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Aggiornato: 4 mesi 1 settimana fa

Riciclo rifiuti: Italia vicina ai target Ue. Assoambiente: 10 proposte per un’economia realmente circolare

Gio, 23/11/2023 - 09:07

L’Italia si conferma eccellenza europea nel settore del riciclo e nella produzione di nuovi materiali da rifiuti, in corsa a pieno titolo per il raggiungimento degli obiettivi Ue al 2025 e al 2035: il riciclo dei rifiuti urbani ha raggiunto quota 51,4% (55% l’obiettivo 2025); il tasso di riciclo degli imballaggi è pari al 72,8% (ben oltre il target del 65% al 2025). Maggiore impegno servirà per dimezzare, di qui al 2035, la quota di rifiuti che oggi finiscono in discarica: il 20,1%. Queste, in estrema sintesi, le principali evidenze emerse nel corso della presentazione, il 21 novembre a Roma, del Rapporto annuale “L’Italia che ricicla”, promosso dalla sezione Unicircular di Assoambiente, l’Associazione delle imprese di igiene urbana, riciclo, recupero, economia circolare e smaltimento di rifiuti, nonché bonifiche.

Il nostro Paese rientra di fatto tra i 9 Stati membri Ue virtuosi nella gestione dei rifiuti,

ha spiegato Donato Berardi (Ref Ricerche), illustrando il report 2023. “Sono invece 18 (tra cui anche Francia, Spagna, Portogallo e Svezia) quelli ancora lontani dal raggiungimento dei target definiti. Addirittura, 8 Stati membri collocano ancora in discarica più del 50% dei propri rifiuti urbani”. Nel Report di quest’anno, ha spiegato ancora Berardi,  Assoambiente ha definito un’Agenda di lavoro 2024-2025 per le istituzioni nazionali ed europee, un vero e proprio manifesto programmatico per l’industria italiana del riciclo articolato in 10 punti, per fornire un contributo decisivo alla transizione verso un’economia realmente circolare nell’uso delle risorse.

Whatever it takes” per i materiali riciclati, il primo punto. “L’efficacia dei processi di riciclo non può prescindere dalla collocazione sui mercati dei prodotti recuperati, oggi in parte inutilizzati. I mercati di sbocco per queste materie devono essere sostenuti da adeguati strumenti economici e fiscali: su tutti, certificati del riciclo ed estensione del meccanismo dei certificati bianchi”. Quote di riciclato nei prodotti perché “uno degli strumenti più efficaci per sostenere il collocamento sul mercato delle materie provenienti dal riciclo” è “la prescrizione di quote minime di contenuto riciclato nei prodotti”. Accanto a questo strumento, è auspicabile “un rafforzamento degli acquisti verdi della PA (Green Public Procurement) e dei Criteri ambientali minimi” (requisiti volti a individuare, nelle varie fasi del ciclo di vita dell’opera, la migliore soluzione progettuale, il prodotto o il servizio sotto il profilo ambientale, ndr). Al terzo punto l’Iva agevolata per le materie ottenute dal riciclo. Per quanto riguarda invece (quarto punto) il recupero energetico complementare al riciclo, “va rispettata la gerarchia dei rifiuti che lo vede subordinato alla prevenzione e al riciclo, ma preferibile all’incenerimento senza recupero di energia e allo smaltimento in discarica”. E ancora: servono “iter autorizzativi più rapidi e certi per la costruzione di nuovi impianti e per l’aggiornamento di quelli esistenti”; vanno applicate “politiche tese a evitare produzione o importazione di beni contenenti materiali che pregiudicano la qualità del riciclo”; occorre porre realmente in capo ai produttori dei beni (poi diventati rifiuti) “il costo ambientale della gestione degli stessi lungo l’intero ciclo di vita, incentivando in questo modo anche un reale ripensamento dei processi produttivi”.

Per quanto riguarda i Decreti End of Waste (regole che governano i processi con cui i rifiuti cessano di essere tali, ndr), “la definizione dei criteri comuni nell’Ue – si legge ancora nel manifesto – dovrà consentire di

raggiungere un equilibrio tra mercato e salvaguardia ambientale,

partendo dalle applicazioni concrete dei prodotti riciclati”. Sul trasporto dei rifiuti occorre uniformare “le discipline sulla movimentazione transfrontaliera”, perché ad oggi non esiste ancora un raccordo tra i Codici dell’elenco europeo dei rifiuti e i Codici doganali con la conseguenza di “eccessiva discrezionalità nei controlli alle dogane. Imprescindibile, ha infine concluso Berardi, “una maggiore chiarezza nell’impianto di regole disegnato da Arera (Autorità regolazione energia reti e ambiente) applicato dalle varie Amministrazioni pubbliche”.

La centralità degli operatori del riciclo – ha spiegato Paolo Barberi, presidente sezione Unicircular di Assoambiente – è andata rafforzandosi negli ultimi anni, per la crescente consapevolezza delle conseguenze del cambiamento climatico e del ruolo attivo svolto nell’ambito del processo di transizione verso un’economia circolare, ma anche alla luce del mutato contesto internazionale, per il quale

avere a disposizione materie prime ed energia provenienti dal riciclo dei rifiuti prodotti nel nostro Paese costituisce un fattore economico decisivo”.  

“Sulle bioplastiche noi siamo un Paese leader”, ha detto la senatrice Silvia Fregolent richiamando una recente ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. “Dal granchio blu che ci ha afflitto tutta l’estate – ha raccontato – i ricercatori dell’Ateneo sono riusciti a creare un polimero naturale per l’imballaggio degli alimenti, molto più efficace rispetto a tutte le bioplastiche create fino ad oggi perché realizzato da un elemento naturale, ossia le chele di granchio”. Fregolent si è soffermata anche sull’importanza delle terre rare, minerali fondamentali per la transizione energetica.

Al riguardo Stefano Laporta, presidente dell’Ispra ha annunciato:

“Un anno fa abbiamo ripreso il processo di mappatura di tutto il territorio nazionale per individuare le aree strategiche dove poter procedere con l’estrazione di terre rare”.

“C’è un progetto specifico voluto dai ministri dell’Ambiente e del Made in Italy e appoggiato da tutto il Parlamento. Come Ispra stiamo cercando di riaprire a livello nazionale questo discorso che riguarda il tema dell’attività mineraria con tutti gli  aspetti collegati, in primis la sicurezza dei lavoratori”. “L’industria del riciclo – ha concluso Chicco Testa, presidente di Assoambiente –  richiede un adeguato sostegno da parte dei decisori politici affinché vengano rimossi tutti gli ostacoli normativi, giuridici ed economici che ne frenano il pieno sviluppo trasversale alle diverse filiere. Solo così questo settore potrà davvero fungere da abilitatore della transizione green, in grado di intercettare efficacemente tanto gli aspetti di circolarità, quanto quelli energetici”.

