Abbonamento a feed RSS Agensir
Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 4 mesi 1 settimana fa

Nel kibbutz della strage. Nadav: “I miei genitori sono stati rapiti, hanno sempre creduto e si sono impegnati per la pace”

Ven, 13/10/2023 - 09:48

“Mi chiamo Nadav Kipnis e i miei genitori, Eviatar e Lilach, sabato mattina sono stati rapiti da Hamas nel kibbutz di Be’eri. Sia loro che io e mio fratello siamo tutti di nazionalità israeliana e italiana. Siamo cittadini italiani. Sono stati rapiti anche altri membri della mia famiglia: mio zio e mia zia da parte materna e la loro figlia, mia cugina, suo marito e i loro due figli, di tre e otto anni. E anche la sorella di mio zio e sua figlia, che ha 12 anni”. Nadav parla lentamente ma con voce chiara, “sono ancora molto provato” dice al telefono, “questo non è un momento facile ma sono sicuro che capirete le parole che mi escono dal cuore”. Al Sir cerca di raccontare quella tragica mattina di sabato 7 ottobre, quando i terroristi di Hamas hanno presso d’assalto molti kibbutz vicini il confine con la Striscia di Gaza.

Kibbutz di Beeri. La freccia rossa indica la casa dei genitori di Nadav Kipnis (Foto Nadav Kipnis)

Tra questi quello di Be’eri, poco più di 1000 abitanti, diventato teatro di un massacro che ha lasciato a terra oltre cento corpi trucidati. “I miei genitori – racconta Nadav – vivono nel Kibbutz Be’eri, mia madre è nata lì. È un’assistente sociale mentre mio padre da nove anni lotta contro una malattia autoimmune. È un artista e una persona straordinaria che purtroppo in questi ultimi anni non ha lavorato, si è dedicato alla sua salute. Sono legato all’Italia attraverso mia nonna paterna, nata in Italia. La famiglia di mia nonna era di Livorno e si è poi trasferita in Tunisia, e da lì in Israele”.

Cosa è accaduto sabato mattina, 7 ottobre? Può ricostruire i fatti?
Sabato scorso i terroristi hanno attaccato molti kibbutz, in particolare il kibbutz Be’eri. Io non ero lì quella mattina. Abbiamo cercato di contattare i miei genitori per sapere cosa stesse succedendo. Eravamo certi che si trovavano nella “safe room” (stanza di sicurezza rinforzata, ndt) della loro casa, uno spazio sicuro che offre protezione dagli attacchi missilistici. L’ultimo contatto che abbiamo avuto con loro è stato con mio padre. Come accennato, a causa della sua malattia mio padre ha un badante che lo aiuta. Questa persona ha chiamato sua moglie la quale ha sentito che Hamas, i terroristi, stavano cercando di aprire la porta e questa è stata l’ultima volta che abbiamo avuto un contatto con loro. Successivamente siamo venuti a conoscenza delle atrocità che si sono verificate all’interno del kibbutz. Nello specifico, abbiamo un’applicazione che ci consente di comunicare senza bisogno di WhatsApp.

E cosa dicevano i messaggi che arrivavano tramite questa applicazione?
La gente diceva che le loro case erano state bruciate, che vedevano persone sparare e altre che venivano rapite, chiedevano aiuto e altro ancora. Nello stesso momento, i terroristi hanno caricato un video della zona dove vivono i miei genitori, in cui si vedono persone che vengono trascinate via. Pensiamo che i miei genitori e gli altri abbiano subito la stessa sorte. Oltre a questo, abbiamo tentato di localizzare i loro telefoni cellulari e abbiamo visto che il telefono di mia madre non era a Be’eri. Qualcuno ha chiamato alcune persone dal telefono di mio padre e ha cancellato molti gruppi WhatsApp. Per quanto riguarda mio zio, abbiamo provato a fare il suo numero e qualcuno ci ha risposto dicendo con accento arabo: ‘Rapimento di Gilad Shalit’ (il militare israeliano catturato da Hamas nel 2006 e ‘scambiato’ nel 2011 con più di 1000 palestinesi detenuti nelle carceri di Israele, ndr.).

Nadav (primo a dx) con i genitori e il fratello (Foto Nadav Kipnis)

Alla luce di queste informazioni, abbiamo immediatamente ipotizzato che fossero stati rapiti. A tutt’oggi, infatti, non è giunta alcuna notizia che i nostri parenti siano tra i 108 morti ritrovati nel kibbutz. L’ultima cosa che sappiamo con certezza è che

alcuni testimoni, sopravvissuti all’attacco, hanno riferito che il marito di mia cugina è stato visto mentre veniva legato con delle corde e portato via, quindi presumiamo che siano stati tutti rapiti. Inoltre, sappiamo che le case sono state bruciate e sono vuote, non c’erano cadaveri al loro interno.

Conosci le altre persone rapite nel Kibbutz?
Il Kibbutz è una comunità molto piccola, Be’eri è considerato il più grande della zona, siamo circa mille persone che si conoscono tutte. Io ho vissuto lì fin da piccolo, quindi conosco tutti i volti delle persone rapite. In particolare, nella mia famiglia ne sono state rapite 11.

Vivendo al confine con Gaza, in una zona sotto costante attacco dei razzi di Hamas, ha mai avuto il presentimento che potesse accadere qualcosa di così grave? Si aspettava un atto terroristico di questa portata?
Quando sabato siamo stati svegliati dal suono delle sirene a Beersheva, pensavamo che fosse un ‘fatto normale’, ovvero che fossimo attaccati dai razzi, e abbiamo pensato – e so che suona paradossale -: ‘ Va tutto bene’. Ho scritto ai miei genitori che non era niente di grave e non abbiamo guardato i telegiornali. Quando abbiamo iniziato a renderci conto di quanto stava accadendo dai messaggi e dalle chat, non potevamo crederci. Penso che nessuna persona di buona coscienza possa aspettarsi azioni di tale atrocità. Terroristi che uccidono bambini davanti ai loro genitori e che uccidono genitori davanti ai loro bambini.

L’ultima volta che questo è accaduto nella storia dell’umanità che la mia nazione ricordi è stato durante l’Olocausto.

Nessuno può mai immaginare una cosa del genere, nemmeno nei suoi peggiori incubi. Sapere che dei bambini che una volta erano nella mia casa, che giocavano insieme a me, ora sono morti… Non trovo le parole per descrivere quello che provo.

In Israele in questi giorni si parla molto di una “falla” nel sistema di sicurezza: come è potuto accadere?
Non sono un politico, mi fido del mio governo. So che in questo momento il tema della sicurezza è prioritario, tutti sono stati colti di sorpresa. Credo che questa situazione sia molto simile a quella dell’11 settembre negli Usa, quando nessuno si aspettava un attentato e molte persone sono state uccise dai terroristi; credo che il governo farà tutto ciò che è in suo potere per garantire la nostra sicurezza e liberare gli ostaggi. Credo che questa sia la cosa migliore da fare.

Cosa sta facendo il Governo di Israele per salvare le vite dei suoi parenti e di tutti i rapiti che sono anche di nazionalità straniere?
In questo momento il mio Paese è in guerra. Non c’è modo di avviare un colloquio con Hamas, Hamas non vuole parlare con noi. È per questo motivo che ci stiamo rivolgendo al Governo italiano, visto che siamo cittadini italiani, e alla Chiesa cattolica a Roma. Perché voi avete influenza. Voi potete parlare con Hamas, potete parlare con organizzazioni che hanno una coscienza morale e che possono aiutare i miei genitori, mio padre che è malato, e cercare di portarli via sani e salvi. Non abbiamo alcun potere, ma vogliamo che conosciate la nostra vicenda, in modo che possiate essere consapevoli della disabilità di mio padre, che possiate convincere le cariche istituzionali ad aiutarci a salvare persone innocenti che vengono rapite per motivi ingiustificati.

Quale potrebbe essere, a suo avviso, il modo migliore per riportare a casa sani e salvi tutti gli ostaggi?
Non lo so. Non sono un esperto di negoziati o cose del genere. Posso solo dire che, oltre a garantire la sicurezza delle persone, la priorità assoluta è quella di riportare a casa tutti gli ostaggi sani e salvi. Io non so come riuscirci. Tuttavia, la cosa migliore da fare in questo momento è assicurarsi che non subiscano maltrattamenti e che tornino a casa sani e salvi, perché non abbiamo idea di cosa stia loro succedendo. Non sappiamo se sono vivi, non sappiamo come li trattano. Ma abbiamo visto cosa hanno fatto questi terroristi nelle case, uccidendo e violentando le donne…

Non riesco nemmeno a immaginare e non voglio immaginare cosa stia succedendo agli ostaggi. La mia unica speranza è che i membri della Chiesa cattolica, con cui condividiamo valori etici e morali, che desiderano aiutarci, possano convincere le persone ad avere un po’ di buon senso, a trattare bene queste persone e a rimandarle a casa.

Lei è anche cittadino italiano: ha fiducia nello Stato italiano in questo momento? Il ministro Tajani ha detto che per l’Italia il rilascio dei nostri connazionali in mano ad Hamas è una “priorità assoluta”.
Una cosa che in questo momento difficile mi ha dato un po’ di speranza e un po’ di stabilità è stato il Governo italiano. Mi hanno chiamato dall’ambasciata un giorno dopo l’inizio dell’atrocità, per essere informati sulla mia incolumità e quella della mia famiglia. E proprio ieri mattina (11 ottobre, ndr), Tajani in persona mi ha chiamato dall’Egitto per dirmi che sta facendo del suo meglio per garantire la sicurezza dei suoi cittadini e della mia famiglia. Questo mi fa davvero sperare che l’Italia stia facendo il possibile, e che stia operando con senso morale, stando dalla parte giusta per aiutare, e per gestire questa situazione.

Credo che anche la Chiesa cattolica stia facendo del suo meglio. Gli ebrei e i cristiani condividono lo stesso Libro.

Possiamo avere alcune differenze di credo, ma abbiamo gli stessi valori morali e crediamo nella sacralità della vita e dell’umanità. E sappiamo che la parte avversa, Hamas, con le sue azioni efferate dimostra di non avere gli stessi valori. Spero davvero che qualcuno possa aiutare e fare pressione affinché la sicurezza, la verità, la moralità e la salvezza degli ostaggi siano garantiti.

Israele si sta preparando a un’offensiva terrestre dentro Gaza. La ritiene un rischio per gli ostaggi?
Certamente temo per la loro sicurezza perché, come detto prima, non possiamo confidare nel fatto che Hamas agisca con clemenza. Al momento i miei parenti sono nelle mani di persone che festeggiano la morte, trascinando i corpi senza vita nelle strade, sputandoci sopra e esultando di fronte alla morte, quindi ho molta paura per la loro incolumità. Non so davvero cosa rispondere ma confido che Israele farà la cosa giusta. L’ultima volta che abbiamo assistito a tanta violenza è stato con l’Isis e in quell’occasione il mondo ha unito le forze per distruggere questa organizzazione. C’è voluto molto tempo ma alla fine il bene ha prevalso. A mio avviso, anche l’Europa dovrebbe intraprendere la stessa azione nei confronti di questi assassini. Abbiamo visto che in un altro kibbutz vicino a Be’eri sono state trovate bandiere dell’Isis sul corpo di un terrorista di Hamas. Quindi sappiamo che esiste un collegamento. Sono gli stessi individui nati dallo stesso organismo.

Colpendo i kibbutz i terroristi hanno voluto colpire dei simboli della storia di Israele. Un attacco dal duplice, tragico, significato…
Sono d’accordo con lei. Ma penso che a prescindere dall’obiettivo dei terroristi, la tragedia sarebbe stata la stessa. Io rappresento solo la mia famiglia e il luogo in cui sono cresciuto. Certamente i kibbutz sono una parte molto importante della nostra storia e le persone che li abitano vengono da tutto il mondo. Per quanto riguarda i miei genitori, posso dire che sono persone pacifiche. Mia madre ha lavorato per la pace con altri cittadini palestinesi, non con i terroristi di Hamas. C’è differenza rispetto agli altri arabi che vogliono la pace.

Genitori di Nadav Kipnis (Foto Nadav Kipnis)

Anche mio padre, che ha imparato l’arabo, credeva nella pace e si è impegnato attivamente per promuoverla. Abbiamo vissuto in pace nella nostra comunità, credendo in questi valori e non abbiamo mai pensato che una cosa del genere potesse accadere. Credo che questa sia una duplice tragedia, il fatto che una cosa così terribile sia accaduta a persone così pacifiche.

Crede ancora possibile la convivenza tra israeliani e palestinesi e nella fine di questo lungo conflitto?
Hamas non mostra di poter far parte di questo sogno. Ora, però, è il momento di concentrarci sugli attacchi e su come porre fine al conflitto in cui ci troviamo e salvare la popolazione. Io desidero la pace.

I miei genitori credono nella pace e mi hanno trasmesso questo insegnamento; sono fiducioso e spero che un giorno possa accadere.

Ma adesso dobbiamo porre fine alle atrocità che stanno accadendo e condannare coloro che le hanno commesse senza alcuna compassione per le loro azioni.

Minori. Garlatti: “La giustizia riparativa non è uno sconto di pena, anzi responsabilizza”

Gio, 12/10/2023 - 14:10

“La giustizia riparativa funziona”.

