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Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 4 mesi 1 settimana fa

Formazione professionale. Before You Go, per una migrazione consapevole e regolare

Ven, 06/10/2023 - 09:59

Mentre l’Europa si organizza per fermare l’immigrazione clandestina, c’è chi, attraverso vie legali, riesce a trovare lavoro e riscatto lontano della propria terra. Parliamo di Ismail, Anis e Abdelhamid, tre ragazzi tunisini giunti regolarmente in Italia a fine luglio per lavorare in una impresa edile di Spoleto, in provincia di Perugia. Si tratta dei primi giovani arrivati nel nostro Paese grazie al progetto BeforeYouGo, programma di formazione professionale e civico-linguistica lanciato nel 2021 da Tamat, organizzazione non governativa da 30 anni attiva a Perugia. Il progetto, finanziato dall’Ue, è stato attivato in sei Paesi (Albania, Costa d’Avorio, Mali, Marocco, Senegal, Tunisia) e punta a favorire una migrazione consapevole e regolare. “Le persone intenzionate a migrare vengono formate in precedenza e preparate all’ingresso in Italia”, spiega Nadia Zangarelli, responsabile del progetto che in Tunisia ha visto la collaborazione del Cesf (Centro edile per la sicurezza e la formazione) di Perugia, che si occupa di formazione e sicurezza per l’edilizia. Grazie a questa collaborazione sono state individuate delle imprese umbre interessate ad assumere 14 tunisini formati nell’ambito del progetto, tra cui appunto Ismail, Anis e Abdelhamid. Per loro il percorso è iniziato nel 2021 in Tunisia, dove hanno partecipato ai corsi di formazione che gli hanno permesso di essere inseriti nelle liste di prelazione del Decreto Flussi (mille le quote riservate a personale formato all’estero su occupazioni specifiche). Una volta arrivati in Italia, uno di loro ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato, mentre gli altri due un contratto di apprendistato. “I ragazzi sono stati supportati nel momento del match con le aziende – sottolinea Zangarelli -. Cesf, in collaborazione con Tamat, ha lavorato sulla comunicazione e l’informazione nelle aziende che, una volta manifestato interesse, sono state messe in contatto con i giovani a seconda delle loro capacità e disponibilità”.

Il 23 settembre è arrivata dal Marocco anche una quarta ragazza che sta per iniziare un lavoro come assistente familiare a Rapallo (in provincia di Genova). Anche lei è stata formata da Tamat a Marrakech, suo paese d’origine, ed è stata supportata nell’accompagnamento e nell’arrivo in Italia dal partner del progetto ‘Famiglia Point’.

Come per gli altri, anche per lei ci sono delle pratiche burocratiche da compiere. “I ragazzi di BeforeYouGo arrivano in Italia con un un visto d’ingresso per motivi di lavoro – spiega la referente del progetto -, ma una volta qui, entro cinque giorni, devono inviare la domanda alla piattaforma Unilav e ottenere il codice fiscale. Successivamente, entro otto giorni dall’arrivo, devono convertire il visto d’ingresso in permesso di soggiorno per motivi lavorativi, andando allo Sportello unico dell’immigrazione della Prefettura di riferimento”.

Oltre a questi quattro ragazzi, Tamat ha accompagnato un altro giovane marocchino, formato in mediazione culturale e lingua italiana, che verrà assunto da un avvocato di Foligno. Lui però non è ancora arrivato in Italia: ha infatti ottenuto il nulla osta, ma sta ancora aspettando il visto d’ingresso. “Una volta che il datore di lavoro carica la domanda – spiega Zangarelli -, c’è un periodo d’attesa di 30 giorni per l’emissione del nulla osta da parte del Ministero. Poi bisogna attendere altri 20 giorni per la trasmissione del nulla osta all’ambasciata di riferimento, per ottenere il visto sul passaporto”.

Delle 240 persone formate da Tamat dal 2019 ad oggi, solo 14 hanno avuto il nulla osta per lavorare in Italia e solo quattro sono già nel nostro Paese. “Ci sono molti altri ragazzi formati che sono già stati scritti nelle liste di prelazione del Ministero del Lavoro che sono pronti per essere assunti – sottolinea Zangarelli -. Recentemente abbiamo trovato un imprenditore edile, residente a Roma, che ha caricato la domanda di assunzione per altre 11 persone, ma ad oggi purtroppo a livello burocratico, abbiamo un impasse, quindi solo un ragazzo ha ottenuto il nulla osta mentre per gli altri 10 stiamo aspettando la risposta da mesi”.

Il progetto Before You Go è terminato a fine settembre, ma il lavoro di Tamat e Arcs Culture solidali (coordinatrici del progetto) e degli altri enti e associazioni italiane che hanno partecipato (come Fondazione Ismu, Solidarietà e cooperazione Cipsi, Arci nazionale, Coopermondo Confcooperative, Informa Scarl, Libera Cittadinanza Ovale e Ases) prosegue e continuando a lavorare insieme per garantire a tutti i beneficiari del progetto un futuro migliore. “Abbiamo giovani formati in agroecologia, mediazione culturale e assistenza familiare che provengono da Mali, Marocco, Tunisia, Senegal e Costa d’Avorio che aspettano di poter lavorare in Italia” conclude Zangarelli -. Chiunque fosse interessato ad offrirgli un lavoro può contattare Tamat via mail (segreteria@tamat.org) chiamando alla sede di Perugia (075.5055654)”.

(Precedentemente pubblicato su La Voce)

Haiti: in attesa dell’Onu, la vita a Jérémie “zona franca”. Padre Miraglio: “Qui sui monti si sale a dorso di mulo”

Ven, 06/10/2023 - 09:47

Il mercato più vicino a Purcine, villaggio montano a sud ovest di Haiti, dista quattro ore di cammino a piedi dal centro abitato. Si vanno a vendere i prodotti della terra (soprattutto fagioli, da quando l’uragano Mattew ha distrutto le piantagioni di caffè) a dorso di mulo. Tuttavia “la zona di Jérémie è una bolla di salvezza”, una zona franca al di fuori della guerriglia tra le gang che stanno completamente distruggendo Haiti. Ce ne parla uno dei pochissimi missionari italiani rimasti in questo inferno caraibico: padre Massimo Miraglio, camilliano, da 18 anni nel Paese senza più Stato.

In arrivo i Caschi blu. A pochi giorni dall’approvazione della risoluzione n. 2699 delle Nazioni unite, che autorizza una missione multinazionale a guida keniota per “proteggere” Haiti, i missionari italiani tirano un sospiro di sollievo. Ma non abbassano la guardia. Sanno che anche le missioni dell’Onu possono fallire, come avvenuto nel 2004 con il contingente a guida brasiliana che rimase per 13 anni ma fu costretto ad ammettere la sua impotenza. “Le gang armate sono ovunque, ma non arrivano fin quassù da noi. È successo solo una volta ma erano uomini cresciuti qui a Jérémie e conoscevano bene la zona. Noi, su queste montagne di Purcine, siamo al riparo dalla guerriglia perché nessun mezzo ci può arrivare se non i muli”, precisa padre Massimo al telefono. Il collegamento a internet è intermittente e va per fasce orarie: la comunicazione con il resto del mondo è praticamente assente. A Jeremie non c’è corrente, nel villaggio non c’è acqua. L’ospedale non esiste. Si procede al buio e si beve e ci si lava grazie alla raccolta d’acqua piovana.Ma in questa oasi di bellezza e precarietà, precedentemente distrutta dalla forza brutale dell’uragano Mattew, almeno non c’è guerra. “Noi siamo in un piccolo villaggio di montagna e questa è la nostra fortuna”, commenta il camilliano.

A destra padre Massimo Miraglio (Foto M.M.)

Un altro ciclone spazzerebbe tutto. La comunità creola è resiliente, spiega il missionario, e “le persone si sono riprese dopo la devastazione climatica, ma le loro case sono fragili e, se dovesse di nuovo abbattersi su di noi un ciclone, non rimarrebbe vivo nessuno qui, neanche io”. Padre Massimo aveva chiesto lo scorso anno di fare esperienza da Jeremie, in una parrocchia dove ci fosse almeno una cappellina e l’ha trovata: “Dal 4 agosto scorso sono qui come parroco – racconta – nella chiesa della Madonna del perpetuo soccorso”. Questa comunità di 4mila anime ha adesso un pastore per la prima volta da quando è nata.

Violenze quotidiane e forza della fede. Il far west di un Paese senza Stato, completamente in balia delle gang, è una condizione quasi inevitabile. Non c’è modo di difendere le persone, nonostante si speri moltissimo in questa missione dell’Onu richiesta dal governo haitiano. C’è però senza dubbio una fede immensa e la forza della missione può fare la differenza qui. “La parrocchia è un punto di riferimento, il centro di tutto: dovete pensare che qui si vive come tra i pionieri del far west” dove “la quotidianità era fatta di lavoro, religione, mercato o fiera. Le persone però sono moderne e sono molto attive: c’è un dinamismo che non potete neanche immaginare”.

Il documento dei vescovi. La Conferenza episcopale haitiana di fronte al quotidiano scenario di morte e desolazione che accompagna da anni il Paese caraibico, a settembre scorso, aveva scritto un appello accorato. “Che cosa dobbiamo fare, come Chiesa e come popolo, per impedire alle gang armate di ucciderci, di massacrarci tutti?”, scrivevano i vescovi. In dieci avevano firmato un documento rivolto “al popolo di Dio, agli uomini e alle donne di buona volontà”, ammettendo tutta la loro impotenza. Il terrore vissuto ogni giorno nella capitale, per esempio a Carrefour-Feuilles o a Lilavois (per non citare che due dei quartieri sotto scacco delle bande) e il massacro nella zona di Canaan “sembrano confermare che è stata data carta bianca alle gang per agire contro la popolazione”, denunciavano i vescovi.

*redazione Popoli e Missione

 

 

 

 

 

Haiti: awaiting the UN, life in Jérémie, ‘free zone’. Father Miraglio: “We reach the mountains on mules”

Ven, 06/10/2023 - 09:47

The nearest market in Purcine, a mountain village in the southwest of Haiti, is a four-hour walk from the town. People go there on mules to sell the produce of their farms (mainly beans, since Hurricane Matthew destroyed the coffee plantations). And yet, “the area of Jérémie is a safe haven”, a free zone outside the guerrilla war between the gangs that are destroying Haiti. Father Massimo Miraglio, a Camillian priest who has lived in this stateless country for 18 years, one of the few Italian missionaries left in this Caribbean hellhole, spoke to SIR about it.

UN peacekeepers due to arrive soon. A few days after the adoption of UN Resolution 2699, which authorises a multinational security mission led by Kenya to ‘protect’ Haiti, the Italian missionaries are breathing a sigh of relief. But they are not letting their guard down. They know that even UN missions can fail, as happened in 2004 with the Brazilian-led contingent, which was there for 13 years before being forced to recognise its ineffectiveness. “Armed gangs are everywhere, but they don’t reach us up here. It only happened once, but it was men who had grown up here in Jérémie and knew the area well. Here, in the Purcine mountains, we are protected from guerrilla warfare because there is no way to get here except by mule,” Father Maximus explains over the phone. The internet connection is flickering and operates on time slots: communication with the rest of the world is virtually non-existent.

There is no electricity in Jeremie, no water in the village. There is no hospital. People go about their business in the dark, drinking and washing themselves by collecting rainwater.

But in this oasis of beauty and precariousness, destroyed previously by the brutal force of Hurricane Matthew, at least there is no war. “Ours is a small mountain village and that is our good fortune,” says the Camillian Father.

Another hurricane would wipe out everything. The Creole community is resilient, says the missionary, and “the local population has recovered from the climatic devastation, but their houses are vulnerable, and if another hurricane hit, no one would be left alive, not even me.” Last year, Father Massimo had asked to gain experience in Jeremie, in a parish with at least one chapel, and he found it. “I have been parish priest here since the 4th of August,” he says, “in the church of Our Lady of Perpetual Help. For the first time since its foundation, this community of 4,000 people has a priest.”

“Daily violence and the power of faith. The Wild West of a stateless country at the mercy of criminal gangs is almost inevitable. There is no way to protect the people, although there are high hopes for this UN mission requested by the Haitian government. But there is a deep faith and the strength of the mission can make a difference.

“The parish is a point of reference, the heart of everything: it is like living among the pioneers of the Wild West”,

where “everyday life was work, religion, open markets and fairs. But the people are modern and very active: there is an unimaginable dynamism.”

The bishops’ document. Faced with the daily scenes of death and devastation that have gripped the Caribbean country for years, the Haitian Bishops’ Conference wrote a heartfelt appeal last September. “What must we do as a Church and as a people to prevent armed gangs from killing us, from slaughtering us all?” the bishops wrote. Ten of them signed a document addressed “to the people of God, to men and women of good will”, admitting their helplessness. The daily terror in the capital, for example in Carrefour-Feuilles or Lilavois (to name but two of the districts controlled by the gangs) and the massacre in the Canaan area “seem to confirm that the gangs have been given free rein to attack the population”, the bishops denounced.

 

*editorial staff Popoli e Missione

Niger: i soldati francesi iniziano il ritiro. Il missionario Armanino: “A Niamey appare come una grande vittoria sul passato (e presente) coloniale”

Ven, 06/10/2023 - 09:34

Inizierà in settimana il ritiro delle truppe francesi dispiegate da anni in Niger, circa 1400 soldati. Dopo il golpe dello scorso 26 luglio, con l’estromissione dell’ex presidente Mohamed Bazoum, ancora detenuto, la giunta militare al potere ha chiesto primo il ritiro dell’ambasciatore francese e poi dei militari, da completare entro la fine dell’anno. “Dal punto di vista orgoglio nazionale la partenza dei militari francesi appare come una grande vittoria sul passato (e presente) coloniale, come girare la pagina del libro ‘indipendenza’ reale! C’è dunque fierezza per il ruolo giocato dalla ‘piazza’ con i presidi ininterrotti presso le basi militari francesi sulla strada dell’aeroporto internazionale di Niamey”, racconta al Sir da Niamey padre Mauro Armanino, missionario della Società delle Missioni Africane, da dodici anni alla guida di una piccola comunità cattolica costituita soprattutto da migranti africani. “Buona parte della società civile – prosegue – si è allineata al potere dei militari per convinzione o per interesse ma soprattutto per la stanchezza nei confronti del regime precedente, che in 12 anni è riuscito nell’impresa di smantellare una politica e un’economia degni di questo nome”. Ma il popolo nigerino “soffre per le sanzioni che durano da oltre due mesi e che implicano carenze di cibo, medicine e altri generi di mercanzie”.

Com’è la situazione e il sentire della popolazione nigerina riguardo all’uscita di scena dei francesi e quale scenario si profila?

Difficile esprimere tutto un Paese e un popolo che vive in maggioranza nelle zone rurali. Posso solo menzionare ciò che si percepisce nella capitale Niamey, che appare come un buon barometro della percezione. La gente del popolo soffre per le sanzioni che ormai durano da oltre due mesi e che implicano carenze di cibo, medicine e altri generi di mercanzie.

La riduzione dei flussi finanziari al mondo umanitario penalizza chi viveva di questi aiuti, specie in un contesto di carestia che tocca tutto il Sahel e il Niger in particolare.