Violenza su donne e domestica. Dal Senato via libera definito alla nuova legge

Mer, 22/11/2023 - 17:00

Il Senato ha approvato in via definitiva la nuova legge contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Il voto è stato unanime così come era accaduto nel passaggio alla Camera a fine ottobre 2022. Le nuove norme si inseriscono in una serie di interventi che a partire dalla Convenzione di Istanbul del 2013 hanno cercato di porre un argine a un fenomeno drammatico le cui radici profonde, però, sono educative e culturali.

Le novità vanno soprattutto nel senso di anticipare la soglia della tutela penale, puntando sui cosiddetti “reati spia”, e di specializzare e velocizzare l’azione della magistratura, con tempi certi e stringenti. L’uso del braccialetto elettronico e la possibilità di praticare l’arresto in “flagranza differita” sono altri due elementi che caratterizzano la nuova legge, così come la fattispecie della “violenza assistita” – commessa cioè in presenza di minori – e la possibilità di “vigilanza dinamica”, vale a dire la sorveglianza svolta in forma mobile e continuativa da autopattuglie nei pressi dell’abitazione della vittima e dei luoghi frequentati dalla stessa.

L’articolo 1 estende l’ambito di applicazione dell’ammonimento da parte del questore, sia d’ufficio sia su richiesta della persona offesa, e gli obblighi informativi verso le vittime di violenza.
L’articolo 2 consente l’applicabilità delle misure di prevenzione anche ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati che solitamente ricorrono nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e della violenza domestica.
L’articolo 3 assicura

priorità assoluta alla trattazione dei processi per violenza, anche di quelli relativi ai reati di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di costrizione o induzione al matrimonio, di lesioni personali aggravate, di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, di interruzione di gravidanza non consensuale, di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e di stato di incapacità procurato mediante violenza.

L’articolo 4 prevede che nei procedimenti per i casi di violenza di genere e domestica sia assicurata priorità anche alla richiesta di misura cautelare personale e alla decisione sulla stessa.
L’articolo 5 introduce misure per favorire la specializzazione degli uffici delle procure in materia di violenza di genere e domestica e l’articolo 6 prevede iniziative formative per tutti gli operatori.
L’articolo 7 interviene sul procedimento di applicazione delle misure cautelari e l’articolo 8 impone un monitoraggio sistematico sul rispetto dei tempi a livello di procure.
L’articolo 9

innalza le pene relative alla violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, attribuendo rilevanza penale anche alla violazione degli ordini di protezione emessi dal giudice civile.

L’articolo 10 consente

l’arresto in flagranza differita, in presenza di documentazione video-fotografica o equivalente.

L’articolo 11 permette al pm di disporre

l’allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti della persona gravemente indiziata ove non sia possibile per la situazione di urgenza attendere il provvedimento del giudice.

L’articolo 12 interviene in materia di misure cautelari e in particolare di

applicazione del braccialetto elettronico,

imponendo alla polizia giudiziaria il previo accertamento della fattibilità tecnica dell’utilizzo dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo e prevedendo l’applicazione della misura cautelare in carcere nel caso di manomissione.
L’articolo 14 stabilisce l’obbligatorietà dell’immediata comunicazione alle vittime di violenza di tutti i provvedimenti che riguardano l’autore del reato.
L’articolo 15 stabilisce che,

ai fini della sospensione condizionale della pena, non è sufficiente la mera partecipazione ai percorsi di recupero, ma occorre che tali percorsi siano superati con esito favorevole.

L’articolo 17 introduce e disciplina la possibilità di corrispondere in favore della vittima di taluni reati, oppure degli aventi diritto in caso di morte della vittima, una provvisionale, ossia una somma di denaro liquidata dal giudice come anticipo sull’importo integrale che le spetterà in via definitiva.

Incontro parenti ostaggi israeliani con Papa Francesco. Appello al mondo: “Liberateli il prima possibile. Ora!”

Mer, 22/11/2023 - 15:50

20 minuti a colloquio con Papa Francesco. Sono stati ricevuti questa mattina prima dell’udienza generale 12 familiari degli ostaggi israeliani rapiti sabato 7 ottobre durante l’attacco terroristico di Hamas e tuttora tenuti prigionieri a Gaza. Sebbene alcuni avrebbero voluto avere più tempo, 7/8 di loro hanno potuto prendere la parola e raccontare al Papa le loro storie. Incontrando subito dopo i giornalisti al Centro “Il Pitigliani” di Roma, i familiari esprimono parole di gratitudine. Alexandra Ariev ha tra gli ostaggi di Hamas sua sorella. ”Volevo ringraziare il Papa – dice – per il tempo, anche breve, che ci ha dedicato. Volevo ringraziarlo per averci incontrato e ascoltato”. La piccola delegazione ha portato al Santo Padre la preoccupazione di tutti i familiari delle persone rapite e soprattutto l’appello affinché siano “liberati, il prima possibile. Ora”. “Siamo sicuri – aggiunge Alexandra – che il Papa sta facendo tutto il possibile per aiutare noi e le nostre famiglie”. Prende la parola anche Rachel Goldberg, mamma di un ragazzo di 23 anni preso anche lui in ostaggio. “Il Papa – dice – ha influenza e gode di rispetto anche nel mondo ebraico e in quello musulmano. Quando parla è ascoltato”. “Questa mattina ho sentito il suo amore e il suo supporto e sono sicura che farà il possibile per aiutarci”. Tra i familiari c’è anche chi ritiene che il Papa non abbia chiaramente definito Hamas come “una organizzazione terroristica”. “Non ci può essere nessuna equivalenza – è stato detto – tra Hamas che è un’organizzazione terroristica e sta usando i civili come scudi umani e Israele che sta proteggendo i civili”. Ma c’è chi ha preso la parola per dire di “non essere d’accordo” con la delusione espressa, affermando che l’incontro con il Papa è stato “molto efficace”. “Non tutti abbiamo avuto la possibilità di prendere la parola ma abbiamo potuto raccontare le nostre storie e il Papa ha ascoltato”. C’è chi ha parlato di “compassione”. “Il Papa ha capito il nostro dolore. Ha detto che si sta lavorando per il loro ritorno”.

