevanza etica. Nella sezione sesta c’è uno sfondo spirituale che attinge direttamente alla Laudato si’ – è un testo pieno delle citazioni dell’enciclica – ma anche con un paio di idee nuove. Innanzitutto, l’idea di “antropocentrismo situato”, abbastanza inedita: da un lato si sottolinea il “valore peculiare e centrale dell’essere umano in mezzo al meraviglioso concerto di tutti gli esseri”, ma dall’altra si ricorda che “la vita umana è incomprensibile e insostenibile senza le altre creature”. È la ripresa del grande tema della Laudato si’ della famiglia universale, di una comunione sublime, di una interconnessione a livello globale; c’è, quindi, una sottolineatura della singolare responsabilità del soggetto umano ma, al contempo, del suo radicamento in quella rete relazionale in cui la creazione ci colloca. Un altro dato inedito è l’espressione, presa dalla pensatrice Donna Haraway, che parla di “zona di contatto”, per sottolineare come il mondo intero sia qualcosa tramite cui siamo uniti a tutte le creature, anche se il paradigma tecnocratico rischia di occultare la nostra percezione di tale realtà. C’è insomma anche un approfondimento di una antropologia ecologica in questo breve testo.

Breve, ma intenso…

Concordo: Laudate Deum è un piccolo testo, che esplora dimensioni che Laudato si’ accennava, mentre qui vengono focalizzate. Il cuore del testo è al numero 59, con questo invito “a far sì che la Cop28 diventi storica, che ci onori e ci nobiliti come esseri umani”:

c’è un richiamo a una dignità umana intesa come capacità di prendere in mano la nostra storia e orientarla a un futuro sostenibile, a un futuro abitabile, a un futuro che non sia pieno di vittime, i poveri sempre in prima luogo.

Per lavorare a un futuro sostenibile Papa si rivolge, come dicevamo, soprattutto al mondo politico e alle organizzazioni internazionali…

Sì, perché è un testo il cui target è la Cop28 di Dubai, che ha come attori principali i governi e le organizzazioni sovranazionali. Non dimentichiamo però l’ampia perorazione che faceva Francesco nella Laudato si’ per i piccoli gesti quotidiani che possono fare la differenza, con un elenco di dieci punti esemplificativi di buone pratiche ecologiche quotidiane. Là sottolineava pure che non è solo un operare individuale, ma sono azioni di bene che sono diffusive di se stesse, che moltiplicano la propria efficacia, quando si articolano in reti interpersonali e comunitarie. Non si deve leggere la Laudate Deum in isolamento dalla sua matrice di riferimento che è la Laudato si’. Vorrei però anche sottolineare che è di estremo rilievo che Francesco torni con un documento, sebbene non dello stesso livello, su una tematica che aveva affrontato pochi anni fa. È la chiara testimonianza che questa è un’armonica fondamentale del suo magistero. Non dimentichiamo che quando ha motivato la scelta del nome Francesco il Papa aveva evocato il Santo di Assisi come l’uomo della pace, l’uomo dell’amore per i poveri, l’uomo della custodia del creato. La volontà di tenere assieme queste tre dimensioni si è espressa in tanti testi e interventi: Laudato si’, adesso Laudate Deum, ma non dimentichiamo Querida Amazonia e anche i tanti messaggi inviati alle assise internazionali in cui i temi ambientali erano al centro. Sarebbe tempo, forse, di studiare in modo sistematico, complessivo, questo magistero ambientale di Francesco.

Il Papa è preoccupato dal fatto che non reagiamo di fronte alla crisi climatica…

Laudate Deum è anche questo: un appello in un mondo che sta andando a pezzi e rispetto al quale non ci stiamo preoccupando a sufficienza o non stiamo operando in modo sufficientemente incisivo.

Un appello fatto da un uomo che pur essendo avanti negli anni mantiene questa fortissima capacità di guardare avanti, questa lungimiranza che lo fa attento al futuro, alle sue splendide possibilità, ma anche alle minacce su di esso.

È uno sguardo vigilante, che intreccia la costante attenzione alla pace e alla qualità della vita umana con un’attenta percezione dello sfondo ambientale, planetario, globale in cui essa si realizza e si dispiega. Non a caso, accanto a Laudato si’ l’altro testo molto citato in Laudate Deum è Fratelli tutti; è interessante perché dopo l’enciclica sulla fratellanza c’è chi ha contrapposto le due encicliche: come se una fosse “verde” e l’altra antropocentrica. In Laudate Deum emerge con chiarezza che le esigenze della fraternità umana chiedono attenzione alla cura del creato e all’ascolto del grido della terra: il magistero sociale di Francesco è unitario e spiazza ogni tentativo di scoprirvi discontinuità o contrapposizioni.