La prima cosa è sopravvivere al quotidiano, specie adesso che sono ricominciate le scuole e che c’è da pagare in contanti per quanto occorre ai figli. Dal punto di vista orgoglio nazionale la partenza dei militari francesi appare come una grande vittoria sul passato (e presente) coloniale, come girare la pagina del libro ‘indipendenza’ reale! C’è dunque fierezza per il ruolo giocato dalla “piazza” con i presidi ininterrotti presso le basi militari francesi sulla strada dell’aeroporto internazionale di Niamey “Diori Hamani”! “La natura rifiuta il vuoto” si suol dire e sembra che alla porta si affaccino altri attori: a parte gli Usa, che hanno intelligentemente tenuto un profilo minore nei confronti del colpo di Stato e i cui militari sono stati spostati ad Agadez dove esiste una base militare con aeroporto con droni in grado di controllare l’intera Africa del nord e occidentale, ci sono la Turchia, la Russia, la Cina e chissà chi altri. Buona parte della società civile si è allineata al potere dei militari per convinzione o per interesse ma soprattutto per la stanchezza nei confronti del regime precedente, che in 12 anni è riuscito nell’impresa di smantellare una politica e un’economia degni di questo nome!

Il popolo degli umili offre una resistenza silenziosa e quotidiana degna di nota

e segno particolare della squisita dignità che ha da sempre accompagnato i nigerini che la sabbia, il vento, la polvere e le prove dell’insicurezza legata ai gruppi armati ha reso capace di soffrire in silenzio e vivere di attesa di tempi migliori.

C’è davvero la possibilità di una transizione verso un governo civile, come auspicato da alcuni mediatori?

C’è un primo ministro che aveva lavorato con il presidente deposto nel 2010, Mahamadou Tandja, un governo, con militari e civili e adesso si attende la promessa concertazione nazionale delle “forze vive” o comunque di realtà che esprimono il vissuto anche per arrivare, si pensa, ad una nuova costituzione più aderente alle aspirazioni locali. Recentemente il presidente della giunta, Abdouhramane Thiani, ha comunicato nelle due lingue locali maggioritarie, lo Zerma e l’Haussa e questo è piaciuto e interrogato sul futuro della lingua francese nel Paese.

La transizione è auspicata dalla gente che vorrebbe ritornare a vivere senza sanzioni e timori di attacchi eventuali.

Proprio giorni fa un ennesimo attacco di gruppi armati ha seminato la morte tra i militari e causato circa 150mila sfollati, senza contare le scuole chiuse e gli alunni dispersi altrove. Sono queste le preoccupazioni delle gente!

(Foto M.Armanino)

Qual è l’impatto di questi cambiamenti politici sulla vostra piccola comunità cattolica?

Per ora limitato. Le nostre comunità sono maggioritariamente composte da fedeli di origine straniera (Togo, Benin, Nigeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio, ecc.), quindi

ci sono timori che gli “stranieri” diventino bersaglio perché assimilati agli “occidentali”, visto che nell’immaginario Francia=cristiani.

In prospettiva questi timori potrebbero rivelarsi fondati, nel caso in cui, così come successo altrove, i cambiamenti politici verrebbero intesi anche come ‘autenticità nigerina’ nella società che è al 98% legata all’Islam. Questo potrebbe implicare un abbandono della non confessionalità dello Stato, così come previsto dall’attuale costituzione, per andare verso qualcosa di più ‘rispondente’ allo spirito dell’Islam, con il rischio di un certo radicalismo. In effetti l’Islam di tipo sufi delle confraternite, assai tollerante, potrebbe essere battuto in breccia dalla correnti salafiste di matrice nigeriana, grazie a predicatori e soldi che arrivano da altrove e che, non da oggi, edificano moschee, scuole coraniche, università islamiche e aiuti umanitari.

La zona di confine col Burkina Faso, abitata dal popolo Gourmanché, la realtà più viva dal punto di vista cristiano di tutto il Niger, è quella più bersagliata dai gruppi armati e le comunità sono a tutt’oggi perseguitate a motivo della fede.

Black out energetici, povertà, malnutrizione, insicurezza causata dal jihadismo, migranti, i problemi del Niger sono tanti e di difficile soluzione, quali sono prioritari?

Vivere! Vivere e vivere: sono queste le tre priorità del popolo del Niger… ma vivere con dignità, quella che è stata confiscata, tradita e svenduta troppo spesso in questi anni ai migliori acquirenti! Milioni di persone con carenze alimentari e circa la metà della popolazione in situazione di povertà. Le statistiche sono sempre senza appello: siamo i buoni ultimi del pianeta in termini di sviluppo umano e di povertà multidimensionale, si spera che questo cambi e cambierà se da parte delle nuove autorità e della comunità internazionale, in particolare quella dell’Africa Occidentale (Cedeao/Ecowas) termineranno le sanzioni e le frontiere torneranno ad essere ciò per cui sono state inventate: un luogo di transito, incontro e scambio. Adesso sono semplicemente un luogo di ladrocinio perché la gente passa (di frodo) però deve pagare delle fortune. E questo le nuove autorità lo sanno e tacciono: non è un bel segno!

Quanto al tema sicurezza dai gruppi armati è semplicemente cruciale perché i gruppi sono a circa 50 chilometri dalla capitale.

Non è pensabile che ciò accada ormai da anni, occorre un cambiamento di paradigma che implica l’abbandono della guerra come soluzione alla guerra. Perché proprio di guerra si tratta: con motivazioni religiose, economiche, territoriali, ideologiche e dunque da affrontare a tutti questi livelli! I migranti sono tra i dimenticati della crisi semplicemente perché messi tra gli ‘invisibili’ del sistema, tra la zavorra o le frange “vendibili” per eventuali commerci con l’Occidente, sempre attento a estendere le sue frontiere fino al Sahel!

(Foto M.Armanino)

Niger: France starts to pull out its troops. Father Armanino, missionary: “In Niamey, it feels like a great victory over the colonial past (and present)”

Ven, 06/10/2023 - 09:34

France will start pulling out its troops stationed in Niger for years – some 1,400 soldiers – this coming week. Following the coup of July 26, which ousted ex-president Mohamed Bazoum, who is still detained, Niger’s military leaders demanded the exit of the French ambassador and troops, to be completed by the end of the year. “In terms of national pride, the withdrawal of French troops feels like a great victory over the colonial past (and present), like turning a page in the book of royal ‘independence’! The ‘men in the street’ are proud of their role in the uninterrupted presence of garrisons at the French army bases on the road to Niamey’s international airport,” Father Mauro Armanino, a missionary with the Society of African Missions, told SIR from Niamey. He has been at the helm of a small Catholic community made up largely of African migrants for the past twelve years. “A large part of civil society,” he adds, “has aligned with the military leadership, out of conviction or interest, but above all out of weariness with the previous regime, which in 12 years caused the collapse of the political system and of an economy worthy of the name.” But the people of Niger “are suffering from sanctions that have been in place for more than two months, causing shortages of food, medicines and other supplies.”

What is the situation on the ground, how do the people of Niger feel about the French withdrawal and what are the prospects?

It’s difficult to describe the overall situation of a country and a people who live mainly in rural areas. I can give an account of what is perceived in the capital, Niamey, which is a fairly reliable barometer of public perception. People are suffering from the sanctions that have been in place for more than two months, causing shortages of food, medicines and other supplies.

Dwindling funds for humanitarian aid are detrimental to the people who depend on it for their livelihoods, especially in a situation of famine that is affecting the entire Sahel region and Niger in particular.

Firstly, it is a matter of getting through each day, especially now that schools have reopened and children’s school materials have to be paid for in cash. In terms of national pride, the departure of the French troops is seen as a great victory over the colonial past (and present), like turning the page of the real ‘independence’ book! The ‘men in the street’ are proud of their role in the uninterrupted presence of garrisons at the French army bases on the road to Niamey’s ‘Diori Hamani’ international airport! According to an old proverb, ‘nature rejects emptiness’, and it seems that other players are emerging: in addition to the USA, which has wisely kept a low profile in the face of the coup and whose troops have been moved to Agadez, with a military base including an airport and drones capable of controlling the whole of North and West Africa, there are Turkey, Russia, China and who knows who else. A large part of civil society is aligned with the military forces, out of conviction or interest, but above all out of weariness with the previous regime, which in 12 years managed to destroy a politics and an economy worthy of the name!

Ordinary people’s praiseworthy, silent, daily resistance

signals the special dignity that traditionally characterises the people of Niger, who suffer in silence, waiting for better times, despite the sand, wind, dust and the ordeal of insecurity caused by armed groups.

Is a transition to civilian rule possible, as some mediators hope?

There is a prime minister who served with the president ousted in 2010, Mahamadou Tandja, a cabinet of soldiers and civilians, and now we await the promised national consultation of the “living forces”, or at least of those entities that express lived experience, with the aim, it is believed, of drawing up a new constitution that better reflects the aspirations of the local population. The junta’s president, Abdouhramane Thiani, recently spoke in the two majority local languages, Zerma and Haussa, a move that was widely applauded and questioned the future of French as the country’s national language.

The transition is demanded by the people, who want to return to a life without sanctions and fear of possible attacks.

A few days ago, another attack by armed groups caused deaths among the military and displaced around 150,000 people, not to mention the schools that have been closed and the pupils who have been displaced. These are the concerns of the people!

How do these political challenges affect your small Catholic community?

So far, the impact has been small. Our communities are mostly made up of faithful of foreign origin (Togo, Benin, Nigeria, Burkina Faso, Ivory Coast, etc.).

There are fears that ‘foreigners’ could be targeted because they are equated with ‘Westerners’, since in the collective imagination France = Christians.

In the future, these fears may prove well-founded if, as has happened elsewhere, the political developments are understood as ‘Nigerien authenticity’ in a society that is 98% Muslim. This could mean a departure from the non-denominational nature of the state, as provided for in the existing Constitution, in favour of something more ‘responsive’ to the spirit of Islam, with the risk of radicalism. In fact, Sufi Islamic confraternities, which are very tolerant, could be trumped by Salafist currents of Nigerian origin, thanks to preachers and money from abroad, which – not as of today – are involved in the construction of mosques, madrasas, Islamic universities and in humanitarian aid.

The border area with Burkina Faso, home to the Gourmanché people, the most vibrant Christian reality in the whole of Niger, is the most targeted by armed groups, and communities are persecuted for their faith.

The problems of Niger are many and difficult to solve: blackouts, poverty, malnutrition, insecurity due to jihadism, migration… What are the priorities?

To live! Life, life, life: these are the three priorities of the people of Niger… but with dignity, a dignity that in recent years has been confiscated, betrayed and too often sold to the highest bidder! Millions of people are threatened by food insecurity and about half of the population is living in poverty. The figures are unrelenting: we rank last on the planet in human development and multidimensional poverty. Hopefully, this will change when the new leadership and the international community, in particular the West African Community (CEDEAO/ECOWAS), lift the sanctions and the borders become what they were intended to be: a place of transit, encounter and trade. Now they are only places of robbery, because people pass through (illegally) but they have to pay a fortune. The new authorities are aware of this and are keeping quiet: not a good sign!

As for the issue of security from armed groups, this is crucial because the groups are about 50 kilometres from the capital.

This has been going on for years, which is unthinkable; a paradigm shift is needed, which means abandoning war as a solution to war. Because it is all about war: with religious, economic, territorial, ideological motivations, and therefore it must be fought on all these levels! Migrants are among those forgotten in the crisis, because they are among the system’s “invisibles”, ballast or fringes that can be “sold” for possible trade with the West, which is always keen to extend its borders to the Sahel!

Il percorso di sviluppo dei vaccini a mRNA, una storia che parte da lontano

Gio, 05/10/2023 - 13:58

Pochi giorni fa, l’assegnazione del Premio Nobel per la medicina 2023 agli scienziati Katalin Karikó e Drew Weissman. Motivazione del prestigioso riconoscimento: avere gettato le basi per i vaccini a mRNA (RNA messaggero), che hanno reso possibili i vaccini anti Covid-19.
Tutti ricordiamo come, durante i giorni più duri della pandemia, la notizia della disponibilità di questi nuovi vaccini tanto attesi ha generato speranza nella maggior parte delle persone e scetticismo (a volte pregiudiziale) in alcuni, soprattutto per la rapidità inusuale con cui sono stati sviluppati e immessi nel mercato dalle case farmaceutiche (previa approvazione degli enti regolatori preposti).
Ma la storia dei vaccini a mRNA non inizia certo nei giorni convulsi della pandemia. Piuttosto, essi sono il risultato di decenni di studi teorici (peraltro, a lungo snobbati), che hanno rivelato la loro reale utilità quando più ne abbiamo avuto bisogno.
Fondamentalmente – e in estrema sintesi – a rendere possibili i vaccini anti-covid a mRNA sono stati i progressi raggiunti in tre diversi filoni di ricerca:

1. la scoperta dell’mRNA e di come usare quella stringa di codice genetico per insegnare alle cellule a produrre pezzetti di virus e rafforzare il sistema immunitario (ricerca cominciata 60 anni fa e proseguita nei 30 anni successivi);

2. aver capito come proteggere quelle fragili molecole dalla degradazione una volta introdotte nel corpo umano;

3. la ricerca, negli anni ’90 negli Usa, sulla proteina spike del virus dell’Hiv, nel tentativo disperato di trovare un vaccino contro l’epidemia di Aids allora in piena espansione.

Ebbene, nel 2020, l’alleanza virtuosa tra queste tre “tessere” di sapere ha permesso di ottenere vaccini a mRNA efficaci e sicuri, diretti contro la corretta proteina-bersaglio.