(Foto Sir)

Le famiglie erano accompagnate dall’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede Raphael Schutz, che nel prendere la parola ha voluto anche lui fare una precisazione sulla “distinzione” tra Hamas e Israele. Da una parte – ha detto – “c’è chi sta uccidendo i civili e dall’altra c’è Israele che è impegnato in una guerra di difesa e sta proteggendo i civili”. “Da sabato 7 ottobre – ha detto Schutz ai giornalisti – Israele non è più lo stesso Paese. Siamo di fronte ad una tragedia che si sta svolgendo in termini biblici”. Ora la questione “cruciale” per Israele “è la preoccupazione per il ritorno in sicurezza degli ostaggi che si trovano ancora a Gaza”. L’incontro questa mattina con Papa Francesco è “parte dello sforzo di mantenere la crisi nella coscienza e all’attenzione del mondo e dei media”.

I familiari si sono presentati all’incontro con la stampa portando nelle loro mani le foto dei familiari che sono in ostaggio a Gaza. Volti di giovani donne e uomini, bambini, anche un orsacchiotto. “Le nostre mani non bastano per tenere in mano le foto di tutte le persone prese in ostaggio. Tra loro ci sono anche bambini, neonati”. C’è la storia di un “nipote” di 11 anni che domani avrebbe compiuto gli anni. Fratelli, figli e sorelle che erano andati al Festival della musica quel sabato dell’attacco. Chi invece era a casa. Chi, malato, ha necessità di ricevere cure mediche. “E’ l’unica sorella che ho”, dice Alexandra Ariev. “E’ una ragazza pura, innocente”. Da lei ha ricevuto un messaggio. Le scriveva: “sii felice, prenditi cura di mamma e papà”. “Sappiamo che questo è un tempo cruciale per loro. Ogni minuto, ogni ora che passa può essere quello decisivo. Devono tornare a casa, raccontare cosa hanno vissuto”. Toccante anche la storia di Rachel Goldberg. Tra gli ostaggi, c’è il figlio di 23 anni. Anche lui era la Festival della musica quella sera. Due i messaggi ricevuti da lui. Nel primo diceva: “I love you”. Nel secondo, “I’m sorry”. “Il mio cuore è sepolto a Gaza”, ha la forza di dire oggi Rachel.

Sicurezza a scuola. Bizzarri (Cittadinanzattiva): “Pnrr non basta. Occorre programmazione triennale interventi”

Mer, 22/11/2023 - 13:30

Ai temi del rischio sismico e del rischio idrogeologico è dedicata la XXI Giornata nazionale della sicurezza nelle scuole che ricorre oggi, promossa da Cittadinanzattiva nell’ambito della campagna “Impararesicuri” che si svolge in collaborazione con il ministero dell’Istruzione e del Merito e del Dipartimento della Protezione civile. Alla ricorrenza hanno aderito 16mila scuole promotrici di iniziative e momenti di formazione ed informazione, attraverso i materiali disponibili in una SmartBox, nonché in tre podcast sui temi del rischio sismico, dell’alluvione e del cambiamento climatico. All’evento nazionale, che si è tenuto ieri 21 novembre ad Ostia presso i licei Anco Marzio e Labriola, hanno partecipato 300 studenti e i rappresentanti del Dipartimento della Protezione civile nazionale e del Comune di Ostia che hanno collaborato all’organizzazione dell’iniziativa.

foto Cittadinanzattiva

“Una giornata molto proficua – il bilancio al Sir di Adriana Bizzarri, responsabile scuola di Cittadinanzattiva – perché avevamo deciso di dare davvero spazio ai ragazzi, di centrarli sul proprio protagonismo e avevamo creato stand tematici: rischio sismico, rischio alluvione, piano comunale per la gestione delle emergenze a scuola, e un quarto stand in cui potessero scrivere su delle cartoline da noi predisposte le proprie impressioni e avanzare richieste specifiche”.

Il tutto all’insegna della concretezza. L’intervento in caso di alluvione è stato simulato con l’utilizzo di idrovore, mentre per il rischio sismico è stata invitata una scuola di Rieti, l’Istituto superiore Celestino Rosatelli, inserito in una rete di istituti superiori impegnati su questo rischio e che costruiscono modellini di edifici per mostrare concretamente l’effetto delle scosse sismiche. “Sei studenti del Rosatelli – spiega Bizzarri – hanno simulato attraverso i loro modellini gli effetti delle diverse scosse sismiche sui differenti tipi di costruzione per far capire come sia possibile fronteggiare il terremoto con edifici adeguati”.

Quanto è importante coinvolgere e educare gli studenti alla sicurezza a scuola?

È strategico dare loro un ruolo attivo, da protagonisti, per coinvolgerli in profondità, responsabilizzarli facendo capire che tutto quello di cui si parla non è una situazione di eccezionalità, ma ormai la realtà quotidiana.

In particolare, il rischio alluvione è ormai la norma nel nostro Paese e proprio Ostia ne ha fatto le spese qualche settimana fa; i ragazzi hanno toccato con mano l’allagamento della loro scuola e hanno percepito direttamente quanto questo problema sia reale. Ascoltando le loro richieste, invieremo eventuali loro proposte ai diretti interessati: il sindaco di Roma, il ministro dell’Istruzione e del Merito e così via. Desideriamo che quanto avvenuto ieri non rimanga fine a se stesso, ma abbia un effetto.

Ad oggi, però, nelle scuole non si svolgono le prove di emergenza per il rischio alluvione.

La normativa vigente prevede che gli istituti organizzino prove di emergenza legate solo al rischio sismico e incendio; le prove legate al rischio alluvione sono lasciate alla discrezionalità e buona volontà degli istituti; per questo

andrebbe prevista una norma ad hoc che renda obbligatoria la prova di emergenza legata al rischio alluvione,

molto più diffuso del pericolo di incendio, e che richiede comportamenti opposti al rischio sismico: in questo caso non si deve uscire ma salire ai piani alti. Con un rischio idrogeologico presente in una scuola su cinque, il problema ce lo dobbiamo porre.

foto Cittadinanzattiva

Perché chiedete con insistenza al ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara una rapida convocazione dell’Osservatorio nazionale sull’edilizia scolastica?