In sala “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry”, su Netflix “Lupin. Parte 3”

Sab, 07/10/2023 - 09:36

Un viaggio catartico e riparatore. È il coinvolgente cammino laico, non privo di riflessi di spiritualità, che intraprende il pensionato Harold Fry, personaggio uscito dalla penna della britannica Rachel Joyce e sagomato sullo schermo dal Premio Oscar Jim Broadbent. Parliamo del film “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry” diretto da Hettie Macdonald (“Normal People”), una storia di finzione dagli ancoraggi profondamente realistici, un racconto che scandaglia le tonalità livide della sofferenza umana facendole virare verso i colori della fiducia. Una storia poetica, che fa bene al cuore. Su Netflix è disponibile la terza parte di “Lupin”, serie francese di impianto giallo con inserti brillanti creata da George Kay. Sette nuovi episodi dedicati alle avventure del ladro gentiluomo Assane Diop, nuovamente tallonato da polizia e nemici di lungo corso. Protagonista un sempre convincente Omar Sy, affiancato da Ludivine Sagnier, Antoine Gouy e Soufiane Guerrab. Il punto Cnvf-Sir

“L’imprevedibile viaggio di Harold Fry” (Cinema, dal 5 ottobre)
“Quando ho letto l’incredibile romanzo di Rachel Joyce, ne sono stata immediatamente affascinata. Rachel affronta i temi del lutto, della perdita, del senso di colpa e della cura. Credo che Harold sia un eroe straordinario, con il suo coraggioso salto nell’ignoto dimostra che è possibile guarire attraverso un atto di fede”. Sono le parole della regista Hettie Macdonald – tra i suoi lavori le serie “Normal People” e “Casa Howard” –, che ben introducono il film “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry”, nei cinema con Bim dal 5 ottobre. Protagonisti il Premio Oscar Jim Broadbent (“Moulin Rouge!”, “Iris”, “Il ritratto del Duca”) e Penelope Wilton (“Downton Abbey”, “After Life”). A firmare la sceneggiatura è sempre la scrittrice Joyce.

La storia. Nella cittadina di Kingsbridge, nella contea del Devon, vivono Harold Fry e sua moglie Maureen, una coppia di pensionati dalla vita semplice e composta. Un giorno Harold riceve una lettera da una sua ex collega, Queenie (Linda Bassett), che gli confida di essere malata di tumore, in stadio avanzato, e di vivere in un hospice al Nord, a Berwick-upon-Tweed. Scosso dalla notizia, Harold decide di rispondere alla lettera, anche se non trova facilmente le parole. Dopo aver composto un testo dignitoso, saluta la moglie ed esce di casa diretto all’ufficio postale. Harold capisce però che la missiva non è sufficiente: si aggrappa fiduciosamente all’idea di andare a salutare Queenie di persona e intraprende un cammino a piedi di 800 km.

The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry

Quello che si configura come un atto di fede laica, un cammino-testimonianza giocato sui valori dell’amicizia e della solidarietà, in verità si dipana come uno struggente e poetico viaggio esistenziale del protagonista ma anche della comunità di cui è parte. Nel viaggio cambia Harold e chi gli sta intorno. Animato da sentimenti nobili, il pensionato Harold Fry si getta in un’impresa più grande di lui: si mette in marcia convinto di poter tenere in vita l’amica malata, almeno finché non arriverà da lei in Scozia. Un viaggio che sulle prime lascia di stucco tutti, ma che piano piano appassiona quell’umanità che Harold incontra lungo la via, un’umanità che si apre con gentilezza e solidarietà verso l’anziano e improvvisato viandante, fonte luminosa d’ispirazione per tutti.

The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry

Inoltre, il film si direziona in chiave introspettiva: ci mostra progressivamente, grazie a diversi flashback, le ferite dell’animo di Harold, a cominciare dalla morte per suicidio dell’unico figlio David (Earl Cave) e dal rapporto disperso con la moglie. Harold e Maureen si sono allontanati per troppa sofferenza. L’uomo compie pertanto un percorso di attraversamento del dolore, mettendo in condivisione il proprio struggimento con quello altrui e tracciando una traiettoria di riscatto, una possibilità di riconciliazione.Avvalendosi di due interpreti intensi e raffinati, come Broadbent e Wilton, la regista Macdonald riesce con abilità a trasporre in maniera convincente il romanzo d’esordio di Rachel Joyce. Ne valorizza e amplifica le possibilità tematiche ed espressive, confezionando un’opera dolce e dolente, marcata da diffusa poesia. “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry” è un film che conquista per densità e delicatezza. Consigliabile, problematico, per dibattiti.

“Lupin. Parte 3” (Netflix, dal 5 ottobre)
Torna una delle serie di punta di Netflix. Dal 5 ottobre sono disponibili i sette nuovi episodi della terza parte di “Lupin”, adattamento nella Francia contemporanea del ladro gentiluomo Arsenio Lupin, creatura letteraria di Maurice Leblanc ideata agli inizi ‘900. Protagonista di “Lupin” è un sempre bravo Omar Sy, nei panni del ladro Assane Diop, che esegue colpi sul tracciato delle opere di Leblanc. A firmare la serie è George Kay, una produzione Gaumont e Netflix.

La storia. Avevamo lasciato Assane Diop messo alle strette dalla polizia e dai tiri mancini di Pellegrini (Hervé Pierre), pronto a lasciare Parigi e star lontano dalla moglie Claire (Ludivine Sagnier) e dal figlio Raoul (Etan Simon). Muovendosi nell’ombra, con l’aiuto dell’amico Benjamin (Antoine Gouy), Assan ha come obiettivo rubare una rara perla nera. I rigurgiti della sua storia passata, i traumi subiti in infanzia, si ripresentano però puntualmente in campo cambiando le carte in tavola…