Ma torniamo a richiamare brevemente il percorso di ciascuna delle tre componenti, partendo… dall’ultima!
Era il 1996, quando Bill Clinton – allora presidente degli Usa -, convocando lo scienziato Anthony Fauci per essere informato sull’epidemia di Aids (dovuta al virus dell’Hiv) che, in poco più di 10 anni, aveva già ucciso 350.000 persone soltanto negli Usa e sei milioni nel mondo, gli pone la domanda più ovvia per un non addetto ai lavori: come mai non esiste ancora un vaccino contro l’Hiv?
Fauci rilancia, chiedendo la creazione di un centro multidisciplinare dedicato. Nel 2000, nasce così il Vaccine research center, presso il National institutes of health’s campus di Bethesda, nel Maryland. Il budget iniziale è di 43,9 milioni di dollari (attuali), con uno staff di 56 scienziati (tra cui tra cui Barney Graham, che poi avrà un ruolo fondamentale nel vaccino anti-covid). Da allora, ben oltre 85 candidati vaccini sono stati testati in quel centro e in altri sparsi su tutto il territorio Usa, ma nessuno ha funzionato, soprattutto perché il virus dell’Hiv ha una capacità incredibile di mutare aspetto (varia in un giorno con la stessa rapidità con cui il virus dell’influenza cambia in un anno) e, così, sfuggire alle difese del sistema immunitario.
Tale evidenza scientifica, dunque, spinge i ricercatori del centro vaccinale ad adottare un approccio più teorico: mappare l’intera superficie del virus dell’Hiv, in particolare la struttura atomica delle proteine che usa per invadere le cellule, le cosiddette “spike”. Nell’Hiv e non solo, queste proteine uncinate cambiano costantemente forma: ne hanno una prima di invadere le cellule e una diversa una volta agganciate. Capire quale parte della spike sia più vulnerabile agli anticorpi, e soprattutto quale forma della spike riprodurre con un vaccino, è la sfida che gli studiosi devono vincere. Tra questi c’è anche il 27enne Jason McLellan, che con la tecnica della cristallografia ai raggi X studia la struttura 3D delle proteine. Qualche mese dopo, sarà fondamentale il suo incontro con Barney Graham, che invece sta concentrando le sue ricerche sul virus respiratorio sinciziale (Vrs), che causa affezioni dei polmoni e delle vie aeree. Analizzando la struttura della proteina che il Vrs usa per fondersi alle cellule, i due scienziati aprono la strada a nuovi possibili vaccini ora in sperimentazione. Anche se non ne sono ancora consapevoli, la loro collaborazione sarà alla base anche del vaccino contro il CoViD-19.
Per ripercorre, invece, le tappe della scoperta dell’RNA messaggero (mRNA), occorre tornare al 15 aprile 1960, quando un gruppo di scienziati del King’s College a Cambridge (Regno Unito) – tra cui i futuri Premi Nobel Francis Crick e Sydney Brenner – individua finalmente la molecola che fa da tramite tra il Dna (il codice delle istruzioni per produrre proteine nel cuore della cellula) e le fabbriche di proteine vere e proprie (le strutture cellulari dette “ribosomi”). La molecola di mRNA, porta copie di segmenti trascritti di Dna ai ribosomi, dove queste istruzioni vengono tradotte in proteine.
Ma come sfruttare concretamente una simile scoperta? Isolare l’mRNA dalle cellule è infatti impossibile senza che esso si degradi completamente. Nel 1984 il biologo di Harvard Doug Melton scopre come riprodurre l’mRNA in laboratorio, ma il problema è sempre la sua delicatezza. Questa difficoltà, fa calare progressivamente l’attenzione nei confronti di questo tema, finché… due scienziati “controcorrente” non si incrociano sulle tortuose strade della ricerca!
Dato che le cellule del corpo umano utilizzano continuamente mRNA per trascrivere le istruzioni genetiche e produrre proteine essenziali, perché non ottenere versioni sintetiche di mRNA che aiutino a contrastare malattie? Una possibilità a cui, negli anni ’90, comincia a lavorare la biochimica ungherese Katlin Karikò, scontrandosi però con la mancanza di finanziamenti e con un importante ostacolo scientifico: produrre un mRNA sintetico che non venga immediatamente rigettato come “estraneo” dall’organismo.
Ebbene, dopo anni di studi e tentativi, la svolta arriva in seguito alla collaborazione con Drew Weissmann, dell’Università della Pennsylvania, da tempo impegnato a cercare un vaccino contro l’Hiv. Nel 2005, i due scoprono che modificando una “lettera” dell’mRNA (uno dei mattoncini che compongono la sua molecola, i nucleosidi) si inibisce la reazione immunitaria problematica. L’mRNA riesce così a sfuggire ai meccanismi di controllo e ad arrivare alle cellule.
Va ricordato che, fino al momento, i vaccini “tradizionali” avevano sempre sfruttato virus modificati o frammenti di essi per allenare il sistema immunitario ad attaccare i patogeni invasori. Karikò e Weissmann si rendono conto invece che un vaccino a mRNA potrebbe istruire l’organismo a produrre le proprie proteine virali, un approccio che imita l’infezione in modo più preciso e, dunque, dovrebbe generare una migliore riposta immunitaria.
Ma l’ipotesi che una molecola fragile come l’mRNA possa riuscirci sembra al momento poco probabile. Infatti, anche se ora l’mRNA è protetto dal rigetto cellulare, occorre comunque riuscire a consegnarlo integro alle cellule stesse. Alla fine degli anni ’90, l’ostacolo viene superato da un team di biochimici della Inex, un’azienda canadese fondata da un certo Pieter Cullis, che sintetizzano delle membrane lipidiche delle dimensioni di un centesimo di una cellula. A quel punto, è lo stesso Cullis chiedere di collaborare con i produttori di vaccini a mRNA.
Riassumendo, i ricercatori hanno ora un mRNA in grado di istruire il sistema immunitario e un involucro di grasso che lo tiene al sicuro. Manca ancora il codice preciso da fornire alle cellule perché inizino a produrre la loro versione della spike, e scatenare la risposta immunitaria. Ma c’è un altro problema da risolvere: in molti virus, come i coronavirus e l’Hiv, la proteina spike tende continuamente a cambiare aspetto. Quindi, per poterla usare per un vaccino occorre “bloccarla” nella conformazione che assume quando attacca le cellule. Dopo varie peripezie (che omettiamo per brevità), sarà Nianshuang Wang, un ricercatore cinese che lavora negli Usa insieme a Graham, a trovare il rimedio. Dopo alcuni tentativi, infatti, i due scienziati individuano un punto particolare della spike in cui aggiungere due mutazioni dei blocchi di base (gli amminoacidi) per “irrigidirla” e bloccarla nella sua configurazione iniziale.

A questo punto, la cronaca di intreccia con la scienza!
E’ l’alba del 31 dicembre 2019 quando il professor Graham legge di una misteriosa polmonite iniziata a circolare a Wuhan, in Cina. Mette in allerta il suo laboratorio e resta in attesa. Una settimana più tardi, si diffonde la notizia che sia un coronavirus la più probabile causa della malattia e, dopo pochi giorni, alcuni ricercatori cinesi pubblicano la sequenza genetica del virus. A questo punto, Graham e colleghi individuano in breve la sezione che riguarda le spike e ottengono la stringa di codice della proteina-bersaglio, in cui incorporare la tecnica per “bloccarla” elaborata da Wang.
Il 15 febbraio 2020, Graham e il suo collega McLellan pubblicano un articolo con la struttura della spike su un sito liberamente accessibile di lavori scientifici (quel paper sarà in seguito pubblicato su “Science”).

E’ fatta: sapendo con precisione dove inserire le mutazioni utili a stabilizzare la proteina, Pfizer-BioNTech e Moderna riescono a creare vaccini anti-covid “sartoriali” con il 95% di efficacia; per renderli accettabili alle cellule, utilizzano l’alterazione chimica scoperta 15 anni prima da Weissman e Karikó, e per proteggerli l’involucro lipidico messo a punto dai ricercatori canadesi.
In pochi mesi, a novembre 2020, il mondo ha il suo primo vaccino estremamente efficace contro il covid-19. Preparato “troppo in fretta”? Si direbbe proprio di no!

Laudate deum: voci e testimonianze da scienziati, scrittori, intellettuali, attivisti e giovani

Gio, 05/10/2023 - 13:37

Scienziati, scrittori, intellettuali, attivisti, giovani. Voci e testimonianze diverse, ma tutte accomunate dalla “passione comune per l’umano”, come ha detto il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, presentando la conferenza stampa organizzata per i giornalisti accreditati nella Palazzina Leone XIII, nei Giardini Vaticani, all’indomani della pubblicazione dell’esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate deum, che otto anni dopo la Laudato sì ha chiesto all’umanità un sussulto di responsabilità nei confronti della crisi climatica.

Un documento “estremamente necessario”, lo ha definito il Premio Nobel per la Fisica 2021 Giorgio Leonardo Renato Parisi, “in quanto i governi se ne infischiano del cambiamento climatico, e le voci che lo sostengono sono come grida nel deserto”.

“Può sembrare strano che un’enciclica del Papa abbia un incipit scientifico”, ha argomentato lo scienziato: “ma il Santo Padre è stato costretto a ripetere cose ovvie – come lui stesso ha spiegato –  a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli che si trovano anche all’interno della Chiesa”. “Nessuno può ignorare che assistiamo a fenomeni estremi”, ha ripetuto Parisi sulla scorta del Papa: “non bisogna porre in ridicolo chi parla di riscaldamento globale, anche se ci sono periodi di grandi freddi, perché tutti gli eventi estremi, sia di caldo che di freddo, in presenza della crisi climatica vengono amplificati”. No, allora, al negazionismo, stigmatizzato anche nell’esortazione apostolica, e “ai politici che cercano di nascondere fatti che sono sotto gli occhi di tutti”. La questione ambientale, scrive inoltre il Papa, non è solo “una questione verde o romantica”.

“Dobbiamo ammettere che si tratta di un problema dell’umanità e della società, e che è necessario coinvolgere tutti”, l’appello di Parisi: “sono decenni che la scienza avverte che siamo di fronte ad aumento vertiginoso delle temperature, ma non si è fatto nulla. Servono interventi decisi, per mettere in campo i quali la scienza ha un ruolo fondamentale”.

Di “momento storico drammatico” ha parlato anche Carlo Petrini, gastronomo, sociologo e attivista (in collegamento da remoto) sottolineando che gli otto anni che vanno dalla Laudato sì alla Laudate Deum, e dalla Cop21 alla prossima Cop28 a Dubai, “sono stati anni in cu l’umanità, e la sensibilità politica rispetto alle questioni ambientali, non ha fatto passi in avanti, anzi si è dimostrata totalmente inefficiente, creando così le condizioni per cui una parte rilevante del sistema ambientale è ormai compromesso in maniera irreversibile. Al punto che oggi possiamo solo contenere un disastro annunciato”. Per Petrini, rispetto alla Laudato sì la condanna che il Papa nella nuova esortazione apostolica fa del negazionismo “è molto più forte e quanto mai determinante, non solo per la non scientificità del negazionismo, ma perché quest’ultimo sta realizzando di fatto  una barriera contro i cambiamenti di rotta”.

La “grande novità” della Laudate deum, secondo Petrini, è il ruolo determinante assegnato da Francesco al “movimento dal basso” prodotto dalle associazioni, i movimenti e le varie realtà della società civile per chiedere un cambio di passo sul cambiamento climatico: un appello, quello del Papa, che “o viene colto come ulteriore opportunità per metterci in movimento, oppure se cade nel vuoto non avremo un’altra esortazione apostolica e la situazione diventerà sempre più grave”.

“La Terra ci sta raccontando una storia che non siamo in grado di accettare”, ha denunciato lo scrittore statunitense Jonathan Safran Foer: “se accettiamo la realtà che stiamo distruggendo il nostro pianeta e mettendo in pericolo le generazioni future, ma non siamo capaci di agire, siamo in presenza di un altro tipo di negazionismo”. Molte, durante la conferenza stampa di presentazione, anche gli interventi dei giovani, che insieme alle persone più vulnerabili sono le principali vittime del cambiamento climatico. Tra queste, la testimonianza di Alessandra Sarmentino,  animatrice del Progetto Policoro dell’arcidiocesi di Palermo, animatrice del Movimento Laudato si’ e associata di Azione Cattolica, che ha raccontato come quest’estate la sua Sicilia sia stata devastata dagli incendi proprio a causa del cambiamento climatico, divenuto terreno fertile per i piromani.  Luglio 2023: “la Sicilia brucia, interi comuni sono isolati, nessuna via di fuga, un’intera regione intrappolata dentro se stessa”. La conseguenza diretta degli incendi è la desertificazione, la distruzione di qualsiasi forma di vita, quella secondaria sono le frane e le inondazioni, per cui la Sicilia anche a settembre ha continuato a bruciare.

“Chi ripagherà i cuori dei familiari delle vittime, per questa umanità tormentata?”,

si è chiesta Alessandra citando poi le parole dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, a parere del quale gli incendi “sono il risultato di decenni di scelte e omissioni che ricadono sui politici e su tutti noi”. “Al prossimo vento di scirocco e alle temperature di 40 gradi, la Sicilia brucerà ancora, con danni ineguagliabili”, la previsione di Sarmentino: “Il dramma più grande è l’abitudine: ci siamo abituati ad uno scenario di morte che però ci fa paura solo quando lambisce le nostre case”. Di qui la necessità di un’educaziozne alla cittadinanza attiva: “Esserci qui ed ora per costruire un futuro migliore. La risposta alla desertificazione è la vita che rinasce e la natura che si ricrea”. “Chi ci ripagherà per la bellezza perduta? Stiamo davvero facendo tutto quello che è nelle nostre possibilità?”, le provocazioni finali. A rispondere, sotto forma di domanda, è Papa Francesco nella Laudate deum: “Il mondo canta un Amore infinito, come non averne cura?”.

Laudate Deum. Mons. Renna (Cei): “Il potere va usato con responsabilità, anche l’Italia faccia passi avanti”

Gio, 05/10/2023 - 12:00

“Le donne e gli uomini di buona volontà sono accanto a noi e spesso sono più sensibili di noi cattolici verso il tema dell’ambiente. Dobbiamo lavorare insieme”. Mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace e del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici in Italia, commenta l’esortazione apostolica Laudate Deum.

Eccellenza, la crisi climatica è “una malattia silenziosa che colpisce tutti noi”. Siamo giunti a una svolta?
Il Papa ha fatto un gesto inedito rispetto ai suoi predecessori e al suo stesso Magistero. Scrivere un’esortazione apostolica sullo stesso argomento di un’enciclica a otto anni di distanza esprime una grande preoccupazione per quello che egli definisce un mondo che “si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura”. Dimostra una coscienza critica che ci deve inquietare. Non per essere pessimisti, ma per crescere nella responsabilità. È un invito a tutti a crescere nella responsabilità davanti a qualcosa che può essere ineluttabile.

L’esortazione è a tratti un testo tecnico, con numeri e considerazioni scientifiche. Questo richiamo al dato oggettivo richiama l’urgenza avvertita dal Santo Padre su una condizione che riguarda l’intera umanità?
Soltanto l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII e Populorum Progressio di Paolo VI sono così stringenti su alcune tematiche, soprattutto la seconda con il riferimento a tanti dati tecnici sullo sviluppo. La stessa attenzione è presente in Laudate Deum, perché il Papa dà spazio al cosiddetto momento del vedere, cui segue il giudicare e l’agire. Purtroppo le tante opinioni negazioniste inficiano la formazione di un giudizio obiettivo.

Si continua a dire che questi passaggi d’epoca sono stati sempre presenti nella storia, ma il Papa ribadisce che non è mai accaduto a così breve distanza. E non si può gettare la croce del surriscaldamento del pianeta all’aumento della popolazione, soprattutto nel sud del mondo: il consumo delle risorse avviene nei Paesi più ricchi.

Non ci si può sottrarre all’evidenza dei fatti.
Francesco ci mette davanti ad alcuni dati inoppugnabili e a letture distorte, che sono mosse da visioni ideologiche e utilizzate da chi non vuole questo cambiamento, perché evidentemente ha dei costi in termini di una visione tecnocratica che dovrebbe arretrare per far sì che il pianeta non arrivi al punto di rottura.

“Non ogni aumento di potere è un progresso per l’umanità”, avverte Francesco. Che richiama l’immagine del “pungiglione etico” per arrestare la corsa sfrenata guidata da tecnologia e ragioni economiche.
Il pungiglione etico è anche un pungiglione di carattere politico ed economico. Mi richiama ad un passaggio del documento preparatorio delle Settimane Sociali, nel quale si invita a non avere paura del potere, perché

il potere può essere utilizzato in modo irresponsabile, subordinandolo a visioni economiche nelle quali prevale il marketing e la falsa informazione. Invece noi vogliamo riappropriarci di un potere che sia quello di poter-essere, poter-fare, poter-cambiare.