Sono passati due anni dall’ultima riunione dell’Osservatorio di cui fanno parte rappresentanti di Comuni, Regioni, Province, Ministeri afferenti e associazioni come noi. Ne chiediamo pertanto la convocazione affinché possa esercitare pienamente le proprie funzioni istituzionali in materia di indirizzo e coordinamento nell’edilizia scolastica, sia in relazione ai fondi del Pnrr che per la programmazione triennale ordinaria degli interventi, sia nella diffusione della cultura della sicurezza.

Le scuole in zona a rischio sismico. Sono 11 le regioni che hanno Comuni in zona 1 (ad elevata sismicità) ma tutte le regioni, ad eccezione della Sardegna, hanno Comuni e scuole in zona 2. Quattro scuole su dieci si trovano insomma in zona a media ed elevata sismicità (rispettivamente 14.467 e 2.876 edifici). Sono 4 milioni e 300mila i bambini ed i ragazzi che risiedono in Comuni classificati in queste due zone. Commenta Bizzarri:

“Di questi circa 17mila edifici a rischio, solo il 17% è stato adeguato sismicamente e messo in sicurezza; un quadro estremamente preoccupante”. 

Edifici scolastici in aree sismiche Rielaborazione Cittadinanzattiva su dati Anagrafe 2020 del ministero dell’Istruzione

Mappa degli edifici scolastici ricadenti in aree a pericolosità idrogeologica – Fonte: Rielaborazione Cittadinanzattiva su dati Anagrafe 2020 del Ministero dell’Istruzione

Le scuole a rischio idrogeologico. Per quanto riguarda il rischio idrogeologico, invece, il dato nazionale (Elaborazione Soluxioni Srl su Open data del ministero dell’Istruzione e del Merito) attesta che il 21,4% dei 40.133 edifici scolastici, ossia oltre 8.600 scuole (di cui 1944 in Emilia Romagna, 1745 in Toscana, 1163 in Lombardia, 1136 in Veneto), frequentate da circa 1.550.000 studenti, sono situate in aree a pericolosità idraulica; di questi, il 3,1% (1.420 scuole) si trova in aree a pericolosità/probabilità elevata, il 6,2% (2854) in zone a pericolosità/probabilità media e il 9,6% (4.372) in situazione di pericolosità/probabilità bassa.

“Le nostre scuole – osserva Bizzarri – hanno gravi problemi di manutenzione, determinati in gran parte dal fatto di essere ospitate in vecchi edifici o di risalire come anno di costruzione, in quasi la metà dei casi, a prima del 1976. Gli interventi del Pnrr sono importanti ma insufficienti; è pertanto necessario – sottolinea – garantire una programmazione triennale degli interventi di ristrutturazione e messa in sicurezza”. Accanto a questi “molto di più potrebbe esser fatto sul fronte della cultura della prevenzione e della formazione ed informazione, della popolazione studentesca e dei docenti, sui rischi naturali e non del nostro territorio, eppure – conclude l’esperta – quest’anno, per la prima volta dall’istituzione della Giornata nazionale, il ministero dell’Istruzione l’ha completamente ignorata”.

 

Migranti. Don Pagniello: “Accordo Italia-Albania è ammissione di fallimento, sposta il problema ma non lo risolve”

Mer, 22/11/2023 - 12:54

L’accordo tra Italia e Albania “è una ammissione di fallimento”: “Spostiamo solo il problema, non lo risolviamo”. “Aspettiamo la ratifica del Parlamento ma ci sono tante questioni aperte, tra cui il parere negativo del Consiglio di Europa. È ancora tutto da vedere. Bisognerà verificare se sono rispettati i diritti e altri aspetti a norma di legge molto tecnici, come evidenziato dal Tavolo Asilo”. Così don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana, commenta al Sir la notizia che il governo italiano, contrariamente a quanto annunciato prima, sottoporrà al Parlamento un ddl di ratifica del protocollo per costruire e finanziare centri di accoglienza per migranti in Albania. E rilancia un appello al governo: “Istituire un tavolo nazionale sul sistema di accoglienza”. Intanto non si fermano gli sbarchi e le tragedie del mare: domenica vicino Lampedusa è morta una bimba di nemmeno due anni, 8 i dispersi. Ieri un altro barchino è colato a picco a circa 28 miglia dalla costa ed è annegata una donna ivoriana di 26 anni. Ieri, sull’isola, ci sono stati in tutto 9 sbarchi, con un totale di 483 persone. All’hotspot di Contrada Imbriacola ci sono al momento 1.283 ospiti, fra cui 103 minori non accompagnati. In mattinata 280 saranno trasferiti col traghetto di linea a Porto Empedocle.

don Marco Pagniello – Foto Carloni/Caritas italiana

Cosa pensa la Caritas dell’accordo tra Italia e Albania?

Noi condividiamo pienamente la posizione del card. Matteo Zuppi: l’accordo con l’Albania è una ammissione di fallimento per noi italiani. Non siamo stati capaci, come Paese, di accogliere dignitosamente queste persone. I numeri ci dicono che altri Paesi europei accolgono più di noi. Rilancio l’appello che abbiamo fatto diverse volte al governo di istituire un tavolo nazionale sul sistema di accoglienza, perché non è vero che siamo in emergenza. Fare una programmazione seria di accoglienze diffuse in tutto il territorio italiano. Accoglienza, protezione e integrazione, perché in alcune zone del nostro Paese abbiamo bisogno di gente che lavori.

Un accordo che però potrebbe ottenere il consenso di una parte dell’opinione pubblica contraria all’immigrazione.

Il problema è che noi dobbiamo decidere a chi parliamo, se alla pancia o all’intelligenza delle persone. Forse la domanda che dobbiamo porci prima di tutto è: chi vogliamo essere? Questa è la classica situazione attraverso la quale spostiamo il problema, non lo risolviamo, facendo finta di non averlo. Ma lo avremo ancora perché tutti quelli che prima o poi lasceranno il centro potrebbero percorrere i famosi corridoi dei Balcani e invece di entrare dalla Sicilia entreranno da Gorizia, da Trieste, da quelle zone. Mi appello al buon senso di tutti:

bisogna avere un po’ più di lungimiranza e di attenzione al futuro per costruire politiche serie, rilanciando la cooperazione internazionale,

altro tema importantissimo. Sono convinto che la maggior parte delle persone che arrivano non vorrebbero lasciare il loro Paese. Invece di spendere soldi per costruire carceri in Albania spendiamoli per dare alle persone le condizioni necessarie per rimanere nel loro Paese. C’è bisogno di una conversione quasi totale di tutto il sistema.