Ne è convinta l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti. A dimostrarlo sono le testimonianze raccolte nell’indagine nazionale che l’Autorità (Agia) ha condotto in collaborazione con il Ministero della giustizia e l’Istituto degli innocenti e che è stata presentata giovedì 12 ottobre a Roma, nella sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio. Hanno illustrato il percorso di ricerca Benedetta Bertolini e Graziana Corica dell’Istituto degli innocenti.

(Foto: Agia)

“La giustizia riparativa produce effetti positivi – sia rispetto alla considerazione che si ha di sé sia in termini di relazione con l’altro e con la giustizia – nella vittima, in chi viola la legge, nelle famiglie coinvolte e nella comunità”, spiega l’Autorità garante. “Da un lato, attraverso l’incontro con l’altro, il ragazzo che sbaglia prende consapevolezza dell’errore commesso e questo contribuisce a evitare che lo ripeta in futuro. Dall’altro, la vittima che sceglie di partecipare trova finalmente un suo spazio, si sente ascoltata e compresa e questo può aiutare il suo percorso di recupero. In termini più generali, poi, si favorisce la ricostruzione della coesione sociale e si contribuisce ad aumentare il senso di sicurezza nella comunità”. “Come ho già avuto modo dire, la giustizia riparativa deve essere la risposta prioritaria da dare ai ragazzi quando sbagliano, anche in maniera grave”, prosegue Garlatti. “Va chiarito che non è previsto uno sconto di pena, ma si tratta di uno strumento volontario che si affianca al procedimento giudiziario.

Non bisogna rappresentare la giustizia riparativa in maniera semplicistica attraverso una contrapposizione tra buonisti e forcaioli, come talora è accaduto.

Inoltre, non ha senso pensare di circoscriverla solo ad alcuni reati e impedirla per altri: con le opportune cautele è anzi molto utile anche nelle situazioni più complesse”.

(Foto: Agia)

Sulla scorta dei risultati dell’indagine Garlatti formula alcune considerazioni a carattere propositivo. Innanzitutto, estendere il ricorso ai programmi di giustizia riparativa per gli autori di reato che non sono imputabili. “È il modo per far prendere consapevolezza anche a chi ha meno di 14 anni dell’azione compiuta. In Italia già accade, ma non in tutti i tribunali per i minorenni. Le rilevazioni ci dicono che se nel 2018 ciò avveniva in 8 distretti di Corte d’Appello, nel 2021 è accaduto in 13: ne mancano ancora 9 e per i restanti 7 il dato non è disponibile”. Altra proposta è aumentare il numero dei centri. Complessivamente oggi in Italia ce ne sono 36 e dalla ricerca risultano presenti, in varia misura, in tutti i distretti di Corte d’Appello, a eccezione di quello di Campobasso (dove il dato non è stato rilevato). “È indispensabile che vi sia una capillare distribuzione territoriale delle realtà che realizzano percorsi di giustizia riparativa – osserva Garlatti -. Questo permetterebbe, tra l’altro, di agevolare l’accesso da parte delle vittime e di invertire la tendenza attuale che vede l’attivazione del percorso prevalentemente da parte dell’autore del reato. Inoltre, permetterebbe di realizzare la maggior parte degli incontri in presenza, evitando il ricorso all’online che rende meno efficace l’incontro”. Ancora, serve incrementare le risorse. “Servono finanziamenti adeguati a formare i mediatori, diffondere la conoscenza dello strumento tra operatori e istituzioni e realizzare programmi che coinvolgano direttamente la comunità”, rileva la garante, che invita anche a diffondere la cultura della giustizia riparativa. “Occorre investire in una maggiore conoscenza degli strumenti e del potenziale che ha la giustizia riparativa, tra le istituzioni e gli operatori del Terzo settore che lavorano con i minorenni – il suggerimento -. Allo stesso tempo bisogna promuovere la mediazione scolastica quale strumento di risoluzione dei conflitti: questa non solo può contribuire a un approccio precoce con gli strumenti di giustizia riparativa ma può rendere più semplice l’accesso a programmi di mediazione penale nei casi in cui i conflitti assumano le caratteristiche del reato”. Importante anche il coinvolgimento delle famiglie. “Il ruolo della famiglia è fondamentale: la ricerca mostra infatti come questo abbia un evidente effetto moltiplicatore dell’efficacia del percorso e della soddisfazione di chi vi ha preso parte”. Infine, occorre diffondere il ricorso ad altri strumenti di giustizia riparativa, diversi dalla mediazione penale. Sul totale di 782 programmi di giustizia riparativa portati a termine nel 2021, più di tre quarti (75,8%) è costituita da mediazioni penali. “L’indagine, invece, sottolinea l’utilità di ricorrere ad altri strumenti, come il circle e il dialogo riparativo, vale a dire la community conference (mediazione di comunità) e la family group conference (mediazione estesa ai gruppi parentali)”.

(Foto: Agia)

Alla presentazione è intervenuto Antonio Sangermano, capo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che ha messo in guardia da alcuni rischi: “Il collocamento della giustizia riparativa al centro del processo penale può stimolare, in astratto, quelle spinte opportunistiche, strumentali, che ove non attentamente verificate e disvelate possono indirettamente produrre effetti di vittimizzazione secondaria. Tutti questi istituti funzionano nella misura in cui da parte delle persone che vi compartecipano, in una equiprossimità che non può essere astrazione concettuale e normativa, perché una persona ha subito un reato e sta soffrendo e l’altra l’ha realizzato e forse soffre per averlo fatto – ma sono due dolori completamente diversi e non equiparabili sul piano ontologico né tantomeno etico, vi è un’adesione reale, effettiva, psicologica a questo percorso di confronto. Se vi si inseriscono meccanismi di mistificazione, anche argutamente plasmati, il sistema salta”. Ricordando che “la giustizia riparativa non è priva di effetti sulla giustizia penale, ad esempio sulla dosimetria della pena, sulla concessione dell’attenuante, sulla sentenza di non luogo a procedere per i reati procedibili a querela, sulla sospensione del processo ancor prima che venga presentata la querela, Sangermano ha ribadito che “tutto questo funzionerà se i mediatori avranno la capacità e la forza di rendere effettivo quel percorso, di renderlo vero, autentico e, nell’equiprossimità, saper distinguere. In questo quadro la giustizia riparativa può acquisire un’importanza strategica. Sta a noi farla funzionare”.

Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, non avendo potuto partecipare alla presentazione ha inviato un messaggio nel quale ha scritto. “Credo che la giustizia riparativa minorile possa essere considerata un bene e un interesse della intera comunità. Non vi è dubbio che tutto questo possa essere considerato un vero e proprio cambio di paradigma”.

Nel corso dell’evento è stato proiettato il video “Giustizia riparativa. Voci di un incontro” che riporta le testimonianze, interpretate da attori, di coloro – autori e vittime di reato – che hanno partecipato a programmi di giustizia riparativa.

Attacco a Israele: a Gaza la comunità cristiana apre le porte agli sfollati. Moltissimi sono musulmani

Gio, 12/10/2023 - 14:08

Anche la piccola comunità cristiana di Gaza, poco più di 1.000 fedeli, oltre 100 dei quali cattolici, fa la conta dei danni dei bombardamenti israeliani in corso sulla Striscia. “Almeno 8 famiglie di nostri fedeli hanno perso l’abitazione e sono ospitati in parrocchia – dichiara al Sir padre Gabriel Romanelli, il parroco latino di Gaza – insieme ad altre 200 persone. Nel centro Tommaso d’Aquino ce ne sono altre 30 mentre nelle strutture della Sacra Famiglia, interne alla parrocchia, ne abbiamo circa 400. Molte di queste sono musulmane che abitano nelle vicinanze. Attiva anche la chiesa ortodossa che sta assistendo una cinquantina di suoi fedeli e anche di musulmani”.

Popolazione tra due fuochi. Con il blocco di forniture di luce, cibo, carburante, gas e acqua, deciso da Israele per assediare Hamas e preparare l’offensiva terrestre, peggiorano ora dopo ora le condizioni della popolazione gazawa che si trova letteralmente tra i fuochi dei due combattenti. L’ultimo bilancio dei morti nel conflitto parla di 1.300 israeliani e 1.200 palestinesi. Israele ha ribadito che non permetterà “l’ingresso di risorse di base o aiuti umanitari a Gaza finchè Hamas non avrà liberato gli ostaggi”. In queste condizioni, ha affermato la Croce Rossa, “presto la situazione sarà ingestibile”. Sono oltre 338.000 gli sfollati a Gaza, ha spiegato l’Onu. Si lavora con l’Egitto per consentire un passaggio sicuro a Gaza degli aiuti e di medicine e per l’apertura di un corridoio umanitario “a senso unico verso l’Egitto” presso il valico di Rafah, l’unico non controllato da Israele.

Scuole e parrocchia aperte. “Stiamo allestendo la scuola per ospitare gli sfollati ma non abbiamo molto da offrire come materassi e coperte, perché in passato non è mai accaduto di accogliere persone. Mai come in questi giorni le famiglie non sanno dove andare e sono alla ricerca disperata di rifugi. In questa tragedia ci confortano molto le preghiere e le parole di Papa Francesco che ringraziamo a nome di tutti”. Da Gaza, dove dirige la scuola del Patriarcato latino di Gerusalemme, a parlare al Sir è suor Nabila Saleh, delle suore del Rosario. Nella notte appena trascorsa l’aviazione israeliana ha continuato a bombardare obiettivi terroristici appartenenti ad Hamas. La Striscia è oramai stretta d’assedio. “Abbiamo notizie di alcune famiglie degli studenti della nostra scuola che hanno perso la casa e alcuni loro parenti, in particolare un papà con una figlia, sono dispersi sotto le macerie – racconta la religiosa –. Si scava a mani nude nella speranza di ritrovarli ancora in vita”. Anche la scuola lamenta qualche danno, “ma niente di grave rispetto a ciò che si vede nei media” si affretta a dire suor Nabila.

In arrivo famiglie musulmane. Il personale della scuola da questa mattina presto sta collaborando con le suore per allestire spazi sufficienti ad accogliere gli sfollati. L’istituto scolastico, il più grande della Striscia, è situato nel quartiere di Tel al-Hawa, nella parte meridionale di Gaza, dove si trovano anche l’Università Islamica e uffici ministeriali. A collaborare con suor Nabila, è Hanady, la sua assistente da tempo, “il mio braccio destro” dice la religiosa: “Israele ha avvisato la popolazione del quartiere a non avvicinarsi ad alcune zone perché a rischio raid. Hanady abita proprio in quella parte per cui verrà a stare da noi. Al momento ci prepariamo a ricevere una decina di famiglie, circa 70 persone in totale. Ma potrebbero arrivarne di più. La gran parte di queste famiglie sono musulmane, i nostri studenti, infatti, sono praticamente tutti di fede islamica”.

(Foto Parrocchia latina)

“Abbiamo bisogno di preghiera”. “Siamo in una area pericolosa che in passato è stata spesso colpita dai raid aerei di Israele – spiega la preside – e mai nessuno ci aveva chiesto ospitalità e rifugio. Ma adesso è diverso, la situazione è drammatica e le famiglie cercano luoghi dove riparare e non possiamo dire di no alle richieste di aiuto e abbiamo aperto la scuola. Da noi le famiglie possono trovare un po’ di energia elettrica garantita dai pannelli solari, dono prezioso della Chiesa italiana finanziati con i fondi dell’8×1000, e dell’acqua che attingiamo da un vecchio pozzo che abbiamo dentro la scuola. Il cibo scarseggia, abbiamo chiesto aiuto a degli organismi internazionali e non sappiamo se e cosa potranno darci. Ma di una cosa abbiamo soprattutto bisogno, della preghiera e della vicinanza di tutti. E che Dio illumini le menti di chi ha in mano le sorti di questa guerra”.

Don Minzoni: al via la fase diocesana di beatificazione. Mons. Ghizzoni (Ravenna): “La carità è il motore del suo sacrificio”

Gio, 12/10/2023 - 10:37

Un “segno vivo dell’amore di Cristo e della Chiesa, per i piccoli, i poveri, i giovani”, come recita la preghiera composta per l’avvio della fase diocesana della causa di beatificazione. Don Minzoni è stato questo. Ed è la ragione per la quale la diocesi, con la parrocchia di Argenta, l’Agesci, il Masci (a livello nazionale) e gli Scout d’Europa hanno avviato la causa che si è aperta ufficialmente sabato sera in Cattedrale a Ravenna, nel corso di una veglia presieduta dall’arcivescovo mons. Lorenzo Ghizzoni.

Verso la fase romana. Un percorso partito in occasione del centenario, il 23 agosto scorso, durante la Messa presieduta dal presidente della Cei, card. Matteo Zuppi, con l’annuncio dell’accettazione del “supplex libellus”, la richiesta ufficiale da parte del postulatore. Dopo il giuramento dei membri del tribunale diocesano e del postulatore, padre Gianni Festa, e vicepostulatore, don Rosino Gabbiadini, si proseguirà con la raccolta di testimonianze e documenti sulla fama di santità di don Minzoni. Tutti elementi che poi verranno inviati alla Congregazione della causa dei santi per la fase romana.