Lupin Season 3

La confezione formale di “Lupin” è sempre seducente: un giallo acuto e brillante che si snoda per le vie di Parigi, muovendo su più piani narrativi, tra il nostro presente e le vicende narrate da Maurice Leblanc. A ben vedere, l’impianto della serie, nella logica dell’attualizzazione dei romanzi, ricorda non poco il modello di “Sherlock” della Bbc (2010-17) serie firmata da Mark Gatiss e Steven Moffat che recuperava i racconti di Arthur Conan Doyle dedicati al celebre detective di Baker Street. Sempre secondo un’alternanza dei piani narrativi, il racconto si snoda tra le imprese di Assane Diop, che sigla ogni colpo con l’eleganza e il mistero enigmatico degno di un abile prestigiatore, e i flashback del passato che rendono la storia più densa, marcata di un realismo sociale.
L’andamento risulta scorrevole, di certo avvincente, seguendo uno schema di racconto abbastanza prevedibile, tipico del romanzo giallo: nella prima parte di ogni episodio, infatti, regnano suspense e spiazzamento, mentre nella seconda viene sciolto il dilemma chiarendo i “trucchi del mestiere”, le astuzie della truffa di Assan/Lupin. “Lupin. Parte 3” si conferma un prodotto di evasione, giocato tra il giallo-thriller poliziesco (sfrondato dalle tonalità più cupe) e inserti di umorismo brillante. La serie possiede notevole ritmo e fascino, anche se a lungo andare il tutto potrebbe rischiare di inciampare nella ripetitività e, dunque, perdere di mordente. Serie consigliabile, problematica, per dibattiti.



Cammino sinodale. Don Bignami: passare dal “fare” alla cura delle relazioni

Sab, 07/10/2023 - 09:30

Il Cammino sinodale sta fornendo alla Chiesa italiana l’opportunità di analisi approfondite e una nuova progettualità per stare al passo con il “cambiamento d’epoca” evocato da Papa Francesco. Ne parliamo, soprattutto per quanto riguarda il suo “settore”, con don Bruno Bignami, cremonese, da poco confermato direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro.

 La pastorale sociale e del lavoro è stata chiamata in causa in questa prima parte del Cammino sinodale? Quali le eventuali riflessioni emerse finora?
Tutte le pastorali si sono sentite interpellate dal Cammino sinodale, compresa quella sociale. Devo riconoscere che in molti l’hanno vissuta come una preziosa opportunità e non come un peso. Volentieri ci siamo messi in cammino. Nei diversi appuntamenti annuali abbiamo dedicato tempo ai Cantieri di Betania, per dare un contributo di pensiero e anche per non disperdere un patrimonio di riflessioni che si muovono all’interno del nostro mondo. Il Cammino sinodale ha fatto emergere la necessità di passare dal “fare” alla “cura delle relazioni”. Si sa quanto sia pastoralmente sterile la serie ripetitiva di attività che non disegna un senso e che non valorizza le persone. Perciò, avvertiamo l’urgenza di creare reti comunitarie. Può andare in soffitta il tempo in cui gli uffici diocesani lavoravano in autonomia senza sintonizzarsi tra loro e deve prendere piede lo stile di lavoro per progetti. Ogni volta che si avviano processi comunitari e si condivide una visione, la pastorale ne esce convertita. Diventa più decentrata. Al centro tornano le persone e non i sogni di grandezza di qualcuno. Altra esigenza molto sentita è il creare comunità territoriali con tutti i soggetti che hanno a cuore il bene comune. Le diocesi si aprono al dialogo ecumenico e interreligioso, e si mettono in relazione con tutti gli ambienti di vita che animano il tessuto sociale di un territorio. Quando si creano momenti di incontro con le amministrazioni, con le imprese e con gli enti del terzo settore, la qualità della vita sociale ne esce migliorata e accresciuta.

L’Ufficio Cei che lei guida ha assunto iniziative in questi due anni per portare i temi e le domande suscitate dal Sinodo all’attenzione della comunità cristiana, delle parrocchie, degli ambienti di vita e di lavoro, nelle associazioni e nei movimenti laicali?
Abbiamo preferito evitare il moltiplicarsi di impegni che sarebbero stati vissuti come una continua replica e un sovraccarico notevole. Così abbiamo utilizzato i momenti di incontro annuali già previsti nel calendario per portare l’attenzione di tutti al Cammino sinodale. Sono stati molto apprezzati i tavoli di gruppi sinodali, soprattutto dagli operatori che vivono la pastorale d’ambiente. Interessanti sono stati ad esempio i contributi del mondo dei marittimi, dei preti operai, dei cappellani ferroviari… Insomma, una grande occasione di dialogo e di ascolto. Molti partecipanti hanno rilevato la necessità di estendere questo metodo anche ai loro ambienti ecclesiali più prossimi, soprattutto associazioni, parrocchie e diocesi. Tutti si rendono conto che la Chiesa evangelizza se sa condividere e se si pone dove scorre il fiume della vita delle persone.

Quali novità o sottolineature le sembrano emergere da tali iniziative?
Uno dei temi più interessanti è stata la centratura sulla spiritualità. Non deve sorprendere se chi si occupa di problemi sociali, lavoro, economia, politica, giustizia, pace e cura del creato senta la necessità di dare un’anima al vissuto. La cosa non è marginale.

La formazione spirituale è il proprium della pastorale sociale.

È diffusa la convinzione che quando si parla di spiritualità si debba mettere in campo la preghiera o la liturgia come “cose da fare”, da aggiungere alla vita che in realtà va per la sua strada, fatta di impegni, di affanni, di affari, di compromessi, di sogni. La spiritualità in salsa postmoderna soffre di deriva estetica: coincide con il benessere psicofisico, con le meditazioni interiorizzanti, con l’adesione a un modello puramente cultuale. Invece, non possiamo mai dimenticare che la spiritualità cristiana o è incarnata o non è. San Paolo parla di “incorporazione” a Cristo, mettendo insieme il legame di fede con il corpo. Geniale intuizione. Nella spiritualità cristiana, perciò, la cura della giustizia scommette sul compimento dei legami umani.