Intanto in un uno degli ultimi naufragi è morta una bimba di due anni nell’indifferenza generale…

Le tragedie non si fermano, il traffico di persone non si ferma e purtroppo non si fermano le morti di innocenti, che devono assolutamente interpellare la nostra coscienza.

È doloroso pensare a questa creatura che ha perso la vita senza poter capire cosa stava succedendo e nell’indifferenza generale.

Credo che il nostro Paese possa prenderne coscienza. Certo, non deve essere lasciato solo, però è arrivato il momento di provare a mettere a sistema tutto: i salvataggi, l’accoglienza, accelerare i rimpatri, rilanciare la cooperazione internazionale, presidiare molto di più in loco, ridare forza all’Onu. Invece ho l’impressione che ognuno guardi al proprio pezzettino. Il grande problema è che non c’è la volontà politica.

Papa Francesco: in Terra Santa “siamo andati oltre le guerre”

Mer, 22/11/2023 - 10:22

“Non dimentichiamo di perseverare nella preghiera per quanti soffrono a causa delle guerre in tante parti del mondo, specialmente per le care popolazioni dell’Ucraina, la martoriata Ucraina, di Israele e della Palestina”. È l’appello di Papa Francesco al termine dell’udienza di oggi, durante i saluti ai fedeli di lingua italiana. “Questa mattina ho ricevuto due delegazioni, una di israeliani che hanno parenti con ostaggi a Gaza e un’altra di palestinesi che hanno dei parenti prigionieri in Israele”, ha rivelato il Papa ai fedeli riguardo a quanto è accaduto prima dell’udienza del mercoledì. “Loro soffrono tanto”, ha proseguito: “E ho sentito come soffrono ambedue”.

“Le guerre fanno questo, ma qui siamo andati oltre le guerre”, la denuncia del Papa: “Questo non è guerra, è terrorismo”.

“Per favore, andiamo avanti per la pace, pregate tanto per la pace”, l’invito ai fedeli: “Che il Signore metta mano lì, che il Signore ci aiuti a risolvere i problemi e a non andare avanti con le passioni che alla fine uccidono tutti. Preghiamo per il popolo palestinese, preghiamo per il popolo israeliano, perché venga la pace”.

“L’annuncio cristiano è gioia per tutti”, e i cristiani non sono dei “privilegiati”,

l’esordio della catechesi pronunciata in piazza San Pietro e dedicata a questo tema. “Quando incontriamo veramente il Signore Gesù, lo stupore di questo incontro pervade la nostra vita e chiede di essere portato al di là di noi”, ha spiegato Francesco: “Questo egli desidera, che il suo Vangelo sia per tutti. In esso, infatti, c’è una potenza umanizzatrice, un compimento di vita che è destinata ad ogni uomo e ogni donna, perché per tutti Cristo è nato, è morto, è risorto. Per tutti, nessuno escluso”. Poi la citazione dell’Evangelii gaudium, che in questi giorni compie dieci anni: “Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione”.  “Sentiamoci al servizio della destinazione universale del Vangelo – è per tutti – e distinguiamoci per la capacità di uscire da noi stessi”, l’invito del Papa, secondo il quale “un annuncio, per esser vero annuncio, deve uscire dall’egoismo proprio” e deve avere “la capacità di superare ogni confine”.

“I cristiani si ritrovano sul sagrato più che in sacrestia, e vanno per le piazze e per le vie della città”,

ha raccomandato Francesco: “I cristiani devono essere aperti ed espansivi, i cristiani devono essere estroversi, e questo loro carattere viene da Gesù, che ha fatto della sua presenza nel mondo un cammino continuo, finalizzato a raggiungere tutti, persino imparando da certi suoi incontri”. A questo proposito, il Papa ha citato l’episodio evangelico che narra “il sorprendente incontro di Gesù” con una donna cananea che lo supplica di guarire la figlia malata. “Questo incontro con questa donna ha qualcosa di unico”, ha spiegato il Papa: “Non solo qualcuno fa cambiare idea a Gesù, e si tratta di una donna, straniera e pagana; ma il Signore stesso trova conferma al fatto che la sua predicazione non debba limitarsi al popolo a cui appartiene, ma aprirsi a tutti”.

“Noi non possiamo dire che siamo privilegiati nei confronti degli altri: la chiamata è per un servizio, e Dio sceglie uno per arrivare a tutti”, il monito a braccio, insieme all’esortazione a “prevenire la tentazione di identificare il cristianesimo con una cultura, con un’etnia, con un sistema. Non è un gruppetto di eletti di prima classe: Dio sceglie qualcuno per chiamare tutti. Questo orizzonte dell’universalità.

Il Vangelo non è solo per me, è per tutti,

non lo dimentichiamo”. “La Bibbia ci mostra che quando Dio chiama una persona e stringe un patto con alcuni il criterio è sempre questo: elegge qualcuno per raggiungere altri”, ha ricordato il Papa: “Questo è il criterio di Dio, della chiamata di Dio. Tutti gli amici del Signore hanno sperimentato la bellezza ma anche la responsabilità e il peso di essere scelti da lui. Tutti hanno provato lo scoraggiamento di fronte alle proprie debolezze o la perdita delle loro sicurezze. Ma la tentazione più grande è quella di considerare la chiamata ricevuta come un privilegio: per favore no,

la chiamata non è un privilegio, mai!”.

 

Pope Francis: in the Holy Land “the conflict has gone beyond war”

Mer, 22/11/2023 - 10:22

In his greeting to the Italian-speaking faithful at the end of Wednesday’s general audience, Pope Francis exhorted believers to “persevere in prayer for those who are suffering from wars in so many parts of the world, especially for the dear people of the martyred Ukraine, Israel and Palestine.” “This morning I received two delegations, one of Israelis with relatives held hostage in Gaza and another of Palestinians with relatives imprisoned in Israel,” the Pope told the faithful, referring to the events that preceded Wednesday’s audience. “They are suffering so much,” he continued: “I could feel the deep suffering of both.”

“That is what wars do. But here we have gone beyond wars. This is not war. This is terrorism,” Francis denounced.

“Please, let’s continue to work for peace, please continue to pray for peace,” he asked the faithful: “May the Lord lay His hand there, may the Lord help us to resolve the problems and not pursue the passions that will ultimately cause everyone’s death. Let us pray for the Palestinian people, let us pray for the Israeli people, that there may be peace.”