Perché don Minzoni può essere candidato alla beatificazione? Per cosa è stato perseguitato e per cosa ha dato la sua vita? A queste domande hanno cercato di rispondere, sabato scorso, mons. Ghizzoni e il postulatore, padre Festa, presentando la causa di beatificazione del parroco di Argenta morto cento anni fa in un agguato fascista. Citando papa Giovanni Paolo II che nel 1990 scrisse una lettera all’allora arcivescovo di Ravenna-Cervia, card. Ersilio Tonini, Ghizzoni individua nella carità il motore del suo sacrificio: “è stato un amore più grande” di lui: “lo stesso amore assoluto con cui Dio li aveva amati” a spingerlo a preferire la morte all’infedeltà al suo mandato pastorale. Quello stesso amore che Dio ha per tutti gli uomini, ha precisato mons. Ghizzoni. Morì “in odium fidei” o in “odium caritatis”, si è chiesto l’arcivescovo? “Nella realtà della vita cristiana, come nella vita di don Minzoni – ha specificato – le due virtù teologali fede e carità sono presenti in modo indissociabile, poiché una alimenta l’altra e ne riceve concretezza”.

Don Minzoni (Foto Giampiero Corelli)

“Appassionato, coraggioso, innovatore”. Come lo ha descritto il card. Zuppi nell’omelia della Messa per il Centenario, don Minzoni, ha detto Ghizzoni, è stato un “prete romagnolo, ravennate, appassionato, coraggioso, innovatore, colto, sensibile alle sofferenze della sua gente e ai movimenti ecclesiali e culturali del suo tempo. Uno dal grande cuore verso i poveri e gli emarginati, gli ultimi, pronto a difendere a ogni costo la libertà della Chiesa e della sua missione, amico di don Angelo Lolli con il quale condivise la passione per i poveri, e attento conoscitore della dottrina sociale della Chiesa”

Martire della carità. Un “martire della carità”, nelle sue molteplici forme: quella pastorale, sulla linea della Lumen Gentium e della Gaudium et Spes ma soprattutto della Evangelii Gaudium di Papa Francesco; la carità educativa con la quale creò “un oratorio per i giovani, disorientati nel dopoguerra”; quella “politica” che lo portò a impegnarsi per “rendere la società più rispettosa della dignità della persona umana”, la carità “sociale”, evidente nel suo impegno per la cooperativa agricola cattolica e nella cassa rurale e infine quella “evangelica” che lo portò a un amore preferenziale e concreto per i poveri, i piccoli, le donne, i giovani. “Una gran bella spina nel fianco – ha concluso mons. Ghizzoni – per chi avrebbe voluto dominare e addormentare la società civile e la comunità cristiana, sottometterle e guidarle secondo interessi politici di parte”. La consapevolezza di essere di fronte a un martirio è stata chiara sin da subito per don Minzoni, ha spiegato il postulatore, padre Festa, sia nei testimoni dell’epoca sia in autorevoli voci della Chiesa: lo si coglie dai due discorsi di Giovanni Paolo II, dalle parole del commissario Asci (Associazione scout cattolici italiani) di allora, Gardini, fino a quelle del maestro, amico e confidente, don Giovanni Mesini. Per questo, la fama di martirio è la motivazione sulla quale si basa l’intera causa.

La radice del suo martirio: la testimonianza del Vangelo. “Il motivo materiale che ha portato all’attentato era dare una lezione a don Minzoni, il prete che non si era adeguato alle idee e alle proposte educative che stavano prendendo il sopravvento – ha detto padre Festa -. Ma questa ragione “politica” va inquadrata all’interno di una lettura teologica. Quello di don Minzoni è un martirio che ha la sua origine in quelle motivazioni politiche ma trova la sua radice ultima nell’offerta della vita per la testimonianza del Vangelo. La lettura che venne fatta subito dopo l’attentato restituisce questa immagine di un martirio: dare la vita “per i propri amici”, sull’esempio di Gesù Cristo”.

Quella maledetta mina! Padre Pozzi racconta il quarto attentato

Gio, 12/10/2023 - 10:05

Padre Norberto Pozzi è un Carmelitano scalzo, missionario nella Repubblica Centrafricana. È in missione da molti anni: era arrivato come laico alla ricerca di un senso della sua vita. Il lavoro in missione, piano piano, l’ha cambiato. Da muratore entra in seminario e diventa frate carmelitano.
L’attività di padre Norberto è frenetica, divisa tra evangelizzazione e promozione sociale in un territorio, la Repubblica Centrafricana, scossa da mille tensioni, non da ultimo una guerra tra fazioni che ha fatto intervenire l’Onu con una forza di interposizione. Le mine fanno parte del tragico e disgraziato gioco della guerra.
Era il 10 febbraio scorso quando padre Norberto stava andando a sistemare dei lavori nelle scuole delle missioni, per questo si era portato qualche operaio in aiuto. Superato il villaggio di Bozoum, un conoscente lo avverte: tieniti sulla sinistra, perché c’è la possibilità che la strada sia minata. Pozzi, come chiunque viva in Centrafrica, è abituato a simili avvertimenti, fa parte del quotidiano in questa parte di Africa. Supera il primo ponticello, supera il secondo, centrando bene dove mettere le ruote sulla lasagna di metallo del ponte, e poi il gran botto. La jeep vola, tutti illesi tranne lui.
Il missionario perde conoscenza, la riprende a sprazzi solo dopo, tanto da ricordare di essere stato caricato su una moto, uno davanti alla guida, lui in mezzo con un piede a penzoloni, dietro un altro che lo sorregge. E via di corsa verso Bozoum. Nel tragitto ricorda la folla che grida, che lo accompagna, che gli tende la mano.
Arriva in condizioni critiche al posto medico, dove l’unica sacca di sangue che hanno è uno O+, il suo! Sarà un caso, che Norberto Pozzi rilegge dicendo: “si vede che non era la mia ora”. E poi il trasporto in elicottero prima a Bangui e poi a Kampala in Uganda, dove gli amputano il piede. E da lì all’ospedale Rizzoli di Bologna.
È il quarto attentato che subisce. Nei primi tre rimane illeso: in uno la pallottola si conficca nel poggiatesta a un centimetro dalla nuca, nel secondo nel cambio della jeep, al terzo riesce a sfuggire agli attentatori. “Finché ne esci illeso, superi l’impatto. Ma quando ci lasci qualcosa, allora ti fai delle domande”. La voglia di “piedi in cammino” è ancora intatta, nonostante tutto. Ritornerà? Sorride. È questa la domanda che deve ancora affrontare. La più difficile.

Padre Nowak: “Unire le forze per sostenere i missionari nel mondo”

Gio, 12/10/2023 - 10:01

Il Fondo universale di solidarietà (Fus) delle Pontificie opere missionarie è una sorta di “cisterna di riserva” che permette di sostenere le missioni, anche le più povere e lontane, nel mondo. Grazie a questa risorsa si convogliano risorse verso gli operatori pastorali di ogni Chiesa: catechisti, sacerdoti, operatori scolastici, sanitari e sociali che beneficiano del sostegno della colletta a cui ogni Chiesa locale contribuisce secondo la propria disponibilità economica.
Anche se a volte “il contributo è solo simbolico, come l’obolo della vedova del Vangelo”, spiega padre Tadeusz Jan Nowak, segretario generale della Pontificia opera della propagazione della fede, che illustra il grande orizzonte della solidarietà tra le Chiese che si apre grazie alle offerte raccolte per la Giornata missionaria mondiale (Gmm). “Si tratta infatti di una rete universale composta da tutte le Chiese nella comunione della Chiesa universale: una rete di preghiera, formazione, informazione, aiuto reciproco, per far camminare l’evangelizzazione nel mondo”. Il Fondo universale di solidarietà distribuisce aiuti alle nuove Chiese e nelle zone di prima evangelizzazione: si tratta di circa 1.150 realtà locali (diocesi, arcidiocesi, vicariati e prefetture apostoliche, missioni sui iuris) che si trovano in Africa, Asia, Oceania, e in alcune regioni dell’America latina.
“Nel Fondo universale confluisce la colletta fatta in occasione della Gmm che viene celebrata in ogni comunità cristiana del mondo – continua padre Nowak –. In ogni parrocchia o comunità si prega, si celebra la messa e i fedeli possono offrire qualcosa per sostenere concretamente i missionari nel mondo. È sempre più difficile far comprendere che le gravi necessità dell’evangelizzazione, di cui spesso parla Papa Francesco, sono anche e soprattutto i bisogni pastorali fondamentali delle Chiese in situazioni di maggiore necessità; vale a dire la formazione dei seminaristi, sacerdoti, religiosi, catechisti locali, la costruzione e il mantenimento dei luoghi di culto, dei seminari e delle strutture parrocchiali, il sostegno ai mass media cattolici locali (tv, radio e stampa), la fornitura dei mezzi di trasporto (auto, moto, biciclette, barche), il sostegno alla catechesi, all’insegnamento cattolico, alla formazione cristiana dei bambini e dei giovani”.
Buona parte del Fondo arriva alle diocesi che ne hanno bisogno sotto forma di sussidi ordinari: sono 940 diocesi che ne ricevono, per un totale di circa 27 milioni dollari all’anno. I sussidi ordinari danno ai vescovi la possibilità disporre di una cifra che gli permetta di aiutare lo sviluppo della comunità cristiana e delle strutture ecclesiali: ad esempio denaro per la benzina per permettere le visite pastorali al vescovo, per comprare una fotocopiatrice, per sostenere il clero della diocesi che non ha altre forme di sostentamento. “Stiamo vivendo da tempo un trend in ribasso – conclude padre Nowak – e ogni anno purtroppo il fondo diminuisce: dieci anni fa c’erano circa 140 milioni di dollari da distribuire, quest’anno la metà, solo 70. C’è da chiedersi ad esempio, da dove le diocesi del Myanmar, Malawi, Bangladesh, Pakistan, Sri Lanka e altre prenderanno i soldi per la loro missione?”.

Dal Parlamento via libera allo “scostamento di bilancio”. Governo al lavoro per la manovra

Mer, 11/10/2023 - 17:45

Il Parlamento ha dato il via libera alla Nadef, il documento che contiene le coordinate della prossima manovra economica, e ha approvato la relazione con cui il Governo ha chiesto l’autorizzazione a fare nuovo deficit per finanziare le misure in cantiere. È il cosiddetto “scostamento di bilancio” che in base all’articolo 81 della Costituzione, riformato nel 2012, deve ottenere il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera. Ad aprile, in una situazione analoga, a causa delle assenze il Governo mancò l’obiettivo a Montecitorio e fu necessario correre ai ripari con una nuova relazione e un nuovo voto a stretto giro. Stavolta tutto come secondo i piani: tra i deputati i sì sono stati 224 e 127 i no, tra i senatori rispettivamente 111 e 69.Nelle intenzioni dell’esecutivo i 15,7 miliardi di deficit aggiuntivo nel 2024 saranno destinati principalmente alla conferma del taglio del cuneo fiscale (con accorpamento delle prime due aliquote Irpef), al rinnovo dei contratti pubblici e del comparto sanitario e al potenziamento dei provvedimenti di sostegno alla natalità.

Le opposizioni avevano condizionato la possibilità di un voto favorevole allo stanziamento di risorse molto più consistenti per la sanità, ma questa eventualità non si è determinata e quindi esse si sono espresse contro i documenti del governo. Governo che comunque è alla ricerca di ulteriori fonti finanziarie per far quadrare i conti del disegno di legge di bilancio, atteso in Consiglio dei ministri il prossimo 16 ottobre. In quella sede dovrebbero vedere la luce anche il Documento programmatico di bilancio, in cui il progetto di manovra economica viene illustrato in forma sintetica alla Commissione europea per le verifiche di competenza, e il decreto-legge “collegato” in materia fiscale. Di qui alla riunione del 16 ottobre si susseguiranno riunioni e incontri innanzitutto tra le forze della maggioranza, mentre venerdì è in programma il confronto con le parti sociali.

Com’è facilmente intuibile, il quadro internazionale con i suoi drammatici sviluppi rende assai complicata la messa a punto della manovra.

Nelle audizioni che hanno preceduto il voto delle Camere – dalla Banca d’Italia all’Ufficio parlamentare di bilancio – sono emerse preoccupazioni sulla tenuta delle previsioni su cui si basa la strategia del governo. In particolare fa discutere la crescita del Prodotto interno lordo fissata dalla Nadef all’1,2% nel 2024. Secondo il Fondo monetario internazionale dovrebbe invece attestarsi sullo 0,7%. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, assicura che l’esecutivo “ha fatto le cose in modo responsabile e serio” e chiede che si attenda il testo effettivo del disegno di legge di bilancio per poter esprimere valutazioni nel merito.