Dai territori, in particolare dalle diocesi, sono giunti segnali di attenzione? Quale, a suo avviso, la mobilitazione “di base” attorno al Sinodo?
Dalle diocesi si è avvertita forte la necessità di mettersi in rete e di confrontarsi. Certo, non mancano ritardi e lentezze, ma la differenza la fanno le persone, come sempre. Quando qualcuno si mette in gioco e crea reti sociali, le cose sono destinate a cambiare in meglio nel giro di poco tempo. Il compito ecclesiale di formare le coscienze ha una vasta gamma di possibilità. Si esprime spezzando la Parola di Dio, condividendo occasioni di confronto sull’insegnamento sociale della Chiesa, entrando nei luoghi di lavoro e offrendo ai giovani il dono di un accompagnamento vocazionale. Il lavoro è molto di più della professione. La politica è molto di più dei risultati elettorali. L’economia è molto di più della produzione di beni. La persona fa la differenza.

Avete in cantiere nuove proposte per proseguire nel cammino sinodale in ambito sociale e lavorativo?
Siamo in cammino verso la 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia che si terrà dal 3 al 7 luglio 2024. La preparazione e i giorni che vivremo a Trieste saranno pensati come parte integrante del Cammino sinodale. Continuiamo ad ascoltare, ma senza dimenticare l’importanza di fare discernimento nella fase sapienziale. Sono due dimensioni fondamentali dell’azione sociale. Organizzeremo tavoli di discussione e di confronto per mostrare che al cuore della democrazia ci sono le gioie e le speranze delle persone, i loro problemi e le loro fatiche. Al centro, la vita.

Pio X pastore santo a cui guardare

Sab, 07/10/2023 - 09:25

“Accogliere per alcuni giorni le spoglie mortali del Papa San Pio X significa per la diocesi di Treviso guardare con gratitudine al proprio passato e con speranza al proprio futuro. Guardare ai tempi e ai luoghi che hanno dato i natali a un Papa santo ci riconsegna uno sguardo rinnovato rivolto alla nostra esperienza, ci mostra il panorama consueto delle nostre vite come capace di generare un’esistenza dedicata in modo eccezionale a Dio ed alla Chiesa e ci insegna che la santità non va cercata lontano, ma che essa può abitare tra le nostre case, sulle strade della nostra quotidianità”: con queste parole il vescovo di Treviso, mons. Michele Tomasi, si rivolge per un saluto ai pellegrini e ai fedeli tutti della nostra diocesi nella curata e ricca guida del pellegrino, che viene donata in questi giorni della “peregrinatio corporis” del santo Papa Pio X nella “sua” terra.
L’attenzione pastorale che fa da guida a tutte le iniziative e celebrazioni di questi giorni è ben ricordata dal vescovo Michele Tomasi in occasione dell’arrivo dell’urna con i resti mortali di Papa Sarto, che stanno sostando nella diocesi dal 6 al 15 ottobre, prima a Treviso e poi, in modo più prolungato, a Riese Pio X.

Un lungo processo. “Siamo giunti al termine di un processo lungo, iniziato due anni fa, con la prima proposta da parte della Fondazione Sarto – racconta -, poi il confronto con i Consigli diocesani, presbiterale e pastorale. Ricordo l’emozione quando è arrivata la lettera della Segreteria di Stato che mi comunicava l’accettazione della richiesta da parte di Papa Francesco. Poi lunghi contatti con il card. Mauro Gambetti, arciprete della basilica di San Pietro, dove il corpo di san Pio X è custodito, i numerosi controlli e verifiche sulla possibilità di muovere una reliquia tanto importante. Poi è partita una significativa macchina organizzativa, che nel frattempo è passata nelle mani del nuovo vicario generale, con un bel numero di collaboratori. Fin da subito, però, abbiamo voluto mettere in evidenza che non avremmo fatto dell’archeologia, ma che questo momento importante per la vita della nostra diocesi doveva avere una dimensione specificamente pastorale”.

Le parole guida. Proprio le parole chiave della pastoralità, della santità e della missionarietà hanno fatto da guida a tutte le iniziative proposte dalla diocesi e rese possibili dal coinvolgimento di molti uffici e servizi di Curia. Le nostre comunità sono chiamate a una conversione missionaria, come ci invita a fare anche il cammino sinodale che stiamo vivendo, sia come Chiesa diocesana che come Chiesa universale, e questo momento forte può aiutare la diocesi, sottolinea il vescovo, a una “riflessione su se stessa guardando a questo suo grande figlio, la cui opera riformatrice, a molti livelli, testimonia di una Chiesa che, per essere fedele al suo mandato di sempre di annunciare il Vangelo a tutte le genti deve continuamente rinnovare i modi e le espressioni della sua testimonianza, affinché possa essere all’altezza dei tempi e delle loro sfide, affinché possiamo essere testimoni credibili oggi, in questo nostro tempo”.