“The Christian proclamation is joy for all,” and Christians are not “privileged”,

the Pope said at the beginning of the catechesis in Saint Peter’s Square, devoted to this theme. “When we truly meet the Lord Jesus, the wonder of this encounter pervades our life and demands to be taken beyond us”, Francis explained: “He desires this, that His Gospel is for everyone. Indeed, in it there is a ‘humanizing power’, a fulfilment of life that is destined for every man and woman, because Christ was born, died, and rose again for everyone. For everyone: no-one excluded.” He then went on to quote from Evangelii gaudium, which marks 10 years since its publication: “Everyone has ‘a right to receive the Gospel. Christians have the duty to proclaim the Gospel without excluding anyone. Instead of seeming to impose new obligations, they should appear as people who wish to share their joy, who point to a horizon of beauty and who invite others to a delicious banquet. It is not by proselytizing that the Church grows, but ‘by attraction’.” “Let us feel that we are at the service of the universal destination of the Gospel, it is for everyone; and let us distinguish ourselves for our capacity to come out of ourselves”, the Pope’s invitation. “A proclamation, in order to be true”, the Pope said, “must leave behind one’s own selfishness – and let us also have the capacity to cross all borders.

“Christians meet on the parvis more than in the sacristy, and go “to the streets and lanes of the city”,

Francis remarked: “They must be open and expansive, Christians must be ‘extrovert’, and this character of theirs comes from Jesus, who make his presence in the world a continuous journey, aimed at reaching out to everyone, even learning from some of his encounters.” To this regard, the Pope mentioned the passage from the Gospel that narrates “Jesus’ surprising encounter” with a foreign woman, a Canaanite who begs him to cure her sick daughter. “The encounter with this woman has something unique about it”, the Pope explained. “Not only does someone make Jesus change his mind, and a woman, foreign and a pagan, but the Lord himself finds confirmation that his preaching should not be limited to the people to whom he belongs, but open to all.”

“We cannot say that we are privileged compared to others – no. The calling is for a service. And God chooses one in order to love everyone, to reach everyone”, the Pope added in unscripted remarks, along with the exhortation to “prevent the temptation of identifying Christianity with a culture, with an ethnicity, with a system. It is not a little group of first-class, chosen people. Let us not forget: God chooses some to love all. This horizon of universality.

The Gospel is not only for me, it is for everyone;

let us not forget this.” “The Bible shows us that when God calls a person and makes a pact with some of them, the criterion is always this: elect someone to reach others”, Francis pointed out: this is the criterion of God, of God’s calling. All the Lord’s friends have experienced the beauty, but also the responsibility and the burden of being ‘chosen’ by him. And everyone has felt discouragement in the face of their own weaknesses or the loss of their certainties. But perhaps the greatest temptation is that of considering the calling received as a privilege: please, no,

the calling is not a privilege, ever!”

Argentina, il nuovo presidente Milei spinge il Paese verso il dollaro

Mer, 22/11/2023 - 09:51

Il dollaro già circola abbondantemente in Argentina. Per avere un biglietto verde chi può offre almeno mille pesos. Gli stipendi popolari minimi sono di circa 150mila pesos. L’inflazione annua supera il 140% e non è leggenda che i negozi cambino i prezzi sui cartellini almeno una volta al giorno. In molti casi non li mettono neppure. Si comprano dollari appena possibile. Si cercano dollari nei mercati ufficiali e meno ufficiali perché nessuno vorrebbe avere in tasca la valuta locale. Le svalutazioni ufficiali e quelle di fatto hanno impoverito i 46 milioni di argentini che vivono in un territorio molto ampio, nove volte l’Italia, potenzialmente ricco.

Con le elezioni politiche di domenica la difficile gestione del Paese toccherà a Javier Milei, a capo di un partito di destra liberista che – nelle intenzioni – smantellarà gran parte delle scelte dei precedenti governi peronisti.

Meno Stato nell’economia, meno pubbliche amministrazioni, privatizzazioni delle grandi imprese, meno protezioni sociali garantite.

Milei lo ha detto in una campagna elettorale verbalmente violenta, impugnando una motosega, con toni che lasciano poco spazio a ripensamenti moderati. Esplicito il riferimento al dollaro come moneta futura e non è una novità in assoluto visto che al mondo altri Paesi oltre all’Argentina mettono in panchina la valuta locale per affidarsi alla stabilità del biglietto verde. La “dollarizzazione” del Paese, dibattuta per anni, è un’arma a doppio taglio: da una parte, si fissano scambi commerciali e prestiti in una supervaluta che si muove poco, che tutto il mondo riconosce e accetta come stabile. Per questo un nuovo prestito in dollari costerà meno di interessi perché c’è poco “rischio di cambio” (chi presta non ottiene più pesos iper-svalutati) mentre resta pericolosissimo il “rischio di controparte” (il debitore non è più in grado di restituire capitale e interessi), quell’insolvenza Paese che ha sorpreso anche i risparmiatori italiani all’inizio degli anni Duemila. I famosi “tango bonds”.

Dall’altra perché si possa ripagare l’enorme debito accumulato, Buenos Aires dovrà correre, l’economia dovrà produrre utili e le privatizzazioni dovranno andare in porto senza prezzi di saldo. L’aggancio al dollaro toglie quel poco di autonomia decisionale che era rimasta. La sfida è delicatissima. Milei, un economista che vuole cancellare la sua Banca centrale, dovrà imporre dei tagli alla spesa pubblica, quindi anche a settori vitali come sanità, scuola, sicurezza sapendo che gli avversari peronisti sono ancora molto forti nelle amministrazioni pubbliche centrali e locali, nell’amministrazione, nell’esercito, nel sindacato e nella cultura. C’è il rischio di disordini gravi come nel 1989? O degli anni successivi quando la sfiducia portò ad assalti agli sportelli? O addirittura di colpi di Stato o un crollo del Governo dopo pochi mesi come vorrebbero gli scenari più foschi?

Ora la campagna elettorale è finita. Tutti hanno bisogno di capire se gli slogan estremi si tradurranno in realtà. Se verrà garantito qualche spazio all’opposizione, se verranno utilizzati tecnici moderati. Agganciarsi subito il dollaro potrebbe favorire il supporto degli Usa e dell’Europa. Ma scontenterebbe Brasile, Cina e gli altri tre Paesi Brics (Russia, India e Sudafrica) che stanno costruendo un polo alternativo agli organismi internazionali dell’Occidente. L’Argentina come altri Paesi era stata invitata, ora tocca al neopresidente Milei decidere.