Kherson sotto attacco, colpite anche le chiese. Padre Ignatij: “Siamo spaventati, ogni giorno può essere l’ultimo”

Mer, 11/10/2023 - 13:08

Kherson sotto il fuoco russo. Proseguono senza sosta i bombardamenti soprattutto nel sud e nell’est dell’Ucraina, e sabato scorso (8 ottobre) è stata presa di mira e colpita anche la chiesa ortodossa della Natività della Santa Vergine mentre era in corso la funzione domenicale. A darne notizia – corredata da foto e video – sul suo profilo Facebook è il vescovo Nikodym, della “Chiesa ortodossa Ucraina” (non legata al Patriarcato di Mosca) di Kherson e Tavri. I russi “hanno bombardato ancora una volta brutalmente Kherson dalla riva sinistra temporaneamente occupata”, riferisce il vescovo. “Proprio durante la Divina Liturgia domenicale hanno preso di mira il territorio della Chiesa ortodossa, dove persone pacifiche si erano radunate per pregare”. Le foto mostrano le persone indifese e per lo più anziane, accasciate per terra per proteggersi dai colpi. La chiesa funge anche da centro di distribuzione di prodotti e medicinali ai residenti della regione e anche il furgone purtroppo è stato danneggiato. Le autorità locali hanno poi reso noto che nella notte di sabato, la regione è stata colpita dai russi ben 59 volte e che nei bombardamenti sono rimaste ferite11 persone, tra cui un bambino di nove mesi.

Nel suo messaggio settimanale, anche Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, Capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, parla dell’eroica città di Beryslav, sita sulle rive del fiume Dnipro nella regione di Kherson. A causa dei bombardamenti incessanti e degli attacchi aerei, anche la chiesa greco-cattolica è stata danneggiata, così come la residenza del parroco e la cucina che quotidianamente forniva cibo a migliaia di persone bisognose. “La nostra comunità e il nostro parroco in questa città eroica chiedono il nostro sostegno e le nostre preghiere. Tuttavia, in mezzo a questo dolore, a questa devastazione, tra le lacrime e il sangue, vogliamo che il mondo ci ascolti e senta che: l’Ucraina resiste, l’Ucraina combatte, l’Ucraina prega”.

Cucina di beneficenza presso la parrocchia di Beryslav (Foto Ugcc)

Contattato dal Sir, è padre Ignatij Moskalyuk, parroco del monastero basiliano di San Volodymyr a Kherson a raccontare cosa sta succedendo. “L’8 ottobre all’1 di notte ha avuto luogo un bombardamento molto pesante sul nostro microdistretto di Tavriyskyi nella città di Kherson. Ci sono state molte esplosioni. Pensavo che il nostro monastero non sarebbe rimasto intatto e la chiesa sarebbe crollata. Ad essere onesti, è stato spaventoso. Sono sceso nel seminterrato del monastero ad aspettare la fine dei bombardamenti”. Nonostante la stanchezza, il giorno successivo, domenica, la vita è andata avanti. “Abbiamo celebrato la messa e quando ho finito il servizio, ho incontrato i miei parrocchiani e ho chiesto loro come era andata la notte. Ho capito che avevano paura anche perché in molte case le finestre erano saltate. Anche i bambini erano spaventati. Potevo vedere il dolore e la sofferenza nei loro occhi. Li ho incoraggiati e ho detto: ringraziamo Dio per averci salvato la vita”.

Il pensiero degli ucraini in questi giorni si rivolge al popolo della Terra Santa. “Vivere in un luogo dove passa direttamente la linea del fronte non è facile”, prosegue il parroco.

“C’è la consapevolezza che ogni giorno può essere l’ultimo e quindi è una sfida a vivere il tempo bene e con dignità”.

Il pensiero degli ucraini in questi giorni va spesso al Medio Oriente dove sono in corso gli stessi orrori e le stesse drammatiche storie. “Condivido il dolore e la sofferenza con gli abitanti della Terra Santa e prego ora non solo per l’Ucraina ma anche per la Terra Santa”, dice padre Ignatij. “Mi fa male vedere come le persone che vivono direttamente sulla Terra benedetta da Dio sprecano la loro umanità e creano cose che sono indegne di una persona e degne di punizione agli occhi di Dio. Faccio appello non solo agli ebrei, ma anche ai musulmani: siete figli dello stesso Dio, avete un padre comune, Abramo, non fatevi del male a vicenda”.

Pope Francis: “The Middle East does not need war, but peace”

Mer, 11/10/2023 - 10:35

At the end of today’s general audience in Saint Peter’s Square, dedicated to Saint Josephine Bakhita, Pope Francis sent out an appeal for peace in the Middle East: “I continue to follow what is happening in Israel and Palestine with tears and apprehension”, he said in his greetings to the Italian-speaking faithful: “Many people killed, others injured. I pray for those families who have seen a feast day transformed into a day of mourning, and I ask that the hostages be released immediately.”

“It is the right of those who are attacked to defend themselves – Francis argued –  but I am very concerned about the total siege under which the Palestinians are living in Gaza, where there have also been many innocent victims.” “Terrorism and extremism do not help reach a solution to the conflict between Israelis and Palestinians, but fuel hatred, violence, revenge, and only cause each to other suffer. The Middle East does not need war, but peace, a peace built on dialogue and the courage of fraternity.”

The Pope addressed “a special thought to the population of Afghanistan, suffering following the devastating earthquake that struck, claiming thousands of victims, including many women and children, and displaced persons.” He then called on “all people of good will to help this people, already sorely tried, contributing in a spirit of fraternity to alleviating the sufferings of the people and supporting the necessary reconstruction.” In the opening of his catechesis, Francis launched an appeal for Sudan, “torn by a terrible armed conflict, of which little is spoken today”: “let us pray for the Sudanese people, so they might live in peace!” The reference is to Sudanese Saint Josephine Bakhita, at the heart of the audience, whose fame – Francis remarked – has exceeded every boundary and reached all those to whom identity and dignity is denied.”

“When we enter the logic of fighting, of division between us, of bad feelings, one against the other, we lose our humanity. And very often we think we are in need of humanity, to be more humane!”, the Pope’s cry of alarm, departing from the written text: “To humanize, to humanize ourselves and to humanize others.”

“To pity means both to suffer with the victims of the great inhumanity in the world, and also to pity those who commit errors and injustices, not justifying, but humanizing. This is the caress she teaches us: to humanize”, the Pope said referring to Saint Bakhita’s “secret”, who “was always capable of forgiving; indeed, her life is an existential parable of forgiveness”, he continued off-text: “Do not forget this: forgiveness, which is God’s caress to all of us. Forgiveness liberated her. Forgiveness first received through God’s merciful love, and then the forgiveness given that made her a free, joyful woman, capable of loving.” “Bakhita was able to experience service not as slavery, but as an expression of the free gift of self”, Francis explained: “And this is very important: made a servant involuntarily – she was sold as a slave – she then freely chose to become a servant, to bear on her shoulders the burdens of others.” “Saint Josephine Bakhita, by her example, shows us the way to finally be free from our slavery and fears”, the Pope said. “She helps us to unmask our hypocrisies and selfishness, to overcome resentments and conflicts. And she encourages us, always.”

“Forgiveness takes away nothing from you but adds dignity to the person,

it makes us lift our gaze from ourselves towards others, to see them as fragile as we are, yet always brothers and sisters in the Lord”, Francis concluded: “forgiveness is the wellspring of a zeal that becomes mercy and calls us to a humble and joyful holiness, like that of Saint Bakhita.”

Papa Francesco: “Il Medio Oriente non ha bisogno di guerra, ma di pace”

Mer, 11/10/2023 - 10:35

Papa Francesco ha concluso l’udienza di oggi in piazza San Pietro, dedicata a Santa Giuseppina Bakhita, con un appello per la pace in Medio Oriente. “Continuo a seguire con dolore e apprensione quanto sta succedendo in Israele e Palestina”, ha rivelato durante i saluti ai fedeli di lingua italiana: “Tante persone uccise e altre anche ferite. Prego per quelle famiglie che hanno visto trasformare un giorno di festa in un giorno di lutto e chiedo che gli ostaggi vengano subito rilasciati”.

“È diritto di chi è attaccato difendersi – ha argomentato Francesco – ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti”. “Il terrorismo e gli estremismi non aiutano a raggiungere una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi – il monito del Papa – ma alimentano l’odio, la violenza, la vendetta e fanno solo soffrire gli uni e gli altri. Il Medio Oriente non ha bisogno di guerra, ma di pace, di una pace costruita sulla giustizia, sul dialogo e sul coraggio della fraternità”.

Poi “un pensiero speciale alla popolazione dell’Afghanistan, che sta soffrendo a seguito di un devastante terremoto che l’ha colpita provocando migliaia di vittime, tra cui molte donne, bambini e sfollati”. “Aiutare questo popolo già così tanto provato, contribuendo in spirito di fraternità ad alleviare le sofferenze della gente e a sostenere la necessaria ricostruzione”, l’esortazione a “tutte le persone di buona volontà”. All’inizio della catechesi, l’appello per il Sudan, “lacerato da un terribile conflitto armato di cui oggi si parla poco”: “preghiamo per il popolo sudanese, perché possa vivere in pace!”. Il riferimento è alla santa sudanese al centro dell’udienza, Santa Giuseppina Bakhita, la cui fama – ha sottolineato Francesco – “ha superato ogni confine e ha raggiunto tutti coloro a cui viene rifiutata identità e dignità”.

“Quando noi entriamo nella logica della lotta, della divisione tra noi, dei sentimenti cattivi l’uno contro l’ altro, perdiamo umanità: abbiamo bisogno di umanità, di essere più umani!”, il grido d’allarme a braccio: “Umanizzare, umanizzare noi stessi e umanizzare gli altri”.

“Com-patire significa sia patire con le vittime di tanta disumanità presente nel mondo, e anche compatire chi commette errori e ingiustizie, non giustificando, ma umanizzando: questa è la carezza che ci insegna lei, umanizzare”, ha sottolineato il Papa a proposito del “segreto” di Santa Bakhita, che “è stata capace di perdonare sempre: anzi, la sua vita è diventata una parabola esistenziale del perdono”. “Perdonare perché noi saremo perdonati”, ha proseguito a braccio: “Non dimenticare questo: il perdono, che è la carezza di Dio a tutti noi. Il perdono l’ha resa libera. Il perdono prima ricevuto attraverso l’amore misericordioso di Dio, e poi il perdono dato l’ha resa una donna libera, gioiosa, capace di amare”. “Bakhita ha potuto vivere il servizio non come una schiavitù, ma come espressione del dono libero di sé”, ha spiegato Francesco: “Questo è molto importante: fatta serva forzatamente, è stata venduta come schiava, ha poi scelto liberamente di farsi serva, di portare sulle sue spalle i fardelli degli altri”. “Santa Giuseppina Bakhita, con il suo esempio, ci indica la via per essere finalmente liberi dalle nostre schiavitù e paure”, ha commentato il Papa: “Ci aiuta a smascherare le nostre ipocrisie e i nostri egoismi, a superare risentimenti e conflittualità. Ci incoraggia a riconciliarci con noi stessi e trovare pace nelle nostre famiglie e comunità. E ci incoraggia sempre”.

“Il perdono non toglie nulla ma aggiunge dignità alla persona,

fa levare lo sguardo da se stessi verso gli altri, per vederli sì fragili quanto noi, ma sempre fratelli e sorelle nel Signore”, ha concluso Francesco: “Il perdono è sorgente di uno zelo che si fa misericordia e chiama a una santità umile e gioiosa, come quella di Santa Bakhita”.

 

 

Terremoto in Afghanistan. Kalilah (Medici senza frontiere): “C’è bisogno urgente di alloggi”. Oltre 2.445 morti e 2.440 feriti

Mer, 11/10/2023 - 09:53

I villaggi della provincia di Herat, nella parte occidentale dell’Afghanistan, sono ridotti ad un ammasso di macerie di mattoni di fango e pali di legno. I soccorritori continuano a scavare con picconi e pale alla ricerca di eventuali sopravvissuti. Un video terrificante mostra una bambina tirata fuori dalla terra a mani nude, non si sa ancora se sia viva o morta. Il terremoto di magnitudo 6,3 a 42 km dalla città di Herat avvenuto la mattina di sabato scorso, 7 ottobre, ha causato finora almeno 2.445 morti accertati e 2.440 feriti, secondo i dati del Ministero della salute pubblica e dell’ospedale regionale di Herat. Lo riferisce al Sir Yahya Kalilah, capo del programma in Afghanistan di Medici senza frontiere. Msf ha allestito infatti 5 tende mediche presso l’ospedale regionale di Herat, supportato dall’organizzazione umanitaria, e sta fornendo cure e aiuti alla popolazione. “Stamattina c’erano 340 pazienti nell’ospedale regionale, la maggior parte con problemi leggeri o moderati – racconta -. Molti di loro rimangono nelle nostre tende perché non hanno case dove tornare. Le autorità stanno cercando delle sistemazioni”. Il bisogno più urgente è quindi “trovare alloggi per chi ha perso tutto”.

(foto: Msf)

“La provincia di Herat è ancora sotto choc, è stato sconvolgente per tutti – prosegue Kalilah, impegnata sul campo -. Fino ad oggi all’ospedale regionale sono stati trattati 540 pazienti ed altri sono stati curati in ospedali privati.

La maggior parte sono donne e bambini, perché il terremoto li ha colpiti durante la metà della mattinata, quando erano in casa”.

Il sisma ha colpito almeno 13 villaggi: in 11 di questi, nel distretto rurale di Zenda Jan, sono rase al suolo il 100% delle abitazioni. Il villaggio di Kashkak è stato letteralmente polverizzato. 