Le sfide di ieri e di oggi. Sfide che Papa Sarto ha affrontato, nel suo tempo, anche con scelte controverse, come l’opposizione al modernismo, ma che “erano dettate dall’esigenza di fondo di papa Sarto di mantenere lo specifico dell’annuncio del Vangelo nel mondo moderno: una questione che rimane anche ora, certo in termini differenti. Il rapporto tra Chiesa e resto del mondo non è declinato in quei termini oggi: abbiamo avuto una dichiarazione sulla libertà religiosa, una dichiarazione sulla libertà di coscienza, che segnano il tempo e dettano un nuovo modo di stare della Chiesa nel mondo, ma sempre con la stessa finalità. Lo stesso Papa Francesco, che in questi giorni ha pubblicato la sua esortazione apostolica sul cambiamento climatico – Laudate Deum -, un appello a impegnarsi seriamente sulla questione climatica, fa delle critiche al mondo moderno, con un altro stile, un’altra modalità, ma partendo anche lui dal Vangelo e richiamando a una conversione”.
Il rapporto tra la Chiesa e la modernità, aggiunge mons. Tomasi, “è sempre di dialogo, a volte di scontro, a volte di collaborazione, ma è la vita di una istituzione che vorrebbe essere fedele al suo Signore nel tempo che le è dato”.

Opportunità spirituale e pastorale. A cominciare dai momenti dell’accoglienza a Treviso, la preghiera con i Consigli e poi la messa di sabato 7 in cattedrale, il mandato ad oltre 700 catechisti diocesani, fino ai momenti di preghiera e ai pellegrinaggi a Riese, dove san Pio X sarà accolto nel santuario delle Cendrole, siamo tutti invitati a fare tesoro di questa opportunità.
“Guardare agli inizi e ai primi momenti dell’esistenza di san Pio X ci aiuterà a scoprire che ogni realtà ha la sua origine in Dio, nel suo infinito amore per ogni persona, per ogni creatura – continua il vescovo -. Questa tappa del cammino della nostra diocesi ci aprirà anche a pensieri, sentimenti e azioni mossi dalla speranza, dono di Dio. Ci ricorderà, infatti, che il Crocifisso Risorto agisce nella storia e continua a suscitare il desiderio di conoscerlo e di amarlo, di vivere secondo la Parola del suo Vangelo e di essere, con Lui e insieme tra noi, discepoli missionari, costruttori di pace e di bene per tutti. Cogliamo, insieme, in questo momento di grazia, l’invito a lasciarci trasformare e nutrire dall’amore di Dio, per amare a nostra volta Lui al di sopra di tutto, e i fratelli e le sorelle tutti come noi stessi”.

(precedentemente pubblicato su “La vita del popolo”)

1978, l’anno dei tre Papi: quel passaggio di consegne che è rimasto nella storia

Sab, 07/10/2023 - 09:16

1978 è l’anno del rapimento di Aldo Moro, che inaugura la fase più dura degli anni di piombo. Al Quirinale, il 9 luglio, sale il socialista Sandro Pertini, settimo presidente della Repubblica. E la Chiesa vive un evento straordinario, in tre mesi, tre papi si alternano sul soglio di Pietro: Montini, Luciani, Wojtyla.

La prima data è il 6 agosto. Quel giorno di 45 anni fa, nella festa della Trasfigurazione – “la giornata tramonta, tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena” – Paolo VI muore a Castelgandolfo. Sostituto alla Segreteria di Stato e poi pro segretario di Stato di Pio XII, Giovanni Battista Montini non era molto amato nei sacri palazzi e quanti si ritenevano fossero suoi amici con ostilità spesso venivano indicati semplicemente con il termine “montiniani”. Il primo novembre è nominato arcivescovo di Milano, ma non riceve la porpora per non far ombra, si disse, all’altro uomo forte della Curia, Tardini. Sarà Papa Giovanni XXIII appena eletto a crearlo cardinale, il 15 dicembre del 1958. Nel Conclave del 1963 l’arcivescovo dei lavoratori, come lo chiamavano nella diocesi ambrosiana, prevale sugli altri papabili. Per Papa Paolo VI la Chiesa “non è una società di assicurazione contro i mali della vita presente, anzi, è una società dove le sofferenze umane trovano un’accoglienza preferenziale”. Eletto a Concilio appena iniziato, Montini, chiamato dai suoi detrattori “Paolo mesto” e “Papa amletico”, resterà sempre uomo scomodo e non proprio gradito dalla curia. Nel gennaio del 1964 il primo viaggio pastorale di un Pontefice: la Terra Santa. Ai cardinali e vescovi in San Pietro dirà: “Vedremo quella terra veneranda di dove Pietro è partito e nella quale nessun suo successore è mai tornato”. Confuso e stretto dalla folla sulla Via Dolorosa, per l’inviato del Times di Londra Paolo VI “sembra un’isola di tranquillità in un mare in tempesta”. A Gerusalemme l’abbraccio con Atenagora, il primo incontro tra le Chiese cattolica e ortodossa: Pietro e Andrea si ritrovano insieme per recitare il Pater noster. Nei suoi nove viaggi internazionali sarà nell’India di Madre Teresa, all’Onu con il suo grido contro la guerra. L’8 dicembre 1965 si chiude il Concilio, messa sul sagrato della basilica vaticana – “la Chiesa in uscita” cara a Francesco – consegnando sette messaggi, ai governanti, agli intellettuali, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri e ammalati, ai giovani. Nemmeno due anni dopo consegna al mondo la Populorum progressio: lo sviluppo è il nuovo nome della pace. Per Papa Montini le “disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell’esercizio del potere”, sono uno scandalo. La povertà ci chiama in causa: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza”. Se la Populorum progressio segna l’apice della popolarità di Montini, l’Humanae vitae, non capita e male spiegata, con la chiusura a ogni tipo di contraccezione, suscita grandi critiche e contestazioni. Gli ultimi giorni della vita sono scanditi dal rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’amico della Fuci. Montini scriverà agli uomini delle Brigate rosse e metterà a disposizione dei soldi per la liberazione del presidente della Dc. Al telefono, in attesa di un contatto che non avverrà, ci sarà un sacerdote: padre Carlo Cremona. In san Giovanni alla messa per Moro, il suo è il grido di un profeta dell’Antico Testamento quasi rimprovero a Dio, per dare eco al “pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce”.