Israele e Hamas. Card. Pizzaballa su accordo ostaggi: “Speriamo in un ulteriore sviluppo positivo”. Patton (custode): “Ora dare sollievo alla popolazione”

Mer, 22/11/2023 - 09:45

La notizia è arrivata nella notte: il governo di Benjamin Netanyahu ha approvato l’intesa sugli ostaggi della guerra tra Israele e Hamas, mediata da Qatar, Egitto e Stati Uniti. Si tratta del primo risultato diplomatico dallo scoppio della guerra avvenuto il 7 ottobre scorso. Ci sono volute diverse ore di riunione, sotto la presidenza del premier israeliano, tra gabinetto di guerra, consiglio di sicurezza e governo, per arrivare al via libera all’accordo con Hamas che prevede il rilascio di 50 ostaggi tutti israeliani o con doppia nazionalità — 30 minori con 8 madri e altre 12 donne — in cambio di 4 giorni di tregua militare e della scarcerazione di 150 palestinesi (1 israeliano per 3 palestinesi), in gran parte donne e minori, che non scontano condanne per terrorismo. A riguardo il ministero della Giustizia israeliano ha pubblicato un elenco di 300 detenuti palestinesi che potrebbero essere rilasciati. La consegna dovrebbe avvenire a partire da domani, 12-13 ostaggi al giorno, fino alla liberazione di tutti gli ostaggi. Un’ulteriore liberazione di altri ostaggi – Hamas e Jihad islamica ne detengono almeno 240 – potrebbe portare all’estensione della tregua. Nel quadro dell’accordo anche l’arrivo a Gaza, via Egitto, di 300 camion di aiuti umanitari.

Le reazioni. Unanimi le reazioni della comunità internazionale. L’accordo raggiunto “dà qualche speranza” alle devastate famiglie degli ostaggi israeliani e “un po’ di respiro ai palestinesi di Gaza”, scrive su X Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, mentre Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, salutando con soddisfazione l’intesa, dichiara che “la Commissione europea farà tutto il possibile per utilizzare la pausa per l’invio di aiuti umanitari a Gaza”. Il presidente americano Joe Biden, in una dichiarazione citata dai media internazionali, accoglie con soddisfazione l’accordo, ringrazia “lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani del Qatar e il presidente Abdel-Fattah al-Sisi dell’Egitto per la loro collaborazione nel raggiungimento dell’intesa” e si dice “straordinariamente gratificato” al pensiero della imminente liberazione degli ostaggi. Anche la Cina, attraverso la portavoce del ministero degli Esteri, Mao Ning, “accoglie con favore l’accordo per il cessate il fuoco temporaneo” e auspica che questo “contribuisca ad alleviare la crisi umanitaria e ad allentare le tensioni”.

(Foto ANSA/SIR)

La voce della Chiesa locale. Soddisfazione per questo primo risultato diplomatico arriva anche dal Patriarcato Latino di Gerusalemme. In una breve dichiarazione resa al Sir, il patriarca latino, card. Pierbattista Pizzaballa afferma:

“Siamo contenti della notizia e ci auguriamo che questo porti ad un ulteriore sviluppo positivo che si arrivi ad una conclusione del conflitto”.

“Di buona notizia” parla al Sir anche il custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, per il quale “l’intesa tra Hamas e Israele va nella direzione di quanto Papa Francesco chiede da molte settimane. Speriamo che davvero questa tregua possa ora servire alla liberazione degli ostaggi da un lato e dall’altro dare respiro e sollievo alla popolazione civile di Gaza perché non rimanga schiacciata dal conflitto in corso”.

“Una tregua – aggiunge – è solo un breve momento di respiro ma la nostra speranza è quella che si possa arrivare a una soluzione politica di questa vicenda per conseguire una pace tra Israele e Palestina che riconosca ai cittadini israeliani e palestinesi di vivere sicuri e con dignità all’interno dei rispettivi Stati”.

Da Betlemme, in Cisgiordania, dove dall’inizio della guerra si registrano scontri, con morti e feriti, tra palestinesi e Esercito israeliano, suor Fayeza Ayad, delle Francescane minime del Sacro Cuore, auspica che “con questo accordo ora cessino le armi e si faccia spazio al dialogo e all’ascolto reciproco”. Che qualche cambiamento fosse nell’aria, rivela al Sir la religiosa, “si era capito perché l’altro ieri mattina, per la prima volta dallo scoppio della guerra, Israele ha concesso a molti insegnanti che lavorano a Gerusalemme di passare il check point alla tomba di Rachele. Un segno molto buono”.

Israel and Hamas. Card. Pizzaballa on hostage deal: “We are hoping for a positive development” Patton (Custos): “Now humanitarian aid for civilians”

Mer, 22/11/2023 - 09:45

At the end of a long night of deliberations, the Israeli cabinet, led by Benjamin Netanyahu, approved the deal brokered by Qatar, Egypt and the United States for the release of hostages in the war between Israel and Hamas. It is the first diplomatic achievement since the war broke out on 7 October. The decision to approve the deal with Hamas came after a long late-night session chaired by the Israeli prime minister and involving the war cabinet, the security council and the government. The deal provides for the release of 50 hostages, all Israelis or dual nationals – 30 minors with 8 mothers and 12 women – in exchange for a 4-day military ceasefire and the release of 150 Palestinians (1 Israeli per 3 Palestinians), mostly women and minors, who are not serving sentences for terrorism. A list of 300 Palestinian prisoners who could be released was published by the Israeli Ministry of Justice. The hostages are to be released starting tomorrow at a rate of 12-13 a day until all 50 have been freed. The ceasefire could be extended if more hostages are released – Hamas and Islamic Jihad are holding at least 240. The deal includes the delivery of 300 truckloads of humanitarian aid to Gaza via Egypt.

Reactions. The international community reacted with unanimous approval. The deal “gives some hope to the devastated families in Israel and some respite to Palestinians in Gaza,” writes Roberta Metsola, President of the European Parliament, on X, while Ursula von der Leyen, President of the European Commission, welcomed the agreement and said: “The European Commission will do its utmost to use this pause for a humanitarian surge into Gaza.” US President Joe Biden welcomed the deal in a statement released by international media. He thanked “Sheikh Tamim bin Hamad Al-Thani of Qatar and President Abdel-Fattah El-Sisi of Egypt for their critical partnership in reaching this deal.” Biden expressed gratitude that the hostages would soon be reunited with their families. China “welcomed the temporary ceasefire agreement” and expressed hope that it “will help alleviate the humanitarian crisis and reduce tension”, through the words of Foreign Ministry spokeswoman Mao Ning.