(foto: Msf)

Evacuati i bambini dall’ospedale regionale. L’organizzazione medico-umanitaria è intervenuta immediatamente per evacuare dai reparti di degenza pediatrica dell’ospedale regionale di Herat tutti i bambini ricoverati, per evitare ulteriori rischi in caso di scosse di assestamento. Infatti nel frattempo si sono susseguite altre otto scosse, di magnitudo tra 4,7 e 4,9. Al pronto soccorso dell’ospedale, il Ministero della salute pubblica ha gestito tutti i pazienti feriti e richiesto forniture mediche supplementari. Msf ha inviato kit di forniture mediche per trattare fino a 400 feriti e un’équipe medica per sostenere il personale del pronto soccorso. Dai diversi team di Medici senza frontiere in Afghanistan sono arrivati aiuti d’emergenza.

In arrivo un team di medici e logisti per valutare i bisogni. “Una squadra di tecnici, medici e staff logistico è partita oggi per valutare i bisogni nelle aree più colpite fuori dalla città e fornire aiuti di prima emergenza”, conferma Kalilah: “Se ci sarà bisogno adatteremo la nostra risposta, non appena la situazione diventerà più chiara in città e nel distretto.

Il bisogno più urgente in ospedale è trovare alloggi a persone che hanno perso tutto”.

View of Herat area and MSF operations. (foto: Msf)

Secondo Save the children nella provincia di Herat migliaia di bambini e almeno 9000 famiglie sono ora senza casa. L’Oms stima invece almeno 11.000 persone colpite, appartenenti a 1.655 famiglie.

Una terribile crisi umanitaria. L’Afghanistan, dopo la presa di potere dei talebani nell’agosto 2011 e la partenza degli americani, ha subito il ritiro degli aiuti esteri. Questo ha causato una crisi umanitaria ancora più terribile: oggi il 97% della popolazione, su 42 milioni di abitanti, vive sotto la soglia della povertà. Il 70% degli abitanti (oltre 29 milioni di persone) ha bisogno di assistenza umanitaria, tra loro ci sono 15,8 milioni di minori. I talebani hanno chiesto aiuti internazionali, in particolare cibo, vestiti, tende e medicinali. Il Kazakistan ha inviato generi alimentari, tende, farmaci, vestiario e altri beni di prima necessità. Nel frattempo sono iniziate cerimonie funebri di massa: nel villaggio di Siah Ab, vicino all’epicentro del terremoto, 300 corpi sono stati avvolti in sudari bianchi, tra la folla che incrociava solennemente le braccia per la preghiera islamica.

View of Herat area and MSF operations. – (foto: Msf)

Ancora una guerra: popoli vittime di terroristi e governanti

Mer, 11/10/2023 - 09:40

Assisto al telegiornale assieme alla famiglia e alla nostra vicina di casa. Ivana è ucraina. Scoppia in lacrime. Le immagini provenienti da Israele e dalla Striscia di Gaza la riportano al suo Paese, martoriato dalla furia russa. “Come a casa mia, come a casa mia”, ripete senza sosta. Non tenta analisi politiche, militari o geostrategiche. Nei suoi occhi carichi di lacrime e nelle sue parole ci sono solo pietà per morti, feriti, ostaggi.
I missili di Hamas piombati sugli israeliani, sulle loro case, sulle loro città, ricordano a Ivana la sua città rasa al suolo dai missili dell’esercito di Putin. Le abitazioni rase al suolo a Gaza, con la gente disperata mentre soccorre le vittime, la fanno pensare ai suoi figli, alle sorelle e ai fratelli rimasti nella terra natale, rifugiati in cantina, terrorizzati dalla violenza ceca dell’aggressore, alla disperata ricerca di cibo da mettere in tavola.
Una cinquantina d’anni, Ivana è arrivata in Italia da meno di dieci: professione badante. Ne va fiera, perché questo lavoro le ha consentito di far arrivare i figli all’università. Ora ospita a casa sua una famiglia di connazionali rifugiati dopo la fuga dalla guerra.
Terminati i servizi del Tg pronuncia poche frasi. Eloquenti. “Popoli disperati. Morti, fame, niente lavoro, niente acqua. Solo la paura dei missili. E quanti morti ancora?”. Tace, poi riprende: “anche qui due popoli ma i loro capi non amano la propria gente. Pensano solo alla guerra, alle armi, al potere. Prima è successo in Ucraina, adesso qui. Hamas odia chi in passato ha odiato. E viceversa. Ma chi ci va di mezzo? I giovani uccisi al concerto, i contadini israeliani… E chi ci va di mezzo? La povera gente palestinese”. E se ne va, sconsolata.

Poche espressioni per tracciare un quadro veritiero, per quanto solo abbozzato.

Quanti popoli soffrono per colpa di governanti incapaci, indegni, protesi unicamente a mantenere il potere, accecati dal malanimo e dal risentimento? Leader determinati solamente a mantenere il proprio posto e i privilegi acquisiti.
Siria, Afghanistan, Yemen, Iraq, Iran, Nigeria, Sudan, Congo, Burkina Faso, Mozambico, Myanmar, Tigray, Kashmir, Birmania, Colombia, Haiti: un elenco incompleto delle guerre recenti o in corso. Ma non si possono dimenticare i conflitti locali, quelli etnici, quelli a sfondo pseudo-religioso, oppure generati dagli interessi economici e dal controllo delle materie prime, delle fonti energetiche, delle piantagioni finalizzate alla produzione di droga.

Governanti nazionalisti, terroristi senza scrupoli, neocolonialisti avidi

sono tutt’oggi in grado di seminare conflitti nel mondo e rovinare la vita a donne e uomini di ogni latitudine. Generando, a loro volta, povertà, soprusi, migrazioni forzate.
No, neppure da questo conflitto in Terra Santa emergerà un popolo “vincitore”. Da qualsiasi guerra i popoli escono perdenti, impoveriti, prostrati. Vale per gli ucraini come per i russi, per gli israeliani come per i palestinesi. Tutte le guerre – affermava don Primo Mazzolari nel suo “Tu non uccidere” del 1955 – sono criminali, mostruosamente sproporzionate, trappole per la povera gente, antiumane e anticristiane e “inutili stragi”. Per poi ravvisare: “se quanto si spende per le guerre si spendesse per rimuoverne le cause, si avrebbe un accrescimento immenso di benessere, di pace, di civiltà: un accrescimento di vita”. I leader di oggi dovrebbero abbeverarsi a don Mazzolari come agli insegnamenti di Papa Francesco, che ripete: “da ogni terra si levi un’unica voce: no alla guerra, no alla violenza, sì al dialogo, sì alla pace!”.

Attack on Israel. Bertolotti (ISPI): “With a land invasion, Israel is aiming for a decisive and violent action”

Mer, 11/10/2023 - 09:40

The Israeli bombardment of a besieged Gaza Strip without electricity, water, food and fuel is continuing. Hundreds of Hamas military targets have been hit by jets bearing the Star of David, while military forces and vehicles are massing on the borders of the Palestinian enclave in preparation for a ground invasion. Israel has summoned 300,000 reservists. The Israeli army has not entered the Strip, which covers 365 square kilometres and is home to 2.3 million people, since 2014. Its inhabitants have been strangled by an Israeli embargo and by the hardline Hamas regime since 2007. The numbers and the forces on the ground make it look like a foregone conclusion, but there are many unknowns. The Israeli army has a huge numerical advantage, sophisticated military technology and well-established logistical capabilities. For its part, Hamas has a high capacity for mobilisation and combat in a densely populated urban environment such as the Strip, and a better organised defence thanks to its anti-tank missiles and mines, mortars and machine guns. Not to mention the extensive network of tunnels that runs under the Strip, allowing Hamas terrorists to move freely. Moreover, the Israeli military campaigns of recent years (2008, 2012, 2014 and 2021) have allowed the Islamic movement’s leaders to study the enemy and its tactics in depth.

Entering Gaza will be a massacre for the two warring factions and will take its toll on the civilian population and the 200 or so hostages, Israeli and otherwise, held by Hamas. SIR discussed this offensive with Claudio Bertolotti, an expert at the Italian Institute for International Political Studies (ISPI) and director of Start InSight, Strategic Analysts and Research Team (http://www.startinsight.eu).

There is growing talk of an Israeli ground invasion of Gaza. What are the alternatives?

In technical terms, we should speak of an ‘offensive operation’, which can have different dynamics and outcomes. On the one hand, it could be an operation with reduced military units, supported by ground forces such as tanks, artillery, air forces and drones. This type of operation is aimed at striking and hitting pre-designated Hamas targets. It does not involve a long-term presence in Gaza. In my view, this is a possible but highly unlikely scenario.

Is the massive deployment of troops a more feasible option?

A massive deployment of troops to destroy and combat Hamas’s counter-insurgency operation, which will be waged on several defensive lines when Israel invades Gaza, is a more likely scenario. It should be noted that Hamas has been reorganising its defence structures in recent years. Suffice it to mention the extensive network of fortified tunnels, sophisticated and capable of ensuring rapid internal communication and movement. This will be very dangerous, and for Israel it will mean using the most efficient infantry, as opposed to armoured vehicles, to counter Hamas. However, a long-term campaign could prove more problematic than a short-term operation, with the risk of increased casualties for Israel, Hamas, its Islamic Jihad allies and the civilian population.

Is there a military scenario that Israel should avoid at all costs?

The scenario involving the extensive use of special armoured forces, i.e. tanks, not only in support, but also in the vicinity of, or even within, urban areas. This is the last scenario a military strategist would like to see, because armoured vehicles are likely to be ineffective and more vulnerable in urban areas, given their considerable tonnage and very limited manoeuvrability.

How long does it take to plan such a military operation?

A long time. As I said, in the operational planning phase we try to avoid fighting in residential areas. This is because it is time-consuming, because it involves a high number of casualties, and because it involves the risk of losing and under-utilising high-tech and expensive armoured vehicles.

Israel has called up 300,000 reservists: what might their role be in this war?

The Israeli army is made up of a professional and a conscript part. It is a people’s militia. The professionals are on the front line with highly specialised missions. Fighting in populated areas, as in the case of Gaza, is the competence of professional units with a medium to high level of training. We are not just talking about special or elite units. These are soldiers who will ‘recover’ a building in teams of 6 to 8. Conscripts will be used to provide the security framework of military bases and camps and to provide combat support, i.e. artillery, mortars, logistics, communications. It is likely that professional units will be used in the early stages of the invasion.

How might the civilian population of Gaza react to the Israeli invasion?

The people of Gaza who will leave, if they can, are those who have already decided not to get involved in a life-threatening conflict. Those who will stay will do so out of a conscious choice or out of necessity. These people could provide moral and material support to the Hamas fighters, who are not very numerous, perhaps 25,000.

Is the Israeli decision to besiege Gaza, cutting off electricity, water, food and fuel, an emotional or a rational one? And how does this prepare for a military invasion?

I think it is a rational decision. Israel does not intend to use an iron fist in a velvet glove, rather its action will be decisive and explicitly violent. This will have two consequences: it will limit the opponents’ access to basic necessities and, at the same time, it will alienate the civilian population from Hamas. This is an overly optimistic ambition, given that Hamas fighters are highly organised and capable of sustaining a protracted conflict. Moreover, they are militiamen willing to die and aware of the risk of military defeat. However, defeat on the battlefield could be interpreted as victory in the long term. The new martyrs who have died in battle may encourage others to emulate them.

How much danger are the Hamas hostages facing? We have seen shocking images circulating in the media…

My fears are not so much of Hamas as we knew it until a few years ago, but of the real possibility of contamination that the ISIS phenomenon, the Islamic State, has managed to spread within the jihadist world. The role of the media, on which Hamas relied in this attack – in which mostly civilian men, women, old men and children were barbarically killed – was to instil terror. The images circulating in the media are extremely vicious and this is the effect of the post-Islamic State phenomenon. The latter, which has collapsed territorially, has in fact taken root in the new jihadist movements that have recruited the young generations.

Attacco a Israele. Bertolotti (Ispi): “Con invasione Israele vuole agire in modo deciso e violento”

Mer, 11/10/2023 - 09:40

In una Gaza cinta d’assedio, senza luce, acqua, cibo e carburante, proseguono i bombardamenti israeliani. Centinaia le infrastrutture militari di Hamas colpite dai jet con la Stella di David, mentre ai confini dell’enclave palestinese si ammassano truppe e mezzi pronti a dare vita all’invasione di terra. Israele ha richiamato 300 mila riservisti. È dal 2014 che l’Esercito israeliano non entra nella Striscia – 365kmq. abitata da 2,3 milioni di persone – la cui popolazione è fiaccata dal 2007 da un embargo israeliano e dal duro regime di Hamas. A guardare i numeri e le forze in campo sembrerebbe uno scontro dall’esito segnato, ma non mancano le incognite. L’esercito di Israele vanta un grande vantaggio numerico, una tecnologia militare altamente sviluppata associata a provate capacità logistiche. Hamas, dalla sua, ha una elevata capacità di muoversi e combattere in un ambiente urbano densamente popolato come è la Striscia, e di organizzare al meglio la propria difesa grazie a missili e mine anticarro, mortai e mitragliatrici in dotazione. Senza dimenticare la fitta rete di tunnel che attraversa la Striscia e che consente ai terroristi di Hamas di muoversi liberamente al suo interno. Inoltre le campagne militari israeliane di questi ultimi anni (2008, 2012, 2014 e 2021) hanno permesso ai leader del movimento islamico di studiare a fondo il nemico e le sue tattiche.