Il potere va usato con responsabilità e con una visione molto chiara.

Il multilateralismo è davvero “una strada inevitabile”?
Dobbiamo orientare il potere a un uso buono che è – come ricorda Francesco – quello che prevede gli accordi multilaterali. Il multilateralismo distribuisce potere a tanti, permette a tutti di poter sedere a un tavolo nel quale si decide. Si consente anche alla società civile, come nell’accordo di Ottawa sulle mine anti uomo, di partecipare. Il potere deve andare di pari passo con la democrazia, con gli accordi multilaterali, con il coinvolgimento secondo un principio di sussidiarietà della società civile. È il potere di cambiare.

Francesco denuncia la “debolezza della politica internazionale”, guidata dalle “mutevoli circostanze politiche o dagli interessi di pochi”.
Alcuni Paesi hanno forti interessi e bloccano i protocolli. Per questo il Papa invita ad accordi multilaterali in cui non ci sia soltanto il peso delle grandi potenze. Ma il problema riguarda anche il nostro Paese. Siamo usciti dalla Settimana Sociale di Taranto del 2021 con grandi progetti, soprattutto quello di sostenere la transizione ecologica con le comunità energetiche, con l’idea di un carbon free che vedesse coinvolte tutte le comunità parrocchiali che costituiscono la rete più ricca che innerva la vita del Paese. Ma siamo ancora in attesa dei decreti attuativi.

Anche la nostra Italia deve fare passi da giganti e non comprendiamo perché dopo tante promesse questi accordi ancora non arrivino.

Li aspettiamo con ansia e spero che l’esortazione di Papa Francesco solleciti i nostri parlamentari e le commissioni che sono state investite di questo compito ad agire subito.

Laudate Deum è anche una sfida per la Chiesa italiana?
Darà nuovo slancio al nostro agire. Viviamo in un momento storico segnato dal Sinodo della Chiesa universale e dal Cammino sinodale, certamente l’esortazione diventa un tema di carattere politico.

La Chiesa italiana deve fare uno sforzo maggiore per recepire questo argomento.

Cercheremo di metterlo anche di più in agenda nel percorso verso le Settimane Sociali, in un terreno già fecondo iniziato a Taranto. Mi piace l’incipit che ricorda la Pacem in Terris, l’invito rivolto “a tutte le persone di buona volontà”. La Chiesa è chiamata non solo a recepirla ma anche a diffonderla nella società civile, a farla diventare cultura. Le donne e gli uomini di buona volontà sono accanto a noi e spesso sono più sensibili di noi cattolici verso questi tema. Dobbiamo lavorare insieme.

Dom Spengler (Celam): “Il Sinodo è un’occasione privilegiata per tutti, un vero e proprio ‘kairos'”

Gio, 05/10/2023 - 11:00

È tempo di “andare oltre”, di “osare”, verso un futuro al quale “siamo invitati dal Signore stesso”. Dom Jaime Spengler, arcivescovo di Porto Alegre, partecipa al Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, che si è aperto in Vaticano, in una duplice veste: quella di presidente del Consiglio episcopale latinoamericano e dei Caraibi (Celam), che in questi anni si è impegnato con rinnovata forza sulla via della sinodalità, e di presidente della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb), il Paese con il maggior numero di cattolici nel mondo. Il Sir lo ha intervistato, all’inizio dei lavori sinodali.

Con quale spirito parteciperà al Sinodo sulla sinodalità?
Partecipo al Sinodo con uno spirito di comunione, con il desiderio di cooperare affinché la Chiesa sia sempre più segno del Regno nella società, e con un’apertura di cuore per imparare da altre realtà ecclesiali.

Considera questo Sinodo un momento decisivo per la Chiesa del futuro? Per quali ragioni?
Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca! Storicamente parlando, sappiamo, ad esempio, che Paolo ha saputo portare il giovane cristianesimo ai confini del giudaismo della sua epoca. Anche il tempo presente chiede di fare un salto dalla modernità, segnata dall’ideologia liberale che prometteva benessere per molti – cosa che non si è avverata, visti, ad esempio, i conflitti armati e i movimenti migratori che interessano moltitudini nel mondo -, a una presenza ecclesiale nella società che porti i segni di una forte esperienza personale di incontro con la persona del Crocifisso-Risorto, capace di promuovere e illuminare nuove relazioni nel tessuto sociale. Non dobbiamo dimenticare che la fede in Cristo è grazia; ma è anche un salto, secondo il filosofo Kierkegaard, un cammino di fiducia e di coraggio, di amore e di fedeltà, di vicinanza e di solidarietà; è un movimento verso e la costruzione di un futuro che è già stato inaugurato e al quale siamo invitati dal Signore stesso!

Lei è attualmente presidente del Celam e della più grande conferenza episcopale nazionale dell’America Latina, la Cnbb. È soddisfatto dei progressi compiuti negli ultimi anni nel continente, a partire dall’Assemblea di Città del Messico?
Il cammino inaugurato a livello latinoamericano e caraibico ha trovato l’itinerario sinodale, o è stato trovato da esso! Questo movimento sta mettendo in evidenza i livelli di partecipazione alla comunità ecclesiale. Nel continente, esiste una prassi consolidata di partecipazione di tutti i battezzati alla vita ecclesiale ordinaria. È vero che questo livello di partecipazione varia da Paese a Paese, e da regione a regione. Tuttavia, va sottolineato che le iniziative degli ultimi anni hanno portato alla promozione di spazi di comunione e partecipazione nella vita quotidiana delle comunità di fede.

Quale contributo specifico possono dare l’America Latina e i Caraibi?
La ricchezza della Chiesa risiede anche nella sua diversità. Tutti abbiamo qualcosa da imparare dagli altri. L’America Latina e i Caraibi hanno una storia segnata da piccole comunità che, non di rado, per mancanza di ministri ordinati, promuovono la lettura della Parola, la preghiera del rosario, le pratiche devozionali… Questa situazione ha contribuito a promuovere i ministeri laici che, in un modo o nell’altro, collaborano a mantenere viva la fede per molti. Sebbene la presenza del ministro ordinato sia importante, i laici hanno scoperto la loro dignità battesimale e, allo stesso tempo, i loro carismi e capacità. E questo avviene in modo generoso, libero, fraterno e autenticamente evangelico! Potrebbe essere un’esperienza da condividere con le Chiese di altri continenti! Sicuramente anche noi abbiamo molto da imparare dalle altre Chiese! Ecco perché questo processo inaugurato su iniziativa di Papa Francesco potrebbe essere un’occasione privilegiata per tutti, direi un vero e proprio “kairos” o, se si vuole, l’occasione per una nuova Pentecoste, quando lo Spirito potrà fare nuove tutte le cose!

Il cristianesimo, in Occidente, è considerato in crisi. Questo vale anche per l’America Latina? Quali potrebbero essere le risposte?
Sembra arrivato il momento in cui il cristianesimo deve superare, con coraggio, i suoi limiti mentali e istituzionali! I numeri sono inattaccabili! Dobbiamo cercare mezzi, metodi e linguaggi appropriati per trasmettere il messaggio! La fede che ci guida non è un mero fideismo emotivo, presente in non pochi ambienti; né un vago sentimento pio, anch’esso presente in non pochi spazi ecclesiali. La fede implica un’apertura attraverso la quale ciò che i testi biblici presentano penetra e trasforma la vita dell’essere umano. La fede è grazia! Ogni tempo della storia porta con sé le sue sfide! Ogni periodo storico ha le sue esigenze. Ecco perché la crisi è – o dovrebbe essere! – presente in ogni ambito in cui la Chiesa è presente! La crisi è un’opportunità! Opportunità di andare avanti, di andare oltre, di osare! Considerare la crisi come un semplice pericolo o una minaccia è un “suicidio”. I momenti di crisi sono occasioni privilegiate per cercare il nuovo – non la novità! – che solo il Vangelo può dare. Sono occasioni per trovare “acqua fresca e cristallina”, capace di dissetare i viandanti e i pellegrini della speranza.

Una sinodalità vissuta ed esercitata può essere anche una risposta all’avanzata di nuove realtà religiose? Pensiamo in particolare al Brasile e ai neo-evangelici…
Quella che chiamiamo sinodalità indica la caratteristica primordiale della Chiesa! I primi secoli della storia cristiana lo dimostrano. La realtà plurireligiosa che segna la vita del popolo brasiliano è il risultato di molti e diversi fattori. Non possiamo entrare nei dettagli in questa sede, perché si tratta di un fenomeno complesso. Tuttavia, oserei dire che il clericalismo ha contribuito notevolmente alla moltiplicazione delle cosiddette confessioni religiose e cristiane. Il fatto è che le persone hanno bisogno di coltivare e promuovere tempi e luoghi in cui sperimentare la trascendenza. È un bisogno che richiede cura e rispetto. Non si può voler promuovere la “negoziazione” con il divino o la sua trascendenza. Per questo motivo, credo che ciò che lo Spirito sta chiedendo alla Chiesa possa essere un’occasione privilegiata per riproporre il messaggio in modo ancora più incisivo. Credo anche che i processi di Iniziazione alla vita cristiana, la pratica della lettura orante della Parola e la promozione di piccole comunità possano cooperare vigorosamente nel promuovere l’opera di evangelizzazione. Le comunità devono promuovere spazi di accoglienza, ascolto, solidarietà e preghiera! Si tratta di quella che il Documento di Aparecida chiamava “conversione pastorale”, ma che nelle attività pastorali quotidiane non è cosa semplice. Passare da un gruppo di seguaci a una comunità di discepoli richiede apertura di cuore, coraggio, audacia, carità…

Si aspetta anche riforme visibili da questo e dal prossimo Sinodo? In quali ambiti?
Da tempo sentiamo parlare della necessità di un Sinodo sulla Chiesa. Quali strade si apriranno? Cosa ci aspetta? Quali indicazioni verranno offerte al Santo Padre dai dibattiti, dai dialoghi, dagli studi e dalla preghiera delle due sessioni o fasi del Sinodo, non lo sappiamo! È lo Spirito che guida i lavori. L’importanza fondamentale è coltivare l’apertura della mente e del cuore, per cogliere veramente ciò che lo Spirito suggerisce alla Chiesa di oggi e di domani. Il cammino percorso finora sta già dando i suoi frutti. Alcuni hanno paura. Altri, forse, sono indifferenti. Altri ancora, forse, sentono la nostalgia di un tempo che è passato. Ma ci sono molti attenti ai segni dei tempi, disposti a collaborare perché la vita di molti continui ad avere un sapore evangelico; disposti a rispondere alle sfide della cultura di oggi. Non dobbiamo dimenticare che se la cultura è il mezzo per cercare un senso, allora può essere considerata oggetto di una legittima ricerca teologica e spirituale.  In questo cammino sinodale si è parlato molto della necessità di fare silenzio, di ascoltare. Fare silenzio, ascoltare, cercare di capire e comprendere, perseverare nella ricerca di risposte autentiche alle preoccupazioni dell’uomo di oggi. La verità che cerchiamo, per noi cristiani, non è un concetto, è una persona! È una persona viva! In questo senso, la verità vivente ha sempre bisogno di essere cercata, desiderata e amata in modo nuovo. Mi chiedete delle riforme visibili dopo il Sinodo. Ebbene, lo stesso processo sinodale esprime già qualcosa di nuovo. Per dire di più: credo che anche il linguaggio usato per trasmettere il messaggio sia in crisi. Trovare un linguaggio che risponda alle esigenze degli adolescenti e dei giovani di oggi, ad esempio, è una necessità impellente. Sono nativi digitali, sono segnati da quella che viene chiamata intelligenza artificiale, che richiede un approccio particolare. Immagino che arriveremo ad approfondire le istanze di partecipazione alla vita ecclesiale ordinaria; mi riferisco ai vari consigli già previsti, alla questione della ministerialità all’interno delle comunità e, in senso più ampio, all’identità, alla missione e alle competenze dei Consigli ecclesiali, delle Conferenze episcopali, delle Province ecclesiastiche.

*giornalista de “La vita del popolo”

Partita la macchina dell’accoglienza per i 100 mila sfollati. L’Armenia entra nel Cpi e si allontana dalla Russia

Gio, 05/10/2023 - 09:43

Le file in macchina, le attese, la mancanza di carburante, i check point organizzati per le registrazioni, la stanchezza. Si sono ripetute in questi giorni anche in Armenia le immagini degli sfollati in fuga dal Nagorno Karabakh, dopo che il 19 settembre le forze azere hanno aperto il fuoco contro le postazioni armene, in quella che è stata definita un’ “operazione antiterrorismo”. Sul posto, ad aiutare gli armeni giunti al confine, c’era anche Christina Petrosyan, avvocato, attivista per i diritti umani e presidente dell’ong “legal culture”. “Siamo andati lì immediatamente con un gruppo di giovani volontari  – racconta – ed abbiamo soccorso le persone che a bordo delle macchine stavano entrando in Armenia. Abbiamo distribuito cibo, acqua, e dolci per i bambini”. La strada per raggiungere i primi centri di registrazione di Goris e di Vayk è lunga. Il traffico era congestionato e alcuni hanno dovuto dormire in macchina anche una notte, prima di poter continuare il cammino.

“Erano distrutti e affamati”.

Armenia, giovani volontari in aiuto degli sfollati dal Nagorno Karabakh (Foto Christina Petrosyan)

Il governo ha pianificato un complesso sistema di prima accoglienza. Secondo i dati forniti dalle autorità, aggiornati al 4 ottobre, il numero degli sfollati forzati dal Nagorno Karabakh è di 100.625 persone di cui 29 mila sono bambini. 21.195 sono invece i veicoli che hanno attraversato il ponte Hakari. Il numero invece di persone registrate è di 95.711, pari al 95% degli sfollati. La registrazione è fondamentale per poter accedere ai programmi di sostegno statale e ai vari centri di accoglienza predisposti in tutto il Paese. Ai punti di registrazione, le persone ricevono una carta bancaria dove potranno accedere nei prossimi giorni al sostegno finanziario, una carta telefonica armena, informazioni utili, una prima valutazione sui bisogni delle famiglie e infine la destinazione finale. Nel Report del governo vengono indicate le città ospiti ma “molti hanno rifiutato le destinazioni suggerite perché  vogliono andare a Yerevan”, nella capitale, dove però – racconta l’avvocato – i prezzi degli alloggi sono molto alti ed è diventato ora anche molto difficile trovare case libere. Molte famiglie si mettono insieme. Mi è capitato di andare in un appartamento dove vivevano 19 persone”.