Sono bastati quattro scrutini, il 26 agosto – ecco la seconda data – per eleggere Papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, il primo Papa nato nel XX secolo. Curiosità, è il primo Conclave dal 1721 al quale partecipano tre futuri Pontefici: Luciani, Wojtyla, Ratzinger. In quei 33 giorni di pontificato, “il tempo di un sorriso” titolerà il quotidiano parigino Le Monde, oltre alla fede semplice e profonda di Albino Luciani, la sua fedeltà alla Parola di Dio e al magistero della Chiesa, emerge anche la sua attenzione ai problemi sociali. Sceglie di chiamarsi Giovanni Paolo, i nomi dei suoi predecessori Roncalli e Montini, e ai cardinali che lo hanno eletto dirà: “Dio vi perdoni per quello che avete fatto”. È il Papa che definisce Dio padre e madre, che invita il giovane chierichetto maltese, James, a dialogare con lui durante l’udienza generale e per parlare della fede recita la poesia di Trilussa della vecchina cieca. Commenterà: “Come poesia graziosa, come teologia difettosa”. Muore nella notte del 28 settembre per una crisi cardiaca: la sera a cena aveva accusato dolori al petto e al braccio sinistro e i suoi due segretari, mons. Magee e don Lorenzi, proposero di chiamare il medico: “È tardi, lo chiameremo domani”, disse Luciani. La mattina sarà suor Vincenza Taffarel a trovarlo morto nel letto. Una fine non accettata da molti tanto che subito si parla di mistero, di morte per avvelenamento da cianuro, ucciso perché troppo aperto e innovatore nella sua umanità e semplicità con la quale ha conquistato il mondo.

Il 16 ottobre viene eletto il primo Papa polacco, Karol Wojtyla: il suo pontificato durerà 26 anni, 5 mesi e 17 giorni. Come dire, almeno 8 legislature italiane, cinque presidenti degli Stati Uniti. Ha solo 58 anni, viene da Cracovia, figlio di quella Chiesa del Silenzio che sopravvive alla periferia dell’Impero sovietico. Primo non italiano eletto dopo 455 anni, Giovanni Paolo II ha attraversato la storia del ventesimo secolo lasciando una profonda eredità spirituale e politica. È stato testimone e artefice della caduta dei regimi dell’Est. Nell’omelia d’inizio pontificato dirà: non abbiate paura, aprite, spalancate le porte a Cristo; aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici. In piena Guerra fredda, sembrano parole fuori dal mondo. Ai giornalisti confesserà che nemmeno lui sapeva dove lo avrebbero portato quelle parole. È il primo Papa a varcare la Cortina di ferro, giugno 1979, viaggio nella Polonia sotto l’influenza di Mosca. Il 13 maggio 1981 l’attentato in piazza San Pietro, tre giorni fra la vita e la morte. Dirà: “Una mano materna ha deviato il proiettile”. È il Papa della profezia di Fatima, che verrà svelata nel santuario portoghese nel 2000, presente suor Lucia dos Santos, l’unica testimone delle apparizioni del 1917. Il 27 dicembre 1983 nel carcere di Rebibbia Wojtyla abbraccerà il suo attentatore Ali Agca. Al Gemelli sale il presidente Pertini, è l’inizio di un’amicizia che durerà negli anni. Quando il capo dello Stato verrà ricoverato al Policlinico Umberto primo, il Papa sarà in preghiera davanti alla porta della stanza. Wojtyla è chiamato il nuovo Mosè, il globe trotter di Dio, per i suoi numerosi viaggi, 104 quelli internazionali, cinquanta in più in Italia. Ha compiuto gesti che sono passati alla storia: la visita alla sinagoga di Roma, 13 aprile 1986, l’abbraccio con il rabbino Toaff, un viaggio di pochi chilometri per i quali sono occorsi duemila anni. Sei mesi più tardi chiama ad Assisi i leader di tutte le religioni, insieme per pregare per la pace. Ancora, Berlino, non più divisa dal muro, e quel passare sotto la porta di Brandeburgo da ovest verso est, giugno 1996, per dire che la libertà non è un lasciapassare. All’inizio della Quaresima del 2000 in San Pietro vuole la giornata del perdono. Sette “mea culpa” per le violenze, discriminazioni, e colpe commesse dalla chiesa nei secoli. È il Papa che chiede con forza la pace andando a Sarajevo, a Beirut ancora ferite dal conflitto. Che dice mai più la guerra prima dell’attacco americano in Iraq. Inventa le Giornate della gioventù: i giovani, dice, “sono il futuro del mondo, la speranza della Chiesa, la mia speranza”. Giovani che la sera del 2 aprile 2005, alla sua morte, saranno in preghiera in piazza San Pietro.