Claudio Bertolotti

Entrare a Gaza sarà un massacro per i due contendenti, e a farne le spese saranno anche la popolazione civile e i circa 200 ostaggi, israeliani e non, nelle mani di Hamas. Di questa offensiva ne abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, esperto dell’Ispi e direttore di Start InSight, Strategic Analysts and Research Team, (http://www.startinsight.eu).

Si parla sempre più con insistenza di un’invasione terrestre di Gaza da parte di Israele. Quali sono le opzioni sul campo?
Tecnicamente si deve parlare di ‘operazione offensiva’ che può essere caratterizzata da dinamiche ed esiti diversi. Da un lato potremmo assistere ad un’operazione con unità militari ridotte, sostenute dal fuoco terrestre, come carri armati, artiglieria, forze aeree e droni. Parliamo di un’azione ‘puntiforme’ volta a colpire e sanzionare target predesignati di Hamas. È un’operazione che non prevede una permanenza di lungo periodo all’interno della Striscia di Gaza. A mio parere si tratta di un’ipotesi possibile ma poco probabile.

Più praticabile l’uso massiccio di truppe?
L’impiego di una grande massa di militari per distruggere e contrastare l’operazione contro-insurrezionale di Hamas, condotta su diverse linee difensive quando Israele invaderà Gaza, rappresenta un’ipotesi più probabile. Va anche detto che Hamas in questi anni si è riorganizzato dal punto di vista delle strutture di difesa. Basti pensare alla fitta rete di tunnel consolidati, ben studiati a livello ingegneristico e capaci di garantire comunicazioni e spostamenti veloci al loro interno. Questo sarà molto pericoloso e per Israele comporterà l’uso della fanteria più adatta, rispetto ai mezzi corazzati, a contrastare Hamas. Il problema potrebbe essere la permanenza sul lungo periodo che provocherà una reazione superiore a quella di un’operazione di breve respiro, con il rischio di un aumento di perdite da parte israeliana, di Hamas, dei suoi alleati della Jihad islamica e della popolazione civile.

(Foto ANSA/SIR)

C’è uno scenario militare assolutamente da evitare per Israele?
Quello che prevede l’ampio uso di forze di manovra, quindi carri armati, non solo a supporto ma anche in prossimità, se non addirittura all’interno delle aree urbane. È l’ultimo degli scenari auspicabili per un pianificatore militare perché i mezzi corazzati in aree urbane potrebbero essere scarsamente efficaci e più vulnerabili avendo una stazza notevole e capacità di manovra molto limitata.

Quanto tempo può richiedere pianificare un’operazione militare del genere?
Molto tempo. Come dicevo poco fa, in fase di pianificazione operativa, si cerca di evitare il combattimento nei centri abitati, perché richiede tempo, perché prevede un alto tributo di vite umane e perché comprende il rischio di perdere e di sottoutilizzare veicoli corazzati ad alta tecnologia ed elevato costo.

Israele ha richiamato 300mila riservisti: a quali compiti potranno essere destinati in questa guerra?
L’esercito israeliano è formato da una componente professionale ed una di leva. Si tratta di una milizia di popolo. I professionisti sono impiegati in prima linea con compiti ad alta specializzazione. Il combattimento nei centri abitati, come nel caso di Gaza, è una competenza di reparti professionali con un addestramento di medio alto livello. Non parliamo solo di reparti speciali o di èlite. Si tratta di soldati che, in team di 6/8 persone, ‘bonificano’ un edificio. I militari di leva sono impiegati per garantire la cornice di sicurezza di basi e accampamenti militari e per dare supporto al combattimento, quindi l’artiglieria, i mortai, la logistica, le comunicazioni. È verosimile che nelle prime fasi dell’invasione verranno utilizzati reparti professionali.

Come potrebbe reagire la popolazione civile di Gaza davanti all’invasione israeliana?
I gazawi che se ne andranno via dalla Striscia, potendolo fare, hanno già deciso di non essere coinvolti in un conflitto ad alto rischio. Chi resterà sarà o per scelta o per necessità. Queste persone potrebbero garantire un appoggio morale e materiale ai combattenti di Hamas che non sono tantissimi, forse 25mila.

(Foto ANSA/SIR)

La decisione israeliana di cingere di assedio Gaza, tagliando del tutto luce, acqua, cibo e carburante, è più emotiva o razionale? E in che modo prepara l’invasione militare?
Credo si tratti di una scelta razionale. Israele vuole agire senza usare il guanto di velluto e in modo deciso e esplicitamente violento. Con due effetti: limitare l’accesso ai beni primari dei combattenti e nel contempo allontanare la popolazione civile da Hamas. Un’ambizione troppo ottimistica considerando che i combattenti di Hamas sono molto organizzati e in grado di sostenere un conflitto di lunga durata. A ciò si aggiunga che sono miliziani votati alla morte e consapevoli del rischio di una sconfitta militare. Una sconfitta sul campo di battaglia, però, che nel lungo periodo potrebbe essere letta come una vittoria. I nuovi martiri caduti combattendo potrebbero spingere altri ad emularli.

Quanto rischiano gli ostaggi in mano ad Hamas? Le immagini che circolano nei media sono cruente…
Il mio timore non è legato tanto ad Hamas per come lo abbiamo conosciuto fino a qualche anno fa quanto per il rischio effettivo di contaminazione che il fenomeno Isis, Stato Islamico, è riuscito a diffondere all’interno della galassia jihadista. Il ruolo giocato dai media, sui cui Hamas ha fatto leva in questo attacco – nel quale sono stati barbaramente uccisi uomini, donne, vecchi e bambini, prevalentemente civili – è stato quello di incutere terrore. Le immagini che circolano nei media sono molto cruente e questo è l’effetto del fenomeno post Stato Islamico. Quest’ultimo, crollato territorialmente, di fatto ha radicato le sue spore dentro i nuovi movimenti jihadisti nei quali militano nuove generazioni.

Attacco a Israele: la telefonata del Papa al parroco di Gaza. Testimonianze tra paura e preghiera

Mar, 10/10/2023 - 15:15

Sono oltre 200 gli obiettivi colpiti nella notte dalle Forze di Difesa Israeliane (Idf) nella Striscia di Gaza dove continuano i bombardamenti, soprattutto nelle zone di Rimal e Khan Yunis. Al quarto giorno di guerra fra Hamas e Israele si aggiorna drammaticamente il bilancio dei morti e feriti: in Israele sono più di 900 e i feriti 2.600. I morti palestinesi nella Striscia ammontano a 687, tra cui 140 bambini. Sono 3.726 i feriti, secondo l’ultimo conteggio del Ministero della Salute gazawo. Attualmente Gaza è sotto assedio, considerato “illegittimo” dall’Onu, deciso da Israele che ha interrotto le forniture di elettricità, cibo e carburante, in ritorsione all’attacco del 7 ottobre.

(Foto Vatican Media/SIR)

La telefonata del Papa. Nella Striscia vive una piccola comunità cristiana, poco più di 1000 fedeli (su 2,3 milioni di abitanti di fede islamica, ndr.), dei quali solo un centinaio cattolici. Ad essa è giunta la vicinanza spirituale di Papa Francesco, come rivela al Sir, lo stesso parroco dell’unica parrocchia latina di Gaza, padre Gabriel Romanelli: “Ieri ho parlato con Papa Francesco che mi ha manifestato la sua vicinanza e la sua preghiera per tutta la comunità ecclesiale di Gaza e per tutti i parrocchiani e abitanti”. Il religioso, di origine argentina, attualmente è bloccato a Betlemme, in attesa di fare rientro presso la sua parrocchia, dedicata alla Sacra Famiglia. “Ho ringraziato il Pontefice per il suo appello alla pace in Israele e in Palestina di domenica scorsa all’Angelus – ha aggiunto il parroco -. Papa Francesco ha impartito la sua benedizione perché tutti sentano la sua vicinanza”. La piccola comunità cattolica intanto da sabato 7, giorno dell’attacco, si ritrova tutte le sere a pregare il Rosario per la Pace: “i fedeli si radunano in chiesa per la Messa e poi davanti al Santissimo pregano il Rosario. Per i bambini abbiamo pensato ad un piccolo oratorio, con la speranza di donare qualche momento di serenità in una situazione che si profila sempre più drammatica”. La possibile invasione terrestre annunciata da Israele, conclude il parroco, “sarebbe una carneficina. Combattere casa per casa, in un ambiente densamente popolato, avrebbe effetti devastanti su ambedue i contendenti”. Attualmente la parrocchia ospita 130 rifugiati e altri sono ospitati in strutture parrocchiali limitrofe.

Tra paura e preghiera. A parlare al Sir, ma da Gaza, è suor Nabila Saleh, direttrice della locale “Rosary’s Sisters School” che conferma le parole del parroco. “La situazione è molto grave, come mai accaduto fino ad oggi. Nella notte appena trascorsa i rombi degli aerei e gli scoppi delle bombe sono stati infernali. Abbiamo paura e non sappiamo cosa fare. Pregate per noi, pregate per la pace”: è la drammatica testimonianza della religiosa. “La nostra scuola – racconta – si trova in una zona colpita dalle bombe. Un palazzo poco distante è stato abbattuto dalle bombe israeliane e lo spostamento d’aria ha provocato lievi danni alle vetrate della nostra struttura. Le lezioni sono ferme e i nostri studenti sono tutti a casa. È impossibile e altamente pericoloso uscire fuori in strada” come dimostra la strage al mercato di Jabalia, nel nord della Striscia, provocata dai raid israeliani. Oltre 50 morti civili. Nonostante ciò la direttrice della scuola sta mantenendo i contatti con le famiglie degli studenti, sperse nella Striscia. “Cerchiamo di stare loro vicino in qualche modo – spiega – e ascoltiamo le loro testimonianze che parlano di quartieri distrutti, di macerie ovunque. Molte di queste famiglie hanno avuto le case demolite o danneggiate e per questo hanno trovato rifugio nelle scuole dell’Onu. Tra loro anche diversi cristiani”.

Suor Nabila Saleh con gli alunni (Foto Gaza Rosary’s school)

Sotto assedio. L’assedio deciso da Israele preoccupa non poco la religiosa perché, dice, “andrà ad aggravare in maniera definitiva le già drammatiche condizioni di vita della popolazione gazawa. Senza acqua, luce e carburante come si fa ad andare avanti? L’assedio comincia a far sentire i suoi effetti sulla popolazione. Qui nella scuola – spiega – riusciamo ad avere qualche ora di energia elettrica grazie ai pannelli solari e cerchiamo di andare avanti come possiamo e di aiutare come possibile”. Ma la paura più grande adesso, aggiunge suor Nabila, “non sono più le bombe dal cielo ma l’ingresso dei carri armati dentro Gaza”. La religiosa non esita a parlare di “disastro inimmaginabile, una strage di vite umane da tutte le parti”. E conclude: “Non possiamo fare altro che pregare per chi ha in mano le sorti della guerra, Dio illumini le loro menti. Pregate per noi, il momento è tragico”.

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/10/IsraeleGazaGuerraVideo_10102023.mp4

Attack on Israel: Pope’s phone call to a priest in Gaza. Testimonies amid fears and prayers

Mar, 10/10/2023 - 15:15

The Israeli Defence Forces (IDF) struck more than 200 targets last night in the Gaza Strip, where shelling continues, especially in the Rimal and Khan Yunis districts. On the fourth day of the war between Hamas and Israel, the number of victims has tragically risen, with more than 900 dead and 2,600 wounded in Israel. The Palestinian death toll in the Strip stands at 687, including 140 children. According to the latest count by the Gaza Ministry of Health, 3,726 people have been wounded. Gaza is currently under what the UN calls an ‘illegitimate’ siege imposed by Israel, which has cut electricity, food and fuel supplies in retaliation for the 7 October attack.

The Pope’s phone call. There is a small Christian community in the Strip, just over 1,000 believers (out of a Muslim population of 2.3 million), only about 100 of whom are Catholics. Pope Francis has expressed his spiritual closeness to them, Father Gabriel Romanelli, the priest of the only Catholic parish in Gaza, told SIR: “I spoke with Pope Francis yesterday, he offered his closeness and his prayers for the entire ecclesial community of Gaza and for all the parishioners and residents.” The Argentinian-born priest is currently stranded in Bethlehem, waiting to return to his parish devoted to the Holy Family. “I thanked the Pope for his appeal for peace in Israel and Palestine during the Angelus last Sunday,” the priest said, adding, “Pope Francis imparted his blessing so that everyone could feel his closeness.” The small Catholic community has met every evening since Saturday 7, the day of the attack, to pray the Rosary for peace: “The faithful gather for Holy Mass and then pray the Rosary before the Blessed Sacrament. In the hope of offering a few moments of peace in the face of an increasingly dramatic scenario, we have prepared a small oratory for the children.” The possibility of a ground invasion announced by Israel, the priest concluded, “would be a massacre. Fighting door to door in a densely populated area would have devastating consequences for both sides.” The parish is currently sheltering 130 refugees, with others staying in neighbouring parish facilities.