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“Non è una guerra, è un’aggressione verso una popolazione pacifica”, racconta l’attivista per i diritti umani. “Una donna mi ha raccontato che a causa del bombardamento, è dovuta fuggire senza prendere niente. Aveva solo un paio di scarpe e i vestiti con cui è fuggita. La gente ha perso tutto. C’è chi ha perso parenti, chi i mariti, tutto. Hanno dovuto lasciare la casa, il lavoro. Non hanno per esempio avuto il tempo di portare con sé i diplomi per cui ora non hanno prova della loro istruzione o del loro lavoro. Tra gli sfollati, ci sono dottori e professionisti. Gente che aveva un’alta qualità di vita e ora si sente povera. Obbligata a mettersi in coda per ricevere cibo, vestiti, aiuti. Chiedono di poter trovare un lavoro. Sono stanchi ma sono pronti a ricominciare da zero. Sono forti ma se ti soffermi a guardarli negli occhi, cominciano a piangere”.  In Nagorno Karabakh, sono rimaste pochissime persone. Ma di loro si sa pochissimo, le comunicazioni sono difficili. “Possiamo dire che il 99% della popolazione è scappata”, racconta l’avvocato. “L’Azerbaigian ripete in continuazione che nessuno ha imposto loro di andarsene, ma la gente ha visto cosa hanno fatto i soldati azeri. Hanno ucciso i bambini. Hanno violentato. Non si sono fermati davanti a niente e a nessuno. Per questo l’unica scelta era andare via. Dire che non sono stati obbligati, è semplicemente cinico”.

Il 3 ottobre, in diretta tv, il parlamento armeno ha ratificato con 60 voti a favore e 20 contrari lo Statuto di Roma, il trattato che istituisce la Corte penale internazionale (Cpi). Il voto ha sollevato le critiche di Mosca, tradizionale alleato di Yerevan, con cui le relazioni si sono ultimamente inasprite. La Russia non vede di buon occhio l’adesione dell’Armenia alla Cpi anche per via del mandato di arresto spiccato contro il presidente Vladimir Putin dalla stessa Corte in primavera. “E’ stata una decisione enorme e coraggiosa per l’Armenia – spiega l’avvocato – perché è come aver inviato alla Russia un messaggio chiaro: stiamo andando verso l’Occidente. Ma per avere un minimo di indipendenza dalla Russia, dobbiamo anche avere un minimo di garanzia di sicurezza da parte dell’Occidente per essere protetti dalla Turchia o dall’Azerbaigian”.

“L’Armenia ha fatto un passo verso l’Europa. Ora tocca all’Europa compiere i suoi passi per aiutare l’Armenia a resistere”.

 

Le molte anime del cammino sinodale negli Usa, tra speranze e timori

Gio, 05/10/2023 - 09:36

(New York). Si è conclusa con l’invocazione dell’Ave Maria per il prossimo Sinodo sulla sinodalità, la Messa domenicale nella parrocchia di santa Francesca di Chantal, nel Bronx. Il sacerdote, prima della benedizione finale ha ricordato l’apertura del Sinodo, ha invitato i fedeli a pregare affinché vengano prese decisioni determinanti per la Chiesa e “scongiurare posizioni troppo liberali sulla dottrina così come stanno prendendo piede in alcune parti del mondo”.

Di diverso avviso è la diocesi di El Paso, al confine con il Texas, che contando su un suo rappresentante in presenza a Roma, spera che la priorità del dibattito sia data agli emarginati, a chi vive alla periferia o si è addirittura allontanato dalla Chiesa. Ivan Montelongo, sacerdote trentenne, coordinatore del Sinodo sulla sinodalità nella diocesi texana, sarà infatti uno dei 24 delegati statunitensi (14 vescovi, 9 laici) che fino al 29 ottobre saranno a Roma, assieme a papa Francesco. Con Ivan ci sarà anche il vescovo Robert Barron, a nome della Conferenza episcopale statunitense. Scrivendo ai suoi fedeli, poco prima della partenza Barron ha espresso speranze e timori legati a questa esperienza, che contiene non pochi rischi di derive soprattutto sui rapporti con gli esponenti della comunità Lgbtq+, ma anche su una maggiore presenza femminile nel governo della Chiesa. “La mia reale speranza è che l’impegno sia della dimensione pastorale che in quella propriamente teologica della questione dell’inclusione sia un lavoro chiave del Sinodo”, ha detto Barron.

Gli Stati Uniti vivono con animo molteplice il cammino sinodale e osservano a distanza quali implicazioni le decisioni finali potranno avere sulla loro fede. Il processo sinodale della Chiesa nordamericana è stato “disordinato”, “gioioso” e “unificante – come il Sinodo stesso”, hanno detto i coordinatori della fase preparatoria, presentando il documento di 36 pagine che raccoglie lo stato d’animo dei fedeli del Nordamerica. Tutti i partecipanti si sono mostrati particolarmente sensibili al tema dell’accoglienza e della non discriminazione. In virtù del battesimo “i cristiani condividono la stessa dignità e chiamata alla santità per cui non c’è posto per ineguaglianze basate sulla razza, la nazionalità, la condizione sociale o il sesso” si legge nel testo finale, dove si chiede anche una “maggiore corresponsabilità dei laici dentro la Chiesa”.

La Chiesa nordamericana ha scelto di lavorare più online che in presenza sui temi del Sinodo, preferendo evitare un’assemblea sinodale in persona. Monsignor John Stowe, vescovo di Lexington in Kentucky è rammaricato di questa mancata occasione di incontro che avrebbe consentito maggiore ascolto, conoscenza, scambio di esperienze. Nella diocesi di Pittsburgh alcune parrocchie hanno dedicato incontri settimanali al processo sinodale per molti mesi, ma non sono state poche quelle che hanno voluto invece concentrare tutto il lavoro preparatorio in un incontro. A Detroit, poiché il processo sinodale non è stato particolarmente ampio nel coinvolgimento, non pochi cattolici hanno scelto di trovare vie alternative di partecipazione, unendosi ad altri gruppi fuori dalla diocesi. Discerning Deacon, un gruppo laico del Nevada, che si interroga sul diaconato e sul ruolo della donna nella Chiesa, ha ospitato oltre 350 sessioni di consultazione sinodale, anche online, per offrire uno spazio di ascolto a quanti non avevano accesso ad altri luoghi di partecipazione.

Il processo sinodale ha incuriosito i giornali laici del Paese: sia il liberale New York Times, sia il moderato Washington Post, che il quotidiano finanziario Wall Street Journal hanno dedicato diversi articoli alle questioni più scottanti del Sinodo. Parecchie critiche al processo sinodale sono arrivate proprio da alcuni media cattolici. In una trasmissione molto popolare, Ewtn, il grande network cattolico d’America, ha definito il processo sinodale un “momento di crisi” per la Chiesa globale. Il sito conservatore First Things ha deciso di seguire tutto il periodo del Sinodo con una rubrica specializzata, intitolata Lettere dal Sinodo-2023, dove si esplorano non solo le tematiche dell’assemblea romana, ma si invita ogni giorno, anche chi non è cattolico, a porre domande su questa esperienza sinodale.

Julia Oseka, sarà tra le più giovani partecipanti al Sinodo, direttamente nominata da papa Francesco. Iscritta alla St. Joseph’s University di Philadelphia, durante il dibattito preparatorio, nel suo campus, ha sempre sostenuto che le donne e le persone Lgbtq+ dovrebbero avere un ruolo maggiore nella Chiesa e con lei tanti dei suoi giovani colleghi. I dibattiti sono stati comunque un’occasione per comprendere “quante persone svantaggiate ci siano nella Chiesa”, a cui non può essere negato il diritto di far sentire la propria voce. Anche questa è una delle sfide, che secondo il vescovo di Seattle, Paul Etienne, occuperà i partecipanti, assieme a tante altre che emergeranno durante il dialogo. Per lui il metodo sinodale è “una delle più grandi intuizioni della Chiesa”, che di fronte alle sfide o alle necessità di cambiamento ha la sua propria soluzione: i Sinodi.

Papa Francesco nella Laudate Deum: “Di fronte alla crisi climatica non reagiamo abbastanza”

Mer, 04/10/2023 - 12:06

Di fronte alla crisi climatica “non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura”. Otto anni dopo la Laudato sì, Papa Francesco con l’esortazione apostolica Laudate Deum lancia un nuovo appello “alle persone di buona volontà” e alle forze politiche a partire da una certezza:

“l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti”.

Per Francesco, infatti, “si tratta di un problema sociale globale che è intimamente legato alla dignità della vita umana”. “Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti”, la tesi del Papa, che elenca gli effetti tangibili di

“una malattia silenziosa che colpisce tutti noi”.

No, allora, alla tendenza a “minimizzare” il problema o addirittura a metterlo in ridicolo, considerandolo una questione “solo ambientale, ‘verde’, romantica” e non invece – quale è – “un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli”. Anche nella Laudate Deum – come aveva fatto con la Laudato si’ – Bergoglio contesta ogni riduzionismo sulla crisi climatica, che “richiede un coinvolgimento di tutti”:

tutta la società “dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta ad ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli”.

Non sono i poveri che fanno troppi figli la causa della crisi climatica, scrive Francesco denunciando i falsi luoghi comuni in materia. Non è vero che gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico porteranno a una riduzione dei posti di lavoro: al contrario, “milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico”, come l’innalzamento del livello del mare o la siccità. Anche all’interno della Chiesa cattolica circolano “opinioni sprezzanti e irragionevoli”, ma l’origine antropica del cambiamento climatico “non può più essere messa in dubbio”. Le grandi potenze economiche, invece, si preoccupano solo di “ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibili”.

“Non possiamo più fermare gli enormi danni che abbiamo causato. Siamo appena in tempo per evitare danni ancora più drammatici”,

l’appello del Papa.

“La possibilità di raggiungere un punto di svolta è reale”, ma è “urgente una visione più ampia”, all’insegna della “responsabilità per l’eredità che lasceremo dietro di noi dopo il nostro passaggio in questo mondo”.

La pandemia di Covid-19 “ha confermato che quanto accade in qualsiasi parte del mondo ha ripercussioni sull’intero pianeta”, sottolinea Francesco, ribadendo due convinzioni di fondo: “tutto è collegato”, come si legge nella Laudato sì, e “nessuno si salva da solo”, come ha ripetuto a più riprese durante la pandemia e nella Fratelli tutti.

Nella Laudate Deum, come aveva fatto nella Laudato si’, il Papa stigmatizza ancora una volta il “paradigma tecnocratico”, che in questi otto anni ha conosciuto “un nuovo avanzamento”, grazie all’intelligenza artificiale.

“Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo. In quali mani sta e in quali può giungere tanto potere? È terribilmente rischioso che esso risieda in una piccola parte dell’umanità”.

“Dobbiamo tutti ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti”, sostiene Francesco: “il nostro potere è aumentato freneticamente in pochi decenni. Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo

siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza”.

“La decadenza etica del potere reale è mascherata dal marketing e dalla falsa informazione, meccanismi utili nelle mani di chi ha maggiori risorse per influenzare l’opinione pubblica attraverso di essi”, incalza il Papa, che stigmatizza “la logica del massimo profitto al minimo costo e a livello politico e diplomatico auspica un

“multilateralismo dal basso” che “non dipende dalle mutevoli circostanze politiche o dagli interessi di pochi e che abbia un’efficacia stabile”.

Tra le proposte, quella di dare più spazio ad “aggregazioni e organizzazioni della società civile”. In sintesi, più “democratizzazione” nella sfera globale, anche tramite “una nuova procedura per il processo decisionale e per la legittimazione di tali decisioni, poiché quella stabilita diversi decenni fa non è sufficiente e non sembra essere efficace”: “non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti”.

La Cop28 di Dubai “può essere un punto di svolta”,

se porta ad una “decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente”, afferma Francesco passando in rassegna le conferenze sul clima, con i loro progressi e fallimenti.

“Dobbiamo superare la logica dell’apparire sensibili al problema e allo stesso tempo non avere il coraggio di effettuare cambiamenti sostanziali”,

l’indicazione di rotta: “Corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare col filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare”, il grido d’allarme finale: “Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto-valanga”.

Papa Francesco: “La Chiesa non si lascia dettare l’agenda dal mondo”

Mer, 04/10/2023 - 10:31

“Questo è il compito primario del Sinodo: ricentrare il nostro sguardo su Dio, per essere una Chiesa che guarda con misericordia l’umanità”. Nell’omelia della Messa di apertura del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, davanti a 25mila persone, tra cui i 365 membri sinodali, Papa Francesco ha tracciato il suo ritratto del popolo di Dio che cammina nella storia: “Una Chiesa unita e fraterna, o almeno che cerca di essere unita e fraterna, che ascolta e dialoga; una Chiesa che benedice e incoraggia, che aiuta chi cerca il Signore, che scuote beneficamente gli indifferenti, che avvia percorsi per iniziare le persone alla bellezza della fede.

Una Chiesa che ha Dio al centro e che, perciò, non si divide all’interno e non è mai aspra all’esterno.

Una Chiesa che rischia con Gesù. Così Gesù vuole la Chiesa, così vuole la sua sposa”.

“Non ci serve uno sguardo immanente, fatto di strategie umane, calcoli politici o battaglie ideologiche”,

ha esordito Francesco per fugare ogni dubbio sull’assise che si apre oggi in Aula Paolo VI, fino al 29 ottobre: “Non siamo qui per portare avanti una riunione parlamentare o un piano di riforme.

Il Sinodo non è un parlamento: protagonista è lo Spirito Santo.

Non siamo qui per fare parlamento, siamo qui per camminare insieme con lo sguardo di Gesù, che benedice il Padre e accoglie quanti sono affaticati e oppressi”. “Lo sguardo benedicente del Signore invita anche noi a essere una Chiesa che, con animo lieto, contempla l’azione di Dio e discerne il presente”, ha proseguito il Papa: “E che, fra le onde talvolta agitate del nostro tempo, non si perde d’animo, non cerca scappatoie ideologiche, non si barrica dietro convinzioni acquisite, non cede a soluzioni di comodo, non si lascia dettare l’agenda dal mondo”. “Questa è la sapienza spirituale della Chiesa”, ha commentato citando la “serenità” di San Giovanni XXIII, nel discorso di apertura del Concilio. “Essere una Chiesa che non affronta le sfide e i problemi di oggi con uno spirito divisivo e conflittuale ma che, al contrario, volge gli occhi a Dio che è comunione e, con stupore e umiltà, lo benedice e lo adora, riconoscendolo suo unico Signore”, il secondo invito di Francesco, che ha precisato: “Non vogliamo glorie terrene, non vogliamo farci belli agli occhi del mondo, ma raggiungerlo con la consolazione del Vangelo, per testimoniare meglio, e a tutti, l’amore infinito di Dio”. Imparare da Gesù, dal suo “sguardo ospitale verso i più deboli, i sofferenti, gli scartati”, l’altra consegna:

“Questo sguardo accogliente di Gesù invita anche noi ad essere una Chiesa ospitale, non con le porte chiuse”,

ha affermato il Papa, secondo il quale “in un tempo complesso come il nostro, emergono sfide culturali e pastorali nuove, che richiedono un atteggiamento interiore cordiale e gentile, per poterci confrontare senza paura”. “Nel dialogo sinodale, in questa bella marcia nello Spirito Santo che compiamo insieme come popolo di Dio, possiamo crescere nell’unità e nell’amicizia con il Signore per guardare alle sfide di oggi con il suo sguardo”, la certezza di fondo: “per diventare, usando una bella espressione di San Paolo VI,

una Chiesa che ‘si fa colloquio’.