 

(Precedentemente pubblicato su “Toscana Oggi”)

Reati su minori. Terre des Hommes: “Nuovo record in Italia, 6.857 nel 2022, +10% in un anno. Aumentano i crimini sessuali”

Ven, 06/10/2023 - 11:35

Ennesimo record di reati a danno di minori in Italia nel 2022: sono stati 6.857, con un drastico aumento del 10% dal 2021, quando il dato aveva superato per la prima volta quota 6mila. Il peggioramento maggiore riguarda le violenze sessuali, cresciute del 27% in un anno: da 714 nel 2021 sono passate a 906 lo scorso anno, per l’89% ai danni di bambine e ragazze. I dati, elaborati dal Servizio Analisi criminale della Direzione centrale Polizia c riminale, sono stati resi noti dalla Fondazione Terre des Hommes nel Dossier indifesa “La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo” 2023, in occasione della Giornata mondiale delle bambine (11 ottobre). Il documento è stato presentato venerdì 6 ottobre a Roma, al MAXXI Museo delle Arti del XXI Secolo, alla presenza di Stefano Delfini, direttore del Servizio Analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza; Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza; Oleksandra Romantsova, direttrice esecutiva del Centro per le libertà civili di Kiev, premio Nobel per la pace 2022; Donatella Vergari, presidente di Terre des Hommes Italia.

I reati su minori continuano ad aumentare e segnare nuovi record:

“Se nel 2021 era stata superata per la prima volta quota 6mila casi, nel 2022 il balzo è così grande da spingere il numero verso i 7mila (6.857)”.

A confermare la tendenza di crescita è il dato su 10 anni: “Dal 2012 (5.103 reati) al 2022 i crimini a danni di minori sono aumentati del 34%”. Nel corso degli anni, precisa il Dossier, “la grande prevalenza di bambine e ragazze tra le vittime non solo è confermata ma anch’essa aumentata, in particolare nei reati a sfondo sessuale”: “Sono state l’89% (sul totale di 906 casi) tra le vittime di violenza sessuale nel 2022, erano l’87% l’anno precedente (su 714) e l’85% (su 689) nel 2012, mentre nel 2022 sono state il 65% (su 37) le bambine vittime di prostituzione minorile mentre erano state il 60% (su 77) nel 2012”. La prevalenza di vittime di sesso femminile persiste anche in altre fattispecie di reato, “come maltrattamento di familiari e conviventi minori (53%), detenzione di materiale pornografico (71%), pornografia minorile (70%), atti sessuali con minorenne (79%), corruzione di minorenne (76%), violenza sessuale aggravata (86%)”. Lo squilibrio a danno del genere femminile in varie fattispecie di reato, in particolare in quelli considerati “spia” delle violenze di genere, è confermato anche sulla popolazione presa nel suo complesso: nei dati dello stesso Servizio Analisi criminale, “le ragazze e donne sono oltre l’82% delle vittime di maltrattamenti contro familiari e conviventi, oltre il 92% di violenze sessuali”.

Nei confronti di minori, “aumentano su base annuale i reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare (551 casi nel 2022, +10% dal 2021), abuso dei mezzi di correzione o disciplina (345 casi, +17%), maltrattamenti contro familiari e conviventi (2.691 casi, +8%), sottrazione di persone incapaci (290 casi, +8%), abbandono di persone minori o incapaci (550 casi, +13%), detenzione di materiale pornografico (72 casi, +9%), atti sessuali con minorenne (430 casi, +4%), violenza sessuale aggravata (697 casi, +13%)”. Calano, invece, alcune fattispecie di reato: “L’omicidio volontario consumato in un anno diminuisce del 37% (da 19 casi del 2021 a 12 casi del 2022) e nel confronto su base decennale si registra un -33%. In discesa anche la prostituzione minorile con -14% (da 43 a 37 casi), mentre il dato è sceso del 52% dal 2012. La pornografia minorile è diminuita del 10% (da 187 a 169), ma dal 2012 al 2022 è aumentata del 56%. Un calo si registra anche per la corruzione di minore, -21% in un anno (da 136 a 107 casi) e -20% dal 2012 nonostante si tratti di un reato legato alla sfera dei reati a sfondo sessuale, che, invece, sono in crescita”.

“I dati relativi al 2022 sono elevati; alla preoccupazione per la crescita tendenziale degli indicatori, abbastanza costante negli ultimi anni, va aggiunto l’allarme per le possibili e gravi conseguenze che derivano da tale forma di violenza;

le giovanissime vittime rischiano di diventare adulti che porteranno per sempre nella loro anima orribili e, spesso, invisibili cicatrici”,

ha dichiarato, nel rapporto di Terre des Hommes, Stefano Delfini, direttore del Servizio Analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. “Per affrontare questo fenomeno è necessario un esame accurato e un approccio complessivo, che prendano le mosse da un’effettiva conoscenza del fenomeno, nelle sue dimensioni e nelle sue tendenze evolutive. In particolare, è fondamentale riservare la massima attenzione alle violenze e agli abusi sui minori online non solo nella prevenzione e nel contrasto, ma anche nell’attività di supporto alle vittime e nella predisposizione di campagne informative mirate a rimuovere quegli ostacoli socioculturali per debellare il fenomeno nel prossimo futuro”, ha aggiunto.