Amidst fears and prayer. Speaking to SIR from Gaza, Sister Nabila Saleh, Director of the local “Rosary’s Sisters School”, confirmed what the parish priest said. “The situation is extremely serious, like never before. Last night we heard the hellish roar of planes and exploding bombs. We are scared and don’t know what to do. Pray for us, pray for peace,” was the nun’s dramatic testimony. “Our school,” she said, “is located in an area that was hit by the bombs. A nearby building was torn down by Israeli bombs and the explosion caused some minor damage to the windows of our school building. All classes have been suspended and our students are all at home. Going out on the streets is impossible and extremely dangerous”, as happened in the Jabalia market massacre in the north of the Strip, caused by Israeli raids. More than 50 civilians died. Despite this, the school’s director keeps in touch with the students’ families, who are scattered across the Strip. “We try to remain close to them in some way,” she says, “and we listen to their testimonies of destroyed neighbourhoods, of rubble scattered everywhere. Many of these families’ homes were destroyed or damaged and they sheltered in UN schools. Some of them are Christians.”

Under siege. The siege imposed by Israel is of great concern to the nun because, she says, “it will definitely aggravate the dramatic living conditions of the people of Gaza. How can anyone survive without water, light and fuel? The siege is beginning to take its toll on the population. Here at the school,” she says, “we manage to have a few hours of electricity thanks to solar panels. We try to carry on as best we can and help as much as we can. The biggest fear now, adds Sister Nabila, “is no longer the bombs falling from the sky, but the tanks entering Gaza.” The nun does not hesitate to speak of an “unimaginable catastrophe, a massacre of human lives on both sides.” She concludes: “All we can do is pray for those who hold the fate of the war in their hands. May God enlighten their minds. Pray for us, this is a dramatic moment.”

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/10/IsraeleGazaGuerraVideo_10102023.mp4

Salute mentale. Sip: “I disturbi psichici sono la pandemia del futuro, ma in Italia diminuiscono Dsm e psichiatri”

Mar, 10/10/2023 - 11:15

Una nuova pandemia, accelerata dal Covid-19 ma che rischia di diventare più insidiosa. A lanciare l’allarme, in occasione della Giornata mondiale della salute mentale che ricorre oggi, è la Società italiana di psichiatria (Sip) che quest’anno compie 150 anni: in tre anni le diagnosi di disturbi mentali sono aumentate del 30%, soprattutto tra i giovanissimi e le fasce di popolazione più fragili, e stanno per superare quelle legate alle   patologie cardiovascolari, spiegano gli psichiatri. Numeri che valgono in Italia il 4% del Pil tra spese dirette e indirette. Senza contare la diminuzione dell’aspettativa di vita di 10 anni.

Giovani e pandemia della mente. A pagare “il prezzo più alto alla pandemia di Covid-19 sono i giovani”, ha spiegato Emi Bondi, presidente Sip e direttore del Dsm dell’Ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo, intervenuta all’incontro promosso ieri presso la Sala Isma del Senato in occasione dei 150 anni di fondazione della società scientifica e alla vigilia della Giornata odierna. “L’isolamento e la rottura con il mondo reale e la società nelle sue più diverse componenti hanno contribuito all’aumento delle dipendenze da sostanze ma, soprattutto, da tecnologia, e oggi si stimano

almeno 700 mila adolescenti dipendenti da web, social e videogiochi.

Altri ancora sono vittime di ansia e depressione, anche queste in costante aumento”.

A rischio anche donne, anziani e ceti sociali svantaggiati. “Dopo la pandemia – le ha fatto eco Claudio Mencacci, presidente onorario Sip, direttore emerito del dipartimento di Neuroscienze, ospedale Fatebenefratelli-Sacco di Milano – i sintomi depressivi nella popolazione generale sono quintuplicati e oggi si stima che li manifesti circa una persona su tre, tanto che si ipotizzano fino a 150 mila casi di depressione maggiore in più rispetto all’atteso, con conseguenze dirette su malattie oncologiche, cardiovascolari e polmonari. A soffrire del maggior disagio mentale, oltre ai giovani, sono le categorie fragili come donne, anziani, ceti sociali più svantaggiati. Fra i disoccupati il rischio di depressione è triplo”.

La policrisi. Secondo la Sip, “è già in atto una ‘policrisi’ in cui pandemia e guerra, inflazione e turbolenze sociali stanno facendo da detonatore al disagio mentale”. Nonostante ciò, le risorse a diposizione dei Servizi di salute mentale pubblici sono in continuo calo, e sono ormai sotto il 3% del fondo sanitario nazionale, mentre l’indicazione europea è del 10% per i Paesi a più alto reddito. Diminuiti i dipartimenti di salute mentale (Dsm): dai 183 del 2015 ai 141 del 2020, mentre si stima che entro il 2025 mancheranno all’appello altri mille psichiatri a fronte di un incremento generalizzato di aggressività e violenza nei confronti di tutti gli operatori, ma soprattutto nella psichiatria, come dimostra il tragico esempio dell’omicidio di Barbara Capovani.

Tavolo tecnico e Ssn. Per la presidente Bondi, la salute mentale “deve essere un diritto per ogni cittadino e non deve più essere trascurata. Il Ssn è chiamato ad essere in prima linea per mettere in atto strategie di prevenzione e monitoraggio e per intercettare e curare il disagio mentale nelle popolazioni più fragili e a rischio”. “A questo fine il Tavolo tecnico sulla salute mentale istituito di recente al ministero della Salute – ha spiegato Giuseppe Niccolò, coordinatore vicario del Tavolo e direttore del Dsm dell’Asl Roma 5 – ha tra gli obiettivi il compito di realizzare

un nuovo piano per la salute mentale che migliori la qualità dei percorsi di prevenzione, trattamento e riabilitazione

per meglio rispondere ai bisogno di salute mentale della nostra società”.

Ricerca e prevenzione. Al lavoro del Tavolo tecnico si affianca il lavoro della ricerca, il futuro della psichiatria, grazie alla quale “sono stati fatti enormi passi avanti nella diagnosi precoce e nella prevenzione”, ha osservato Liliana Dell’Osso, co-presidente Sip e professore ordinario di psichiatria all’Università di Pisa. Tuttavia, ha avvertito, persiste uno stigma sui disturbi mentali “causa di intensa sofferenza soggettiva e di grave compromissione del funzionamento biologico e psicosociale”. Non riconoscerli, “significa rinunciare non solo alla terapia psicofarmacologica ma anche al riconoscimento di manifestazioni iniziali al fine di adottare strategie preventive, orientando il soggetto verso stili di vita protettivi e valorizzando i suoi punti di forza”.

Sadhguru e la spiritualità dell’ovvio

Mar, 10/10/2023 - 10:02

Domenica scorsa, mentre nelle chiese milanesi un numero variabile di cattolici ambrosiani intonava “Kyrie eleison” a ripetizione, ben altra liturgia si teneva in un palazzetto inzeppato di quattromila persone che, a un costo che poteva raggiungere i 900 euro a testa, si sono accalcate per ascoltare l’insegnamento dell’ormai celebre Sadhguru (letteralmente “guru ignorante”), santone induista che, cavalcando l’onda dei social, ha raggiunto una fama planetaria.

Io stesso l’avevo conosciuto incontrando sui social reel che riportano spezzoni di suoi incontri. Il sembiante di Sadhguru è quello classico: una bella barba bianca con baffi arricciati, turbante, e abiti variopinti in base alle occasioni. A parte la barba bianca, l’età è indefinibile, e denota una certa agilità fisica, di cui dà saggio in alcuni video in cui si cimenta in danze tradizionali.
Con un’espressione sorridente e un tono vivace dispensa riflessioni molto semplici ed efficaci, di carattere esistenziale ed esperienziale, che rimangono facilmente impresse perché fanno riferimento a quanto accade a tutti ogni giorno, dalla fame alla paura passando per l’alitosi.
Non mancano, per carità, scivoloni, come quando ammonisce a non mangiare melanzane o a non vestire di nero (pure, la sua analisi della natura fisica dei colori è semplice e accattivante); in quanto dice si può trovare di solito ben poco da contestare, come non lo si troverebbe in chi ci parlasse degli effetti salutari dell’aria marina o dell’importanza di andare a letto presto. Lungi da lui discorsi veementi e fanatici come quelli che fanno tanti suoi correligionari assetati di sangue islamico o cristiano; no no, per carità: Sadhguru deve poter andare bene a tutti, e fa un vanto di non avere mai studiato i testi sacri dell’Induismo – da qui il suo nome di “guru ignorante”, che riempie stadi e auditorium di persone pronte ad ascoltarlo.

Un giorno, confrontandomi oziosamente su questo personaggio con alcuni giovani che formo nei percorsi spirituali che ho avviato da qualche anno, siamo tutti giunti alla conclusione che un prete che dicesse cose simili non riscuoterebbe altrettanto successo, e questo per due motivi. Il primo, è che un prete non farebbe pagare, e le cose gratis vengono sempre prese sottogamba; il secondo, è che un prete, per quanto carismatico e convincente si dovrebbe scontrare contro una barriera pregiudiziale di pregiudizio e critica, se non avversione già solo per la veste che indossa. Penso con empatia e pena a quei preti, spesso giovani, che provando a ottenere visibilità sui social più recenti sono stati poi messi alla berlina dalla celebrità di turno, o hanno visto i loro contenuti, pure estremamente validi, ridicolizzati fino alla blasfemia in parodie irriverenti.
Questa non è l’epoca dei preti in pubblico: basti pensare a come anche nelle pubblicità dell’Otto per mille ormai s’inquadrano quasi sempre solo “laici impegnati”. I preti devono lavorare nelle retrovie e formare la gente. Il mondo non vede di buon occhio i preti e forse a ragione, direi. Anzitutto perché un prete, contrariamente a un pittoresco guru da salotto, provoca già con la sua sola esistenza a pensare a una “realtà altra”, in cui le libere scelte di ognuno sono determinanti per l’eternità; il guru invece ti ricorda quella figura paterna, amica, cui confidare i casini che hai combinato e con cui magari prendere una birra facendoci una risata. Il prete, se fa il prete, rievoca il padre che hai in casa, con tutta la portata conflittuale eppure vitale del rapporto che hai con lui dalla tua nascita: non il padre smagliante ed etereo, ma quello vero, magari un po’ imbrutito dagli anni e dalle fatiche, che sai che ti ascolta ma al quale non sai se vuoi davvero parlare.

Sadhguru, prima collezionista e venditore di motociclette e ora di saggezza quotidiana, attrae tanta gente perché, pur essendo completamente integrato nella concezione religiosa induista, assai di rado, e solo quasi di sfuggita, pone in questi video temi religiosi, preferendo argomenti come la contestazione del proprio io ideale, l’analisi lucida dei propri bisogni, l’accettazione del vuoto senza compromessi con i riempitivi, ecc. Proprio questa è la sua forza: il messaggio di Sadhguru è estremamente vendibile, perché avvicina le persone all’idea di una dimensione interiore, senza mai portarcele effettivamente, così da non costringerle a scegliere. È il profeta ideale nell’epoca in cui spesso si preferiscono gli animali ai bambini, perché non fa appello alla risposta personale e responsabile della coscienza, ma lascia ai suoi uditori l’idea di avere perlustrato le regioni dello spirito senza che abbiano a rinunciare al proprio assetto fondamentale. Risponde alla sete di trascendenza con una bevanda dolce e frizzante, gradevole e non troppo nutriente (o indigesta).

Al di là di una sapienziale diffidenza verso un simile modello, che in ultima analisi lascia l’uomo in balia di se stesso senza poterlo salvare dalla peccato e dalla morte, come Chiesa non possiamo non ammettere che il nostro approccio all’annuncio spesso è sbagliato in radice, partendo dalla presunzione di una comprensione da parte degli altri che molto semplicemente non esiste più. Dimenticando dove sta effettivamente l’uomo di oggi, frullato da consumi e pandemie, non di rado gli sbattiamo il kerygma in faccia in modo spocchioso, e chiamiamo parresia l’arroganza di chi non considera seriamente il suo interlocutore.
Sembriamo esserci dimenticati delle considerazioni di san Paolo: “Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali.” (1 Cor 3, 1-3).
Per portare le persone a incontrare non un guru qualsiasi e i suoi feticci, ma il Cristo vivente, dobbiamo avere l’umiltà di ripartire anche noi ogni volta dalla somministrazione del “latte”, ovvero accettare che l’educazione al Vangelo richiede un grande lavoro sulle premesse umane, che parta dalle domande della gente, e non dalle risposte in cui noi ci sentiamo sicuri. Dobbiamo accettare la “kenosi” di una sapienza feriale, che riguardi l’uomo della strada e le sue inquietudini, certi che sotto l’azione dello Spirito, e con tanta pazienza, potremo far fiorire, con l’aiuto di Dio, tutto questo in una solida adesione alla vera fede. L’uomo d’oggi va portato alla luce passando per una graduale serie di penombre, perché è troppo, troppo spaventato dalla luce per esporvisi subito volentieri. Quelle penombre che per un Sadhguru sono il contenuto e il capolinea del discorso, per noi possono essere un punto di partenza e un mezzo.