Una Chiesa ‘dal giogo dolce’, che non impone pesi e che a tutti ripete: ‘Venite, affaticati e oppressi, venite, voi che avete smarrito la via o vi sentite lontani, venite, voi che avete chiuso le porte alla speranza: la Chiesa è qui per voi!’”.

“La Chiesa dalle porte aperte a tutti, tutti!”,

l’aggiunta a braccio. Al termine dell’omelia, il Papa ha messo in guardia l’intero popolo di Dio, rappresentato in piazza San Pietro, dal “cadere in

alcune tentazioni pericolose: di essere una Chiesa rigida, una dogana, che si arma contro il mondo e guarda all’indietro; di essere una Chiesa tiepida, che si arrende alle mode del mondo; di essere una Chiesa stanca, ripiegata su sé stessa”.

“Camminiamo insieme: umili, ardenti e gioiosi”, l’esortazione ai 365 membri del Sinodo: “Camminiamo sulle orme di San Francesco d’Assisi, il Santo della povertà e della pace, il ‘folle di Dio’ che ha portato nel corpo le stigmate di Gesù e, per rivestirsi di lui si è spogliato di tutto”. “Com’è difficile questa spogliazione, interiore ed esteriore, di tutti noi, anche delle istituzioni!”, l’esclamazione a braccio: “San Bonaventura racconta che, mentre pregava, il Crocifisso gli disse: ‘Va’ e ripara la mia chiesa’”. “Il Sinodo serve a ricordarci questo”, ha spiegato il Santo Padre:

“La nostra Madre Chiesa ha sempre bisogno di purificazione, di essere ‘riparata’, perché noi tutti siamo un popolo di peccatori perdonati,

sempre bisognosi di ritornare alla fonte che è Gesù e di rimetterci sulle strade dello Spirito per raggiungere tutti col suo Vangelo”. L’esempio è ancora quello di Francesco di Assisi, che “in un tempo di grandi lotte e divisioni, tra il potere temporale e quello religioso, tra la Chiesa istituzionale e le correnti eretiche, tra i cristiani e altri credenti, non criticò e non si scagliò contro nessuno, imbracciando solo le armi del Vangelo: l’umiltà e l’unità, la preghiera e la carità. Facciamo anche noi così! E se il popolo santo di Dio con i suoi pastori, da ogni parte del mondo, nutre attese, speranze e pure qualche paura sul Sinodo che iniziamo, ricordiamo ancora che esso non è un raduno politico, ma una convocazione nello Spirito; non un parlamento polarizzato, ma un luogo di grazia e di comunione”.

“Il momento di più frutto nel Sinodo sono i momenti di preghiera,

anche l’ambiente di preghiera col quale il Signore agisce in noi”, ha concluso il Papa ancora fuori testo: “Lo Spirito Santo, poi, spesso frantuma le nostre aspettative per creare qualcosa di nuovo, che supera le nostre previsioni e le nostre negatività. Apriamoci a lui, lasciamo che sia lo Spirito Santo il protagonista del Sinodo. E con lui camminiamo, nella fiducia e con gioia”.

San Francesco d’Assisi e il primato dell’uomo sul creato

Mer, 04/10/2023 - 10:25

Il 29 novembre 1979 Giovanni Paolo II – con la lettera Inter sanctos – proclamava san Francesco d’Assisi patrono dei cultori dell’ecologia poiché egli spiccava tra i santi e gli altri grandi uomini che avevano “percepito gli elementi della natura come uno splendido dono di Dio agli uomini” e avevano contemplato “in modo singolare le opere del Creatore”. Non sempre, però, tali aspetti sono stati tenuti in debita considerazione, al punto che per alcuni l’Assisiate è divenuto un ambientalista, per altri addirittura un vegetariano; ma egli vegetariano non fu: chiamava sì “con il nome di fratello gli animali”, faceva un uso limitato della carne perché non era un cibo da poveri e come conseguenza di precise scelte e pratiche penitenziali, ma non escludeva di potersene nutrire. Resta vero invece che ricostruì un rapporto di sintonia profonda con tutta la creazione, soprattutto con il vertice dell’opera creatrice di Dio, che è l’uomo.

In effetti, la radice di ogni comportamento di Francesco sta nel rapporto che egli seppe ricostruire con Dio, quel Dio al quale non aveva prestato attenzione per buona parte della propria vita. Quando, dopo un travaglio durato anni, giunse infine a scelte definitive con la decisione di uscire dal secolo – vale a dire con l’abbandono dei valori perseguiti dal mondo (e che fino all’età di ventiquattro anni erano stati anche i suoi) per riscoprire la bontà e la paternità di Dio – tutto acquistò un senso diverso: i poveri gli manifestarono il volto di Cristo, i nemici divennero uomini da amare, gli animali furono i suoi fratelli più piccoli, il creato si rivelò ai suoi occhi come l’orma del Creatore.

Non solo gli uomini, per lui, erano chiamati alla lode di Dio, ma tutta intera la creazione. È solo in questo contesto che possiamo comprendere nella sua piena e vera luce il Cantico di frate sole, il più famoso tra i componimenti poetici di Francesco. Un testo che – contrariamente a quel che molti credono – nacque in circostanze umanamente tutt’altro che positive.

C’è però punto forte nel suo discorso: la creazione tutta, opera di Dio, è chiamata alla sua lode, ma vi è chiamato soprattutto l’uomo, che ne è posto al vertice, poiché ogni cosa gli è stata data affinché se ne serva e la restituisca al Creatore. Il dramma è tutto qui: che le creature servono Iddio molto meglio dell’uomo, poiché, mentre esse obbediscono al Creatore, l’uomo gli volta tranquillamente le spalle. Concetti che Francesco esprime in modo efficace nella quinta delle sue Ammonizioni: “Considera, o uomo, in quale sublime condizione ti ha posto il Signore Dio, poiché ti ha creato e formato a immagine del suo Figlio diletto secondo il corpo e a similitudine di lui secondo lo spirito. E tutte le creature, che sono sotto il cielo, per parte loro servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te”.

Questa sua scelta radicale di Dio, la sua decisione di “vivere secondo la forma del santo Vangelo” è anche alla radice della costante modernità di san Francesco. Perché la sua persona sa suscitare consenso anche in un mondo come il nostro, ormai secolarizzato e distante dall’esperienza religiosa? Credo che la risposta sia una sola: la sua perenne attualità sta tutta nella perenne novità del Vangelo. Francesco risulta attuale proprio per il suo radicale evangelismo: nella sua esperienza – scrisse Yves Marie-Joseph Congar (1904-1995) – si riflette l’assoluto del Vangelo della cristianità. Per questo egli resta, per noi, ancor oggi un modello…

(*) arcivescovo di Benevento

Un fascino oltre lo spazio e il tempo

Mer, 04/10/2023 - 09:44

Fa bene Jacques Dalarun a ricordare che in un passaggio degli Atti del beato Francesco e dei suoi compagni, poi ripreso nei Fioretti, san Francesco risponde a frate Masseo che gli chiede ostinatamente perché Dio si sia rivolto a lui: il Signore, per mostrare la sua onnipotenza “non ha trovato più vile creatura sulla terra” di lui. Un esempio di umiltà che non ha bisogno di altre parole. “Corpus franciscanum. Francesco d’Assisi, corpo e scrittura” (Edizioni Biblioteca Francescana, 183 pagine, 36 euro) è in realtà un aggiornato studio filologico in cui emergono chiaramente non solo i documenti, ma anche le vicissitudini di un uomo che decide di andarsene senza ragioni apparenti, con un atto di follia per i “savi”, una follia che però ha cambiato la Chiesa, gli uomini e il mondo intero, o per lo meno il modo di vivere di molti in latitudini diverse.Lo stesso Hermann Hesse, nel suo secondo viaggio in Italia, siamo nel 1903, era rimasto affascinato dai luoghi che avevano visto il percorso del Poverello, un uomo cambiato radicalmente nell’amore di Dio e di Madre Terra: “Davanti ai suoi occhi era caduto un velo, il mondo che vedeva era purificato e sacro, trasfigurato come il primo beato giorno del Paradiso”, scrive in “Francesco d’Assisi”. L’uomo che tra qualche anno avrebbe scelto l’oriente di Siddharta si era inchinato di fronte ad un altro tramite tra l’uomo e l’Impermanente.
Francesco ha affascinato tutti, musicisti come Liszt, che gli dedicò la prima delle Due leggende con l’episodio della predicazione agli uccelli, registi (Rossellini, Zeffirelli, Cavani e molti altri), senza dimenticare la scena della spoliazione della protagonista nel film “Cuore sacro”, di Özpetek, dopo la quale ovviamente arriva la visita della psichiatra (probabilmente ci sarebbe stata anche per Francesco se non fossimo stati in anticipo sui tempi) e soprattutto scrittori e artisti.
Certo, è d’obbligo citare il Giotto della Basilica superiore di Assisi, ma anche il Ghirlandaio di Santa Trinita di Firenze, con la spoliazione del santo – e su questo episodio torneremo più volte – : il vescovo lo ricopre con il suo mantello di fronte al padre e ad una corona di persone meravigliate e dagli splendidi abiti. Ma non dobbiamo dimenticare le due varianti di fine Cinquecento di Caravaggio rappresentanti l’estasi del santo sorretto da un angelo, una negli Stati Uniti e l’altra ai Civici Musei di Udine. E sono solo pochissimi esempi.
Ma proprio la letteratura ci offre una prova certa del fascino francescano, perché ne parlano anche e soprattutto scrittori lontani dalla fede e dalla Chiesa, come l’anticlericale Carducci nella commossa “Santa Maria degli Angeli” o D’Annunzio, o il Pirandello di una scena sulla cui affinità con la spoliazione di Assisi si è spesso sorvolato: il benestante protagonista di “Uno nessuno e centomila”, Vitangelo Moscarda, in piena crisi esistenziale, su consiglio dei collaboratori del vescovo dona tutti suoi beni affinchè si costruisca un ospizio per i poveri, nel quale lui stesso entra, ponendosi in contemplazione delle “nubi d’acqua”, “questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi”, per aprire il proprio spirito al respiro degli alberi, alle albe, alle creature umili, come l’asinello “rimasto al sereno tutta la notte”. Una vera e propria spoliazione, ovviamente con modalità differenti, dai borghesi vestiti all’ “abito della comunità”, la mediazione della locale chiesa, la nuova attenzione verso il creato, il dileggio e lo sprezzo della gente.
Ma anche Chesterton non era rimasto indenne dalla fascinazione di un santo a cui dedicò un libro nel quale metteva in evidenza come chi si fa seguace di Cristo non può non sembrare paradossale e strano. Un fuori di testa per i benpensanti che però, suggerisce l’autore de “L’uomo che fu giovedì”, ha dato inizio alla poesia prima di Dante e all’arte dei grandi che sono stati rapiti dalla sua figura.
E proprio Dante è all’inizio della memoria del santo nella letteratura: a distanza di neanche un secolo nel Paradiso ci racconta di un uomo che in punto di morte ai suoi seguaci “raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede”. Quella donna, come è noto, è la povertà. Una forma di amore non astratto né retorico, ma reale, fatto di ciò che noi chiamiamo privazioni, e che per il bene dei nostri figli dovremmo imparare a vedere come essenziale e dono di “sora nostra madre terra, la quale ne sostenta e governa, e produce diversi fructi, con coloriti fiori et erba”. Non solo un santo cristiano, ma un profeta che ci indica la strada dell’oggi.

Francesco d’Assisi, l’uomo nella sinfonia del creato

Mer, 04/10/2023 - 09:43

Dio, che si manifesta in ogni vivente, ha rivelato in Francesco di Assisi la bellezza dell’incarnazione abitata dallo Spirito.
Il Poverello di Assisi parla ancora oggi con la sua vita alla nostra storia. Adolescente, si sente il centro dell’universo, esibisce comportamenti e atteggiamenti di grandiosità e di onnipotenza, idealizza ciò che lo conferma. Non rispetta le regole, anche perché i genitori non lo hanno aiutato ad osservarle. Il suo io diviene il principio e il fine della sua esistenza, vive come se Dio e gli altri non esistessero.
Uno stile di vita incarnato da Francesco fino a quando” la mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per mezzo suo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio” (1Cel 321).
Condotto dallo Spirito, si reca nella chiesetta di S. Damiano per pregare. Nell’immagine di Cristo crocifisso dipinto che muove le labbra e lo chiama per nome, incontra il volto umano di Dio che gli chiede di andare a riparare la sua casa che è tutta in rovina (cfr. 2Cel 593). Pieno di stupore Francesco decide di dare una svolta radicale alla sua vita, imprimendo ad essa una nuova direzione.Identificandosi con Cristo povero e crocifisso, scorge il suo volto nei poveri e, liberandosi di tutto, coniuga fattivamente la fede con la vita, traducendo alla lettera il Vangelo nel quotidiano.
Nell’incontro con il Crocifisso povero impara ad accogliere se stesso e gli altri, in particolare i lebbrosi, gli scartati del suo tempo, verso i quali provava un’istintiva ripugnanza. Smettendo di adorare se stesso, supera la distanza dagli altri, come difesa, e sceglie di far parte del mondo degli esclusi, di essere povero come e tra i poveri.
Vive “senza nulla di proprio” e, libero di ogni impedimento, si dedica alla cura di ogni relazione. Consegnandosi a Cristo, struttura la sua esistenza nel suo amore e da Lui impara ad essere dono a chi incontra senza condizioni o scelta di persone, rendendo visibile la prossimità del Signore all’umanità.
L’esperienza di Francesco è attuale e può aiutare molti a ripensare oggi la propria vita, soprattutto perché l’individuo, rivendicando spesso i diritti e non rispettando i doveri, fa coincidere tutto il mondo con se stesso: tutto parte da sé e tutto finisce con sé.
Occorre una seria riflessione, per aprire nuovi processi formativi che permettono lo sviluppo integrale della persona, come ha fatto Francesco. Egli, scoprendo il senso della sua esistenza in Cristo povero e crocifisso, compie il salto nell’adultità, imprimendo nella sua vita una prospettiva diversa. Lasciandosi amare e plasmare dal Crocifisso spoglio di tutto, riconosce la sua presenza in ogni creatura e porta, perciò, il suo amore ovunque.
Francesco che compone il Cantico di Frate Sole (FF 263) in un momento di forti sofferenze fisiche e di sensazione del fallimento, canta con la lauda la riconciliazione universale. Unificandosi in Cristo povero e crocifisso, scopre nel suo amore che tutte le creature, armonicamente connesse, sono dono di Dio, impronta della sua presenza. Il Poverello di Assisi “ridondava di spirito di carità, assumendo viscere di misericordia non solo verso gli uomini provati dal bisogno, ma anche verso gli animali bruti senza favella, i rettili, gli uccelli e tutte le creature sensibili e insensibili” (1Cel 455).
S. Giovanni Paolo II, proclamando S. Francesco patrono dei cultori dell’ecologia, sollecita gli uomini e le donne del nostro tempo a salvaguardare il creato, in quanto espressione dell’amore di Dio per l’umanità, luogo dove tutte le fedi si possono incontrare.
È tempo, però, di cogliere oggi il messaggio autentico di S. Francesco, per non incorrere in sbilanciamenti che portano a difendere tutte le creature, estromettendo nello stesso tempo dall’elenco la cura degli esseri umani. Se muoiono degli anziani dimenticati nella solitudine o dei bambini per fame, la notizia viene comunicata a volte con poche battute e velocemente esce dal circolo mediatico dell’informazione. Al contrario, se si trovano degli animali domestici soli per strada, la notizia non fatica ad occupare le prime pagine o i primi titoli di tutte le testate; si indaga alla ricerca dei proprietari; si prova a trovare benefattori pronti ad adottare ecc. Ma non solo.
Oggi si spendono tanti soldi per curare la vita e l’estetica degli animali, cosa peraltro buona, purtroppo non avviene lo stesso per tante persone costrette a rimandare cure importanti, a volte vitali per se stessi e i loro cari, per non mancanza di risorse! Il paradosso: chi contesta gli esperimenti sugli animali, contemporaneamente, non pronuncia una parola per tutelare la vita umana dal concepimento alla fine naturale.
Come mettere gli uomini e le donne almeno sullo stesso piano di cura degli animali? Chi è oggi per noi l’essere umano? C’è forse qualcosa da rivisitare nella nostra vita?Nelle Fonti è scritto che la pietà del cuore aveva reso Francesco fratello di tutte le altre creature e che la carità di Cristo lo rendeva ancor più intensamente fratello di coloro che sono stati redenti dal sangue del Redentore. Egli non si riteneva amico di Cristo, se non curava con amore le anime da lui redente. Niente, diceva, si deve anteporre alla salvezza delle anime, e confermava l’affermazione soprattutto con questo argomento: l’Unigenito di Dio, per le anime, si era degnato di salire sulla croce (cfr. LegM 1168).
Francesco non esalta il creato in sé, ma aiuta a vedere la ragione della sua esistenza nel Creatore, individuando il posto che occupa nella vita e la sua funzione. La sua storia ci esorta a vivere ogni istante alla presenza di Dio. La relazione con il Signore ci permette di connetterci con tutto il creato senza confusione, nel rispetto di ogni essere vivente che, pur nella diversità sinfonica, fa contemplare la bellezza dell’Altissimo.