“Alla luce del nuovo, tristissimo, record nei dati e degli aumenti di violenza sessuale e sessuale aggravata, vicende come lo stupro di Palermo appaiono come una cartina di tornasole della cultura patriarcale, maschilista, prevaricatrice e violenta che riduce il corpo di una donna a un ‘pezzo di carne’, in violenze nate per essere mostrate e che sembrano volere imprimere il sigillo del potere maschile, individuale e di gruppo”, ha affermato Paolo Ferrara, direttore generale di Terre des Hommes. “Se vogliamo invertire la rotta – ha osservato -, dobbiamo costruire una risposta organica, sistemica, diffusa che affronti di petto questa situazione inaccettabile. Qualcosa in termini legislativi si è fatto, con l’introduzione del Codice Rosso, ma manca un piano di intervento di lungo periodo sulla parità di genere a scuola. Manca la volontà di introdurre, finalmente, materie come l’educazione sessuale e all’affettività, all’uso ‘etico’ dei media digitali. E

i ragazzi dovranno mettersi in gioco più di tutti: se la violenza di genere riguarda tutti e tutte, il violento è sempre o quasi sempre maschio”.

Oltre ai dati relativi al nostro Paese, il Dossier offre uno sguardo più ampio sulla condizione delle bambine e delle ragazze in tutto il mondo, facendo emergere dati allarmanti in molti ambiti. Le mutilazioni genitali continuano ad aumentare nel mondo, mentre questa violenza che sottrae il futuro alle bambine riguarda anche l’Europa. I dati mostrano anche il dramma dei matrimoni precoci e forzati, delle gravidanze precoci e della loro forte relazione con lo stupro per le vittime più giovani, delle violenze sessuali, del mancato diritto all’istruzione. Tra i Paesi del mondo raccontati dal dossier, l’Afghanistan “dei” talebani, l’Iran e le lotte delle donne per i loro diritti, il Sudan e l’Ucraina in guerra.

Dall’11 ottobre partirà anche la nuova campagna di comunicazione e raccolta fondi di Terre des Hommes che con l’hashtag #MettitiNeiSuoiPanni invita tutti e tutte a mettersi nei panni delle bambine e ragazze che subiscono violenza, per superare discriminazioni di genere, facili giudizi e stereotipi che alimentano la cultura dello stupro e ostacolano il pieno godimento dei diritti e della libertà per bambine e ragazze. La campagna #MettitiNeiSuoiPanni è stata ideata e realizzata da Acne – A Deloitte business.

Laudate Deum, il Papa chiede la creazione di una nuova diplomazia e un multilateralismo dal basso

Ven, 06/10/2023 - 11:15

L’esortazione apostolica di Papa Francesco riguarda la crisi climatica, ma al suo interno c’è molto di più. All’inizio ci accoglie “la sensibilità di Gesù verso le creature” (LD1) e subito si evidenzia il contrasto con l’indifferenza e l’inazione dell’uomo di fronte a un mondo che si sta sgretolando avvicinandosi pericolosamente a un punto di non ritorno.

Dopo 28 anni di Cop, anni nei quali la scienza del clima, le energie pulite e rinnovabili, l’efficienza dei processi industriali hanno fatto progressi inimmaginabili, siamo ancora senza decisioni concrete. I politici non hanno più alibi per ritardare la transizione ecologica eppure, anche di fronte agli enormi danni umani ed economici che ormai il clima sta causando, continuano a difendere l’esistente per l’interesse di settori industriali con un grande potere economico di cui la politica ha oggi bisogno. Citando i vescovi americani il Papa parla di un “esempio scioccante di peccato strutturale” (LD3).

Durissimo è l’attacco ai negazionisti che usando argomentazioni ascientifiche creano confusione.

Alcuni fenomeni sono già oggi irreversibili ed innescano una accelerazione del riscaldamento globale, come lo scioglimento dei ghiacciai e del permafrost; e ancora l’acidificazione e il riscaldamento degli oceani che sta creando danni enormi alla biologia marina da cui dipende il sostentamento di quasi il 50% della popolazione mondiale. I poveri subiscono le maggiori conseguenze dei cambiamenti climatici causati in massima parte dai Paesi ricchi. Nord America ed Europa, con il 12,5% della popolazione mondiale, sono responsabili del 49% delle emissioni mondiali di gas serra.

Papa Francesco alla radice del problema pone il “paradigma tecnocratico”, orientato alla crescita dei profitti, che spinto dalla tecnologia ha diffuso l’illusione di una crescita illimitata. L’uomo, così estraniato dall’ambiente, non si fa scrupolo di danneggiarlo per i propri fini. Ma il grande potere offerto dalla tecnologia, se indirizzato solo al profitto piuttosto che al benessere, può condurre l’umanità alla rovina. La sua decadenza etica è evidente nel marketing della “falsa informazione”, attraverso la quale si presentano progetti nocivi per l’ambiente come strumento di progresso e sviluppo. “Basti pensare all’effimero entusiasmo per il denaro ricevuto in cambio del deposito di scorie tossiche”. (LD30).

La via indicata dal Papa è la creazione di una nuova diplomazia e di nuovi meccanismi di democratizzazione degli organismi internazionali,

che promuovano nuove modalità di dialogo e confronto par la risoluzione dei conflitti e la difesa dei diritti umani. Inoltre, organismi della società civile possono

creare un multilateralismo dal basso (LD38).

Infine, l’esortazione al popolo di Dio: “Se l’universo si sviluppa in Dio, che lo riempie tutto, quindi, c’è un mistero da contemplare in una foglia, in un sentiero, nella rugiada, nel volto di un povero. Il mondo canta un Amore infinito, come non averne cura?”.

* Direttore scientifico di Greenaccord

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