Simili considerazioni mi hanno spinto anni orsono a strutturare un percorso, il cui fine è la formazione dei giovani al discernimento spirituale, come un quinquennio di cui ben due anni, i primi due, trattano prevalentemente della dimensione umana, autobiografica, esperienziale dei ragazzi, e solo a partire dal terzo anno, man mano e gradualmente, li si avvicina alla dimensione più prettamente spirituale ed ecclesiale. In questo modo lo Spirito Santo ci ha guidato e aiutato anche a strutturare proposte di vita comunitaria, percorsi di discernimento al sacerdozio e a donare a tanti ragazzi e ragazze vite più belle, dai colori vivaci. Partire “dal basso”, dall’uomo, significa incontrare le persone dove si trovano effettivamente (anche quelle che si dicono credenti), e solo se le incontriamo possiamo invitarle a camminare con noi fino a Cristo.

Sinodo e disabilità. Rita Minischetti (referente Cei): “Nella Chiesa tutti devono poter fare quello che possono”

Mar, 10/10/2023 - 10:02

“Sono molto emozionata di avere intorno a me tante persone da tutto il mondo”. Rita Minischetti è la referente delle persone con disabilità della Cei al Sinodo dei Vescovi. Quarantuno anni compiuti da poco, animatrice, ballerina, sportiva, cantante e prossima catechista, Rita è chiamata a un compito importante: quello di dare voce alle tante persone con disabilità che auspicano un cambiamento nella Chiesa. “Sono attenta a come si comportano le persone e in particolare i ragazzi con qualche difficoltà, soprattutto quando partecipano alla messa. Quando sto in chiesa – racconta Rita, che è nata con la sindrome di Down – mi sento parte di qualcosa di più grande, qualcosa che mi fa stare bene.

C’è un bambino autistico, ad esempio, che sale sull’altare per leggere le preghiere o la Bibbia. Prima non ci riusciva, adesso sì. A volte sbaglia qualcosa, ma è una gioia per tutti noi”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

La chiesa di cui Rita parla è la parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, nel quartiere romano dell’Ardeatino, guidata da don Luigi D’Errico, che da pochi mesi è stato nominato anche responsabile del Servizio diocesano per la pastorale delle persone con disabilità del Vicariato di Roma. E avrebbe anche diritto ad essere chiamato con il titolo di monsignore, ma non vuole sentirne parlare: “Lo Spirito Santo possa davvero guidare tutte le persone che si riuniranno a Roma. Rita ha le idee chiare, se ascoltassero lei tante situazioni cambierebbero. Ha la gioia di fare le cose…”. E Rita ha davvero le idee chiare: “Tutti si sentono contenti nel poter fare quello che gli piace. E hanno diritto di farlo. Tutti”. Nel campo di basket della parrocchia, Rita si allena con ragazze e ragazzi di ogni età e condizione, perché ai Santi Martiri dell’Uganda funziona così: tutti entrano e tutti condividono, non ci sono categorie o differenze. Niente oratorio per persone con disabilità, catechesi per bambini diversi. Si sta insieme per come si è. Anche a messa, quando la domenica capita che un giovane con problemi del neuro sviluppo serva all’altare o la piccola Benedetta giri tra i banchi durante la celebrazione e si soffermi ad accarezzare i fiori:

“A poco a poco sta imparando i tempi della liturgia e la fatica delle relazioni – spiega don Luigi –, come tutti i nostri ragazzi. Abbiamo scelto di spalancare le porte, di far entrare le persone. Non i normodotati o i disabili, che poi vai a capire la differenza. Dobbiamo riformare davvero la Chiesa per riformare la società. I quartieri popolari sono sempre meno credenti, le periferie sono abbandonate. I poveri fanno la storia, i padroni la raccontano. Per questo c’è bisogno della nostra presenza”.

Rita fa anche parte del coro parrocchiale, che dal 2015 anima le celebrazioni eucaristiche ma partecipa anche a concerti e rassegne sonore. È un coro particolare: aperto a tutti, anche a chi non è perfettamente intonato, vince premi ogni anno per la qualità delle sue esibizioni. “Mi piace tanto cantare e stare tra amici. Del coro fanno parte persone di tutte le età, dai bambini agli anziani. Ho ritirato uno dei premi dalle mani di mons. Marco Frisina, sono stata contenta per tutti noi”. Tantissimi i nomi e i volti di amici e conoscenti che la memoria perfetta di Rita conserva con cura. Come quello di Stefano, un ragazzone grande e grosso che quando si arrabbia spacca tutto. Ma in compagnia di Rita si calma, è ragionevole e tranquillo. Tenta sempre di sfilarle gli occhiali, è un gesto automatico: “Un po’ di paura ce l’ho, ma sto attenta. Insieme a lui sto bene. E lui è buono con me”.

Al campo estivo di luglio, Rita si è occupata di preparare la merenda per i ragazzi e di animare i giochi. Ma più di ogni altra cosa, ha un sogno nel cassetto: lavorare come barista. Con una pedana dietro al banco, per poter servire i clienti a un’altezza giusta, e tanta voglia di darsi da fare. Un sogno che potrebbe trasformarsi in realtà, se il progetto portato avanti da don Luigi alla Falcognana (frazione di Roma) riuscirà a prendere forma: “È un luogo inclusivo. Ci sarà uno spazio per il Dopo di noi, la possibilità di fare impresa sociale con gli animali, una struttura che ospiterà delle religiose. Un luogo aperto, che Roma non ha. Finora non abbiamo avuto finanziamenti, e stiamo facendo tutto di tasca nostra. Le persone stanno già venendo e l’aspettativa è grande. Voglio che tutti stiano insieme, senza distinzioni. Il Dopo di noi avrà i suoi locali, ma accanto ci saranno le persone che vogliono soggiornare a Roma qualche notte o gli scout che allestiscono un campo. I ragazzi possono venire per una festa o per trascorrere un fine settimana.

La Chiesa deve mostrare che ognuno di noi può fare una cosa buona per gli altri. Senza dividere”.

“Vorrei che tutti potessero fare tutto nella Chiesa, che ognuno potesse fare quello che può e che vuole. È bello come organizza la via don Luigi, dovrebbe essere così anche altrove”, conclude Rita con un sorriso, mentre don Luigi ricorda una foto di don Lorenzo Milani che cammina per mano con Marcellino: “Non parlava, tutti credevano fosse ritardato e irrecuperabile. Marcellino amava le arance, ma don Milani non gliele dava. Amici e parenti lo invitavano a farlo, ma lui niente. E gli diceva: ‘Io ti voglio più bene di tutti, perché voglio che tu vai avanti’. E l’arancia un giorno gliela chiese. È l’unico bambino in foto che don Milani prendeva per mano. Questa è la Chiesa”.

Salute mentale. Disagio psicologico per 6 italiani su 10. Boom di psicofarmaci tra gli adolescenti

Mar, 10/10/2023 - 09:42

Il 60,1% degli italiani convive da anni con uno o più disturbi della sfera psicologica. Ne soffrono di più le donne (65%) e i giovani della Generazione Z (75%, con punte addirittura dell’81% tra le ragazze). A scattare la fotografia è l’Inc Non Profit Lab, il laboratorio dedicato al Terzo Settore di Inc – PR Agency Content First, attraverso la ricerca “L’era del disagio” – 1001 interviste ad un campione di 18-75enni residenti in Italia rappresentativo della popolazione italiana – realizzata in collaborazione con AstraRicerche e diverse Organizzazioni non profit (Onp) con il patrocinio di Rai per la sostenibilità-Esg, e presentata il 9 ottobre presso la sede Rai di Viale Mazzini alla vigilia della Giornata mondiale della salute mentale (10 ottobre).

foto INC PR Agency

La tendenza al “fai da te”. Tra i problemi più ricorrenti disturbi del sonno (32%), forme d’ansia (31,9%), stati di apatia (15%), attacchi di panico (12,3%), depressione (11,5%) e disturbi dell’alimentazione (8,2%);

un disagio cui gli italiani reagiscono con un preoccupante “fai da te” escludendo medici e specialisti.

Alcuni hanno cercato le risorse in sé stessi o hanno ricevuto aiuto da amici e parenti; il 27,6% ha assunto farmaci senza prescrizione; solo il 22,9% si è rivolto al medico generico e il 22,1% ad uno specialista.

Guerra, povertà, inflazione, crisi climatica, emergenze sanitarie le cause del malessere indicate dal 35,1% del campione. A seguire difficoltà a relazionarsi con il mondo, soprattutto per i giovani della Generazione Z; insoddisfazione per i propri percorsi professionali (22,4%) e reazione a pressioni sociali troppo forti su obiettivi scolastici o sportivi (22,3%); stress da lavoro troppo pervasivo o da disoccupazione se non si riesce a trovarlo (46,5%); bullismo e violenza fisica e verbale (42,1%); dipendenza da tecnologie e social media (35,6%); timore di abusi sessuali e violenza di genere (31,1%); mancanza di accesso a servizi sanitari di tipo psicologico e psichiatrico (30,6%); forme di discriminazione quali razzismo, omofobia e sessismo (28%).

foto INC PR Agency

Un malessere che viene da lontano. Il Covid-19 “ha creato la ‘tempesta perfetta’ per far esplodere un male oscuro che covava da decenni”, afferma il vicepresidente di Inc, Paolo Mattei, secondo il quale “sarebbe sbagliato cercare di risolvere la complessità del fenomeno scaricandone la responsabilità su un fattore imprevedibile ed eccezionale come la pandemia”. “I mali della nostra società” rimandano a “cause di tipo culturale e sociale” che, solo “analizzate e comprese, potranno essere efficacemente affrontate a livello collettivo”. Ed anche una buona comunicazione può fare la sua parte: “Tutti noi comunicatori – media, influencer, Onp, società di consulenza come la nostra – osserva il presidente di Inc Pasquale De Palma – siamo chiamati a contribuire a una narrazione del disagio più attenta e più efficace, perché a volte, se non spesso, il modo in cui il disagio viene comunicato non aiuta”.

Teenager e psicofarmaci. Nel nostro Paese, rivela ancora la ricerca,

il 10,8% dei ragazzi tra 15 e 24 anni assume psicofarmaci senza prescrizione medica.

Una percentuale quasi raddoppiata rispetto al 6,2% del 2021 certificato dall’Istat. Perché lo fanno? “Per dormire, per dimagrire, per essere più performanti negli studi”, si legge nell’indagine secondo la quale tra gli studenti la percentuale di chi cerca un “aiutino” negli psicofarmaci sale fino a oltre il 18% del totale. Una generazione che “su Tik Tok pubblica voti e classifiche sulla ‘efficacia’ dei medicinali, parlando senza remore del proprio disagio psicologico davanti a milioni di estranei”.

Stefano Gheno – foto INC PR Agency

Alimentare il desiderio. Questa fragilità, sottolinea lo psicologo Stefano Gheno, presidente di Cdo Opere sociali e membro effettivo del Consiglio nazionale del Terzo Settore, è la

reazione ad un tempo d’incertezza strutturale che produce deficit di speranza e di desiderio,

carburante indispensabile ad alimentare una possibilità di cambiamento vissuta non come sciagura, ma come opportunità”. “Senza desiderio non c’è energia”; per questo, afferma, occorre “assumere un nuovo punto di vista, fondato sul guardare e ascoltare la realtà di oggi, ponendoci di fronte ad essa in un atteggiamento di domanda, rischiando ipotesi di lavoro da verificare in modo sperimentale” senza “paura di sbagliare”.

Un servizio pubblico attrattivo per i giovani. Sul tema della comunicazione ritorna Roberto Natale, direttore di Rai Per la Sostenibilità-Esg: “Attrarre il pubblico giovane, in particolare con l’online e i social; ampliare l’offerta informativa sui disturbi alimentari, contrastare bullismo e cyberbullismo. In materia di giovani il Contratto di servizio in dirittura d’arrivo assegna alla Rai numerosi compiti”: di qui il richiamo a programmi degli ultimi anni su su RaiPlay e RaiPlay Sound che hanno dato la parola a ragazzi e ragazze, “soggetti titolati a parlare”. Storie – conclude Natale – “che nella loro necessaria durezza vanno verso quella ‘corretta narrazione’ che il Terzo settore chiede al mondo dei media”.

La voce del terzo Settore. Per arginare il disagio psicologico crescente servono politiche adeguate di supporto sociale (80%), fondi adeguati (63%), maggiore attenzione istituzionale sul tema (60%) e l’aiuto dei media per continuare a tenere alta la guardia sull’argomento (45%). Questo, in estrema sintesi, il parere espresso da una quarantina di Organizzazioni non profit (Onp) attive sul campo, contenuto nella ricerca. Il 70% di queste Onp – tra cui Actionaid, Caritas, CdO Opere sociali, Serafico di Assisi, Save the Children, Terre des hommes – ha aumentato i propri servizi per fronteggiare l’emergenza, ma solo il 43% degli enti ha avuto fondi pubblici e appena il 3% li ha ritenuti adeguati alle proprie esigenze. Anche sul fronte degli interventi si riscontra un senso di limitazione e impotenza: il 43% ha offerto sportelli di assistenza psicologica (gratis o a prezzo ridotto), sensibilizzazione sulle persone in generale (28%) e informazione mirata su chi soffre di problemi psicologici (25%). Attivati numeri vedi e siti internet di assistenza (20%) e creati team di sostegno nelle scuole (15%). Tutto il possibile, ma “evidentemente non è ancora abbastanza per un tema che non può essere risolto al di fuori delle dinamiche di prevenzione, assistenza e cura offerte dallo Stato”, concludono le Onp.

 

Pagine