Sinodo dei Vescovi. Mons. Castellucci (Cei): “Meno burocrazia, ascoltare il bisogno di Dio che c’è fuori alla Chiesa”

Mer, 04/10/2023 - 09:00

“Ci aspettiamo che il Sinodo sulla Chiesa sinodale possa contribuire a scardinare alcune dinamiche interne. Le riforme richiedono una lunga prassi per essere attuate nelle comunità cristiane, affinché edifichino e non dividano. Ci attendiamo anche qualche indicazione in più sul ministero della presidenza delle comunità e la possibilità di una reale corresponsabilità dei laici. È un tema di tale valenza che non può essere affrontato solo nelle Chiese nazionali, ma deve avere un respiro universale”. Mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena, vescovo di Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, in occasione dell’apertura della prima sessione del Sinodo dei Vescovi, che si tiene in Vaticano dal 4 al 29 ottobre.

Eccellenza, l’ascolto è stato al centro della fase preparatoria del Sinodo. E sarà anche un tratto distintivo dei lavori che vedranno presenti in Vaticano 464 partecipanti con 365 votanti?
Nel rapporto della Chiesa con la società e con la cultura dobbiamo avere uno stile di ascolto. Lo abbiamo sperimentato dall’inizio del Sinodo, il Papa ha insistito tanto sulla necessità di ascolto ricordando che la Chiesa è in “debito di ascolto”. Abbiamo attivato in tutte le Chiese locali delle prassi parzialmente nuove, ponendoci non tanto come coloro che devono dire qualcosa ma come coloro devono stare a sentire ciò che gli altri hanno da dire. Soltanto dopo si può annunciare Gesù Cristo in una realtà che in qualche modo presenta dei punti di aggancio, perché

uno dei grandi rischi che questo Sinodo generale vuole evitare è di impacchettare delle dottrine che poi dovrebbero essere assimilate.

Ma lo stile di Gesù è stato quello di innestarsi nella realtà quotidiana del mondo, di annunciare il Signore nelle attese e nelle sofferenze della gente.

Parlando all’Assemblea nazionale dei referenti diocesani del Cammino sinodale della Chiesa italiana, Lei ha ribadito la necessità di “adottare uno stile nuovo di essere Chiesa per la missione”. È anche la priorità del Sinodo dei Vescovi?
Papa Francesco ha messo al primo posto l’annuncio e la missione, ispirandosi all’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi di Paolo VI. Nella Evangelii Gaudium, infatti, ha ribadito che la preoccupazione della Chiesa non deve essere la struttura interna ma l’attesa del mondo: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.

Troppo spesso ci chiudiamo in burocrazie e in meccanismi che riteniamo essere importanti ma che, in realtà, ci impediscono di ascoltare il bisogno di Dio che c’è fuori.

È sempre il Santo Padre a ricordarcelo: “Penso ai momenti in cui Gesù bussa dall’interno per lasciarlo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Cristo dentro di sé e non lo fa uscire”. Non dobbiamo sprecare tempo, energie e passione. Abbiamo l’occasione per ristabilire gli equilibri interni, risolvere le beghe tra di noi e poi uscire ad annunciare il Vangelo. Per farlo, però, è necessario mettere al primo posto il bisogno di Dio che c’è dovunque e su quello adattare anche le nostre strutture.

La partecipazione del popolo di Dio è stata il punto di partenza del Sinodo, con una consultazione universale. È una novità rispetto al passato?
È una differenza significativa. Il Papa ha messo la Chiesa in ascolto di tutti, non soltanto dei battezzati ma di chiunque volesse dire qualcosa. Circa 20 milioni di persone hanno risposto nel primo anno. Questo grande movimento di popolo ha suscitato tante attese e qualche critica. Ma le molte speranze non potranno andare deluse. Il metodo scelto per il Sinodo, la discussione in piccoli gruppi e la conversazione nello Spirito, consentirà di parlare a una misura umana. Ciascuno sarà libero di esprimersi. Se la conversazione nello Spirito diventerà un metodo ecclesiale, sarà già un risultato del Sinodo.

È preoccupato dalle divergenze che potranno emergere durante i lavori?
Grazie a Dio ci saranno opinioni diverse: non siamo un esercito schierato sotto dittatura. Ben vengano i punti di vista e le proposte alternative, ma se ci lasciamo davvero guidare dallo Spirito sarà un confronto orientato a trovare delle sintesi e non ad affermare la propria posizione. Ci saranno le votazioni, ma

si cercherà soprattutto di far maturare il consenso, anche se questo richiede più tempo.

La votazione è molto semplice, ciascuno espone la propria opinione e si trova la maggioranza. La maturazione del consenso è più complessa, richiede tempo, prevede di ritornare sulle questioni, di limare le posizioni. Lo Spirito Santo avrà molto lavoro da fare.

In contemporanea con il Sinodo dei Vescovi, che si concluderà a ottobre 2024, prosegue il Cammino sinodale della Chiesa italiana. A che punto si è arrivati?
Il primo anno è stato plasmato sul cammino del Sinodo dei Vescovi: si sono adottate le stesse domande e gli stessi ritmi. I risultati sono stati consegnati alla Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi. Nel secondo anno è continuato l'”ascolto narrativo” che ha permesso di individuare cinque priorità: la missione secondo lo stile di prossimità, la formazione alla fede e alla vita, il linguaggio e la comunicazione, la sinodalità e la corresponsabilità, il cambiamento delle strutture. Queste stanno animando il terzo anno, appena aperto, dedicato alla cosiddetta “fase sapienziale” (del discernimento). Il primato è sempre alla missione, per non perderci nell’autoreferenzialità.

È un processo interno alla Chiesa in Italia o ha uno sguardo che si allarga al mondo?
Ci sono questioni sentite dalla Chiesa universale, altre specifiche della Chiesa in Italia. Penso al tema delle strutture: non è certamente l’argomento che assilla le giovani Chiese africane o latino-americane, ma è un tema che riguarda le nostre comunità. Alcune strutture non si possono riconvertire facilmente, in termini di essenzialità.

Dunque ci sono alcune tematiche particolari, ma il nostro Cammino si innesta perfettamente in quello generale. Siamo convinti che dal Sinodo universale potranno venire indicazioni relative alla vita interna della Chiesa e allo stile di ascolto del mondo, che faranno bene anche alla Chiesa in Italia e potranno essere tradotte in orientamenti o normative.

Che riscontro ha avuto questa prima fase?
Circa mezzo milione di persone hanno preso parte attivamente, altre si sono interessate o incuriosite. Il Cammino sinodale è stato citato anche al di fuori degli ambienti ecclesiali. Le diocesi hanno promosso incontri con le categorie professionali, gli amministratori locali, le persone emarginate. Dobbiamo crescere nello stile della prossimità, in cui ci si ascolta. Senza la pretesa di mettersi in cattedra, ma con il desiderio di un dialogo reciproco. Dove questo è stato fatto, il riscontro è sempre stato positivo. Persone lontane dalla pratica cristiana riconoscono alla Chiesa la bellezza di creare momenti di ascolto. Da qui può nascere una stagione nuova.

Migranti. P. Ripamonti (Centro Astalli): “A 10 anni dalla tragedia di Lampedusa 27.000 morti e politiche respingenti”

Mar, 03/10/2023 - 15:09

A 10 anni dal tragico naufragio di Lampedusa in cui persero la vita 368 persone sono morte nel frattempo almeno 27.000 persone, non c’è una operazione europea in mare per salvare vite e ci sono “politiche respingenti che riguardano l’Italia e tutti i Paesi dell’Unione europea”. E’ un bilancio tragico quello tratteggiato oggi al Sir da padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, intervistato a margine di un evento organizzato a Roma, nel Rione San Saba sull’Aventino. Come ogni anno, in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, il Centro Astalli si è riunito nel “Giardino della memoria e dell’accoglienza”, istituito nel 2018 a Piazza Gian Lorenzo Bernini, dove negli anni sono stati piantati un alloro e un ulivo, “per continuare a fare memoria perché queste vittime non cadano nell’oblio”. All’interno della parrocchia di San Saba c’è un centro di accoglienza per migranti del Centro Astalli.

A 10 anni dalla tragedia di Lampedusa e con altri circa 27.000/28.000 morti cosa si può ancora dire?

Certamente bisogna continuare a fare memoria. In questi 10 anni sono successe tante cose ma non è successo il fatto di non far morire tante persone nel Mediterraneo. Il Papa era andato a Lampedusa nel 2013, prima della tragedia, e aveva già richiamato alla globalizzazione dell’indifferenza. Purtroppo una indifferenza diventata quasi strutturale.  Nel 2013 era partita l’operazione Mare Nostrum che aveva salvato tante vite ma poi non si è più rinnovata. Purtroppo nei vari accordi e programmi dei governi europei e italiani non viene mai contemplato il salvataggio in mare, che invece dovrebbe essere centrale. La questione delle migrazioni è complessa e legata al diritto di restare nella propria terra, però chi parte per le ingiustizie che ci sono nel mondo deve fare dei viaggi sicuri. E quando i viaggi non sono sicuri bisogna garantire il salvataggio in mare. Non ci si può permettere in 10 anni 27.000 persone morte in mare e sono solo quelle che si sanno.

Le politiche migratorie italiane ed europee non riescono ad affrontare seriamente la questione?

Siamo un po’ amareggiati dal fatto che l’Unione europea e i vari governi nazionali continuano a non affrontare la questione da vari punti di vista:

si fa di tutto per bloccare le partenze e fare accordi di esternalizzazione, pagando gli Stati perché trattengano le persone, ma non si affronta il nodo centrale che è il salvataggio in mare.

Né si affronta bene la questione dell’accoglienza sul territorio, che deve essere da subito integrazione. I cambi legislativi che prevedono che i richiedenti asilo debbano aspettare gli esiti della Commissione per cominciare un processo di integrazione – scuola di italiano, corsi di formazione professionale – certo non aiutano le persone ad integrarsi nei territori. Così negli anni si creano quelle situazioni di mancata integrazione e isolamento. Ogni anno ci auguriamo che questa giornata serva da stimolo per ricominciare da capo, con una prospettiva che non sia quella delle elezioni – nazionali o europee –  ma quella di un avvenire comune.

(foto: Sir)

 

Il tema immigrazione continua ad essere gestito secondo la logica dell’emergenza. Nell’ultimo decreto ci sono alcuni aspetti dibattuti, tra cui la fideiussione bancaria richiesta ai migranti. Che ne pensa?

Fanno parte di queste politiche respingenti che riguardano l’Italia ma anche tutti i Paesi dell’Unione europea. I respingimenti ai confini di Stati che in passato sono stati accoglienti lo dimostrano. Non credo che la questione della fideiussione sia la soluzione al problema, né disincentivo a partire ma penalizza e criminalizza quelle persone che non avendo altre alternative hanno dovuto affidarsi ai trafficanti.

Sembra quasi che la logica che vige nei centri di detenzione in Libia, pagare per essere liberi, si estenda un po’ anche all’Europa.

Questo fa male perché non è la prospettiva di una Unione europea culla dei diritti. Far pagare la libertà a persone che scappano perché da loro la libertà non viene garantita è un po’ triste.

(foto: Sir)

Il decreto contiene anche un giro di vite sulle tutele nei confronti dei minori migranti non accompagnati.

Ho visto negli anni che l’aumento dei minori non accompagnati è legato ad un restringimento delle maglie dell’immigrazione per gli adulti. Si abbassa l’età per fare in modo che i minori che arrivano abbiano più possibilità di fermarsi sul territorio europeo.

Se non si cambia la prospettiva e la politica avremo sempre più minori in arrivo e sempre meno tutelati.

Il decreto che in casi di necessità fa risiedere i minori nei centri insieme agli adulti, anche se in spazi isolati e circoscritti, è un altro modo per non tutelare i minori. Anche riguardo all’accertamento della minore età è un tema complesso nella sua articolazione che non tutela i minori dai rischi di essere vittime più volte di questo sistema. Molti di loro sono a cavallo tra minore e maggiore età. La Legge Zampa ci aveva fatto onore perché ha una prospettiva molto ampia e poteva estendere la possibilità di una forbice di età didue anni. Purtroppo anche qui

criminalizzare i minori non aiuta e non servirà a trovare soluzioni di politica migratoria.

Poi si è aperto in questi giorni un conflitto tra esecutivo e magistratura in seguito alla decisione di una giudice di Catania di non convalidare il trattenimento di tre tunisini nel centro di accoglienza di Pozzallo.

Gli avvocati hanno fatto ricorso e hanno fatto il loro lavoro. La magistratura ha espresso il proprio parere.

Le ingerenze non aiutano nessuno perché creano conflitti e non aiutano a risolvere le questioni istituzionali.

L’autonomia dei vari poteri deve essere garantita e le ingerenze reciproche non aiutano nessuno.

(foto: Sir)

Balcani: Kosovo e Serbia, tensione alle stelle. Bertolotti (Ispi): “Non è un nuovo fronte ma situazione da monitorare”

Mar, 03/10/2023 - 13:16

“Quanto sta avvenendo in Kosovo riporta allo scoperto vecchie fragilità e conflittualità latenti che potranno essere probabilmente risolte quando non ci sarà più la generazione che ha patito la guerra civile, la pulizia etnica tra serbi e albanesi kosovari. Tuttavia resta una situazione da seguire con attenzione perché potrebbe essere un ulteriore detonatore di conflitti già presenti nell’area”.

Claudio Bertolotti

Così Claudio Bertolotti, analista strategico, direttore esecutivo di Start InSight (www.startinsight.eu) ed esperto dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), commenta al Sir l’escalation di tensione tra Kosovo e Serbia dopo l’attacco di circa 10 giorni fa, compiuto da un gruppo di uomini armati, a Banjska, nel nord del Kosovo, e terminato con quattro morti, un poliziotto kosovaro e tre membri del gruppo, secondo le autorità kosovare, tutti di origine serba. Ma Belgrado ha negato ogni coinvolgimento. Lo scontro armato fa seguito alle tensioni scoppiate nel maggio scorso quando, nei comuni a maggioranza serba nel nord del Paese, – che ha proclamato l’indipendenza dalla Serbia nel 2008 (riconosciuta da 101 stati membri dell’Onu, Italia compresa) – la polizia kosovara si era scontrata con cittadini serbi che contestavano con forza l’insediamento di 4 sindaci di etnia albanese. Nelle proteste erano anche rimasti feriti alcuni alpini italiani della Kfor, la missione di pace della Nato. Non meno contestata la decisione del governo del Kosovo di obbligare i serbi kosovari a usare targhe automobilistiche kosovare al posto di quelle serbe. È di questi giorni, infine, la notizia che l’esercito serbo ha ammassato truppe al confine kosovaro, suscitando l’allarme degli Usa. Il 2 ottobre il capo di Stato Maggiore serbo, Milan Mojsilovic, ha comunicato che il numero di militari alla frontiera è tornato alla normalità, passando da 8.350 a 4.500.

Influenza della Russia. “Tutti questi eventi registrati nell’ultimo periodo – spiega Bertolotti, che vanta una lunga esperienza in Kosovo come Ufficiale degli Alpini – hanno creato delle recrudescenze e suscitato una enorme attenzione mediatica e possono essere viste come leve che i due Paesi sfruttano per riportare il contenzioso tra Belgrado e Pristina nel dibattito politico ed elettorale”. Nonostante ciò l’esperto afferma di “non vedere un nuovo fronte aperto contro l’Occidente” all’interno di quella polveriera che sono sempre stati i Balcani. “L’unico Paese – secondo Bertolotti – che ha interesse ad alimentare l’instabilità tra Kosovo e Serbia è la Russia che, con la sua influenza su Serbia e Repubblica Serba (Srpska) di Bosnia ed Erzegovina, ha tutto il vantaggio di infiammare un’area in cui è impegnata la Nato, per dimostrare quanto l’Alleanza Atlantica non sia in grado di garantire la sicurezza dei cittadini dell’una e dell’altra parte e dell’area sotto la sua tutela. Ma l’influenza russa non è sufficiente al presidente serbo, Aleksandar Vučić, per riprendersi il Nord del Kosovo”. Aggiunge Bertolotti: “La Serbia, oltre a non avere la capacità militare per fronteggiare la presenza Nato e una sua eventuale risposta ad una iniziativa militare serba, non ha nessun interesse politico a far parte di un perimetro economico e commerciale russo. Ritengo che la Serbia preferisca – al di là dei proclami rivolti alla vecchia generazione – investire in un ingresso nell’Unione europea. Stesso discorso vale anche per la Repubblica Srpska, altro Paese dove si sente l’influenza di Putin, ma che ha una rappresentanza politica in Bosnia- Erzegovina”, paese al quale, nel dicembre 2022, è stato concesso lo status di candidato all’adesione all’Ue. Sarebbe difficile per i due Paesi sostenere l’isolamento internazionale sul piano militare ed economico.

Ruolo della Nato. In questo panorama chi gioca un ruolo centrale è la Nato presente sul terreno con 4.511 soldati internazionali (852 dei quali italiani) inquadrati nella Kosovo Force (Kfor), attualmente a guida italiana, la forza di pace internazionale, avviata il 10 giugno 1999 dopo il mandato dalla Risoluzione 1.244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. “Il ruolo della Nato – dichiara Bertolotti – è importante perché la sua presenza è un deterrente contro il riaccendersi di scontri violenti tra le parti. Tra i suoi scopi, infatti, quello di sostenere la costruzione dello Stato all’interno di una cornice di sicurezza contribuendo così al consolidamento della pace e del processo di crescita civile”.

Naufragio di Lampedusa, 10 anni dopo. Bartolo: “Il mare dev’essere vita, un ponte, non un cimitero”

Mar, 03/10/2023 - 11:25

(Strasburgo) “3 ottobre di dieci anni fa. Un giorno particolare, per Lampedusa, particolare per me, ma soprattutto per quelle persone che hanno perso la vita. 368 persone hanno perso la vita”. Pietro Bartolo, per 30 anni medico di Lampedusa, la sua terra. Oggi, a 68 anni, è eurodeputato: una scelta, quello di dedicarsi alla politica, per cercare soluzioni “vere” e risposte “umane”, spiega, ai flussi migratori; e poter dare voce a quanti sono costretti a emigrare verso l’Europa per cercare una vita dignitosa, pur sapendo che, attraverso il Mediterraneo, potrebbero perdere la vita.

“Sono persone, non numeri”. Al Sir dice: “non mi stancherò mai di chiamarle persone. Qualcuno non sa più come chiamarle: rifugiati, richiedenti asilo, clandestini, migranti economici, migranti climatici… Sono persone, molte delle quali perdono la vita”. “Quel giorno sul molo Favarolo – quel molo che io definisco la mia seconda casa, dove per trent’anni ho passato più giorni e notti che a casa mia – sono stato chiamato dalla Guardia costiera. In realtà quella notte ero stato sulla banchina, perché erano arrivati via mare 840 siriani, che avevo visitato, come sempre. Ma la telefonata di quella mattina era drammatica: me ne ero subito reso conto dalla voce di chi mi chiamava dalla capitaneria. ‘Dottore, c’è stato un naufragio’. Di naufragi ne avevo visti tanti. Con tanti morti. Ma non potevo immaginare 368 persone morte”. “Quando è arrivata la prima barca, del mio amico Vito Fiorino, con l’amica Grazia, raccontavano di aver sentito le urla” di chi era in acqua. Una barca piccola, la loro, sulla quale avevano caricato 49 persone: “era carica, tanto che stava affondando. Grazia mi disse: ‘sai Pietro, non abbiamo potuto caricarne di più, stavamo affondando anche noi. C’è tanta gente che chiede aiuto’”. Lì i primi soccorsi, qualcuno, in condizioni più gravi, trasportato al poliambulatorio. Poi l’arrivo “di una seconda barca, di un altro mio amico, Domenico”. Altre 17 persone portate in salvo, più 4 cadaveri recuperati. “Era disperato, avrebbe voluto salvarne di più”. Bartolo si sofferma sulle visite di giovani raccolti in ipotermia, sul dovere di accertare se qualcuno fosse affetto da malattie infettive gravi (“in tanti anni non ho mai riscontrato nessuno con una di queste malattie, che potesse mettere a rischio l’incolumità nazionale”).

Il molo di Lampedusa (Ph. Mediterranean hope)

“Tutti quei sacchi neri…”. Il racconto si sposta “sui quei sacchi neri, quelli con la cerniera, dove si mettono i cadaveri. Io odio quei sacchi, ne ho paura…”. Dopo i primi tre annegati, in rigidità cadaverica, dal quarto sacco si intravvede una ragazza, giovane. “Le ho preso il polso tra le mani, mi è sembrato di sentire un battito. Lieve, quasi impercettibile”. Da lì la corsa al piccolo ambulatorio dell’isola, una puntura intracardiaca di adrenalina: “e il cuore di quella ragazza è tornato a battere regolarmente, per poi portarla in elicottero a Palermo”. Una vita salvata. “Ho poi saputo che dopo 40 giorni Kebrat – il nome della ragazza – era stata dimessa dall’ospedale”. Quel giorno “il molo Favarolo ero pieno di sacchi”, con i cadaveri dei migranti annegati nel tratto di mare tra l’Africa e l’isola di Lampedusa. “Quei sacchi che qualcuno ha definito ‘confezioni’…”. Pietro Bartolo prosegue il suo racconto al Sir del naufragio del 3 ottobre 2013, e si commuove più volte. Parla delle “ispezioni cadaveriche”: “stavo male. Io sono un ginecologo, ho studiato per la vita, non per la morte. Ma ho dovuto imparare sul campo, per quelle pratiche che sono importanti”, anche per un eventuale riconoscimento della salma. Si addentra nei particolari, la voce rotta dall’emozione. “Speravo che almeno nel primo sacco non ci fosse un bambino. Invece era proprio un bambino. Un bambino piccolo, avrà avuto tre anni, tre anni e mezzo, aveva un pantaloncino rosso e una maglietta bianca. Era bello… Me lo sono portato all’orecchio per sentire il battito cardiaco, l’ho guardato intensamente negli occhi” per cercare un segno di vita. “Ma era morto. E così tutti gli altri”. Nella borsa del medico di Lampedusa una bottiglia d’acqua, un asciugamani, un pettine: per pulire i volti, per ricomporli al meglio, “per renderli quanto più riconoscibili possibile”, per dare dignità e un nome a quelle persone annegate. “Quante volte ho pianto, ho vomitato, ho avuto paura”: ore e giorni terribili su quel molo di approdo. “Quel bambino lo sogno spesso. Ancora l’altra sera, che mi tira i capelli. Lo vedo… Non l’ho salvato, ma cosa potevo fare?”. Bartolo cita Alan Kurdi, il piccolo che perse la vita di fronte alle coste turche: “io di Alan Kurdi ne ho visti a centinaia. Ma nessuno si indigna più, nessuno ci fa caso. C’è assuefazione. Perché non si vuole risolvere questo problema. Così, tante volte ho avuto la tentazione di lasciare tutto”.

“La politica deve dare le risposte”. “Ci sono stati momenti di scoraggiamento: in tutti quegli anni non cambiava nulla. Ogni giorno mi chiedevo cosa si potesse fare, anche per cambiare la narrazione” sulle migrazioni. “Troppe volte ho sentito politici parlare con sufficienza e con distacco” dei migranti, “definiti delinquenti, da rimandare a casa, da rimpatriare. Dobbiamo difendere i nostri confini, hanno detto. Mi montava la rabbia e mi chiedevo: ma voi le avete mai viste negli occhi quelle persone? Sentivo una responsabilità, vedevo quanto stava succedendo. Allora mi sono inventato di tutto. Mi sono aggrappato al mondo della cultura, ho avuto la fortuna di incontrare il regista Francesco Rosi e l’ho costretto a fare un film, ‘Fuocoammare’”, che descrive la tragedia dei migranti attraverso il mare. L’eurodeputato aggiunge: “mi sono messo a scrivere libri, ad andare nelle scuole e in giro per l’Italia” per raccontare quanto stava accadendo. Fino alla scelta attuale: “entrare in politica, perché io credo che alla fine chi deve dare risposte è la politica. Sono venuto qui, nel cuore dell’Europa, per cercare delle soluzioni”.

(foto SIR/Marco Calvarese)

“No a respingimenti e fili spinati”. L’eurodeputato è impegnato fra Strasburgo e Bruxelles per realizzare il nuovo “Patto su asilo e migrazione”, al quale si lavora da tempo nelle sedi europee, con forti resistenze da parte degli Stati membri. “Quello recente, proposto dalla Von der Leyen”, la presidente della Commissione europea, “io lo definisco un ‘pacco’ sulla migrazione, addirittura peggiorativo dell’Accordo di Dublino”. La risoluzione adottata da tempo dal Parlamento europeo, proposta ai governi dei 27, sottolinea Bartolo, “è un compromesso, ma almeno è rispettoso dei diritti umani, rispettoso degli accordi internazionali”. L’eurodeputato denuncia i respingimenti (nel Mediterraneo, in Croazia, a Ceuta e Melilla, in Bielorussia…), contrari proprio al diritto internazionale. “Io spero che si possa arrivare a comprendere che il fenomeno migratorio non è emergenziale ma strutturale. E non funziona una risposta che prevede solo respingimenti, rimpatri, accordi con Paesi governati da dittatori. Non funzionano i muri né i fili spinati”: chi emigra, sapendo dei rischi da affrontare, non può essere fermato, perché “non ha alternative”. Bartolo ha percorso tutte le rotte migratorie che portano in Europa: “ci sono stato per capire cosa succede”. Poi sul volto del medico si riaffacciano le lacrime: “io sono di Lampedusa, quell’isola mi ha dato tutto. E se penso che è diventato un cimitero” in mezzo al mare, “con 50mila morti… Invece il mare dev’essere vita, un ponte, non un cimitero”. Da qui un elogio ai suoi conterranei, “un popolo straordinario i lampedusani, che da trent’anni accolgono le persone, senza lamentarsi, aprendo i porti e le porte”.

“Soluzioni rispettose dei diritti umani”. Infine Bartolo torna a invocare una risposta politica alle migrazioni, “che sia rispettosa dei diritti umani, perché – lo ripeto – stiamo parlando di persone, non di numeri. Se l’Europa è stata giustamente capace di accogliere 5 milioni di ucraini”, allo stesso modo possono essere accolte “alcune migliaia” di persone che giungono da Africa e Medio Oriente. “L’Europa si fonda sui grandi valori fissati dai padri fondatori: stato di diritto, diritti umani, accoglienza, solidarietà”, valori iscritti nei trattati. La soluzione va trovata lì, “per evitare ciò che sta accadendo nel Mediterraneo: un genocidio. Eppure tutto questo deve finire. E finirà”. “Occorre cambiare paradigma. Non ci sono confini da difendere, come se fossimo in guerra. Dobbiamo ritrovare il senso di umanità, che abbiamo perso, un po’ di compassione, perché se queste persone scappano, lo fanno perché ci sono povertà, violenze, cambiamenti climatici. E lì ci sono anche nostre responsabilità. Se queste persone muoiono è anche nostra responsabilità”. In Europa i migranti “dovrebbero arrivare tramite canali regolari, mediante corridoi umanitari. Stiamo parlando di ‘cristiani’, come diciamo in siciliano: non in senso religioso, ma umano. Esseri umani. Donne, bambini, uomini, intere famiglie”. “I confini vanno controllati, ovviamente, per contrastare il traffico di droga, di armi, per il terrorismo”, senza dimenticare però i diritti umani. Bartolo richiama ancora il rispetto dei valori costitutivi dell’Europa e quelli rappresentati dalla Costituzione italiana. Quindi contesta i Cpr (“sono delle carceri, dove si finisce senza aver commesso alcun reato” e che possono essere evitati “pagando – quello sì – un pizzo di Stato”). Pietro Bartolo riprende il cammino. Il 3 ottobre al Parlamento europeo di Strasburgo è prevista una commemorazione ufficiale del naufragio di dieci anni or sono, con un discorso in emiciclo della presidente, maltese, Roberta Metsola.

 

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