(Foto ANSA/SIR)

The voice of the local Church. Satisfaction with this first diplomatic breakthrough was also expressed by the Latin Patriarchate of Jerusalem. In a brief statement released to SIR, the Latin Patriarch, Cardinal Pierbattista Pizzaballa, said:

“We welcome the news and hope that it will lead to further positive steps towards an end to the conflict.”

Contacted by SIR, the Custos of the Holy Land, Father Francesco Patton, likewise welcomed the “good news.” “The agreement between Hamas and Israel is a step in the direction that Pope Francis has been calling for for many weeks now – he said -.We hope that this truce will now be effective both in securing the release of the hostages and in providing a respite and relief to the civil population of Gaza from the devastating impact of the ongoing conflict”.

“A ceasefire,” he added, “is only a brief respite, but it is our hope that a political solution to this situation will be reached to bring peace between Israel and Palestine – a solution that recognises the right of Israeli and Palestinian citizens to live in security and dignity in their respective States”.

From Bethlehem in the West Bank, where clashes between Palestinians and the Israeli army, resulting in deaths and injuries, have continued since the outbreak of the war, Sister Fayeza Ayad, of the Franciscan Sisters of the Sacred Heart, expressed the hope that “the deal may silence the guns and pave the way for dialogue and mutual understanding”. It was clear that some progress was being made, she said, “because the day before yesterday morning, for the first time since the war began, Israel allowed many teachers working in Jerusalem to pass through the Rachel’s Tomb checkpoint. A very positive sign.”

Parental control. Tonioni (Univ. Cattolica): “La vera tutela non nasce dalle misure restrittive”

Mar, 21/11/2023 - 10:40

Dal 21 novembre entreranno in vigore regole più restrittive sul “parental control” e ai minori sarà limitato l’accesso a siti web considerati pericolosi. Gli ultimi dati riferiscono che la percentuale di bambini dai 6 ai 10 anni che si connette ad internet è del 54%, e arriva al 94% nella fascia di età tra i 15 ed i 17 anni. Il 5% dei giovani tra i 14 e i 21 anni risulta essere moderatamente dipendente da internet e lo 0,8% è seriamente dipendente. Tra le dipendenze più diffuse: i social network, il gioco online, lo shopping o i siti pornografici. Ne parliamo con il prof. Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta, Ricercatore dell’Istituto di psichiatria e psicologia nella Facoltà di medicina dell’Università cattolica del Sacro Cuore.

Prof. Tonioni, pensa che regole più restrittive sul “parental control” possano essere una misura risolutiva?
Non credo. Proteggere i giovani utenti della rete è importante, ma la vera tutela non nasce dalle misure restrittive.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

La diffusione delle nuove tecnologie quanto influenza la psiche e la mentalità delle nuove generazioni?
L’ambiente post-natale in cui i nostri figli crescono è inedito rispetto a quello delle nostre generazioni, sono immersi fin dalla nascita nel mondo digitale. Il loro profilo cognitivo è cambiato, il linguaggio per immagini ha più spazio rispetto a quello delle parole. Questi cambiamenti sono evolutivi, non patologici. Occorre prenderne atto. La scuola, ad esempio, non si è adeguata, si utilizzano ancora troppi libri di carta. Lo zaino di un bimbo della scuola primaria è paragonabile a un trolley. Anche le metodologie didattiche e i contenuti non si sono evoluti, nelle aule gli alunni si annoiano e nel frattempo i disturbi dell’apprendimento sono cresciuti esponenzialmente. In gran parte d’Europa non esistono classi, ma corsi. Si imposta con gli studenti un rapporto più dialogante e si punta alla responsabilizzazione del discente.

Bisogna però fare i conti con i danni che l’eccessiva esposizione al web determina…
Nelle giovani generazioni assistiamo a un decremento acuto dell’uso del corpo. La comunicazione digitale non è “virtuale”, ma “reale” perché su internet si trovano amicizie, ci si innamora, si lavora… È ovvio, però, che le relazioni digitali non sono “intere”, manca il corpo in queste esperienze. Le emozioni nel mondo digitale sono “rappresentate” più che vissute, pensiamo all’impressionante numero di emoji che utilizziamo nelle chat. A volte il tempo trascorso a stretto contatto col digitale diventa la copertura di insicurezze relazionali e di una angoscia esistenziale profonda, così il web assume una funzione “autoterapeutica”, quindi patologica. Attraverso i dispositivi si attiva uno stato di dissociazione mentale, che rischia di trasformarsi in una gabbia di vetro da cui poi non si esce più.

In che cosa consiste e quanto è diffusa la dipendenza dal web e dalle nuove tecnologie?.
La patologia del web si divide in due cluster. Il primo riguarda quei ragazzini tra gli 11 e i 13 anni che, non riuscendo a scalare la “montagna” l’adolescenza, si rifugiano nel ritiro sociale, divenendo degli hikikomori. Questi preadolescenti praticano il gaming, dedicandosi soprattutto giochi “sparatutto”, che fanno da detonatore alla loro rabbia. Il secondo cluster è rappresentato dai ragazzi che invece sperimentano l’adolescenza e accedono ai social network. Spesso si imbattono con il problema del cyberbullismo, sperimentando la vergogna e l’umiliazione. Questi episodi determinano dei veri e propri breakdown, mettendo a nudo le loro fragilità emotive.

Come fare prevenzione?
Non è sottraendo il pc o stabilendo gli orari di connessione che si prevengono le patologie. Il controllo allontana da noi i nostri figli e li spinge in luoghi inaccessibili. La prevenzione deve essere fatta fin dai primissimi anni di vita. A volte i genitori cadono nella tentazione di trasformare un tablet in una baby sitter a buon mercato. Lo facciamo tutti! In alternativa, diventiamo radicalisti e poniamo divieti. È fondamentale ricordare che l’autostima è l’unica forma di prevenzione efficace e non è determinata dalle perfomance scolastiche e sportive. Essa nasce soprattutto dall’esperienza di essere amati, soprattutto quando si delude. Le regole vanno stabilite non per “vincere” sui figli e ridurli all’obbedienza, ma per comprendere e far comprendere cosa è meglio in quel momento e innescare trattative.

Le contemplative in cammino con il popolo di Dio

Mar, 21/11/2023 - 10:30

La Chiesa il 21 novembre di ogni anno celebra la giornata di preghiera per le Sorelle contemplative. Donne, provenienti da luoghi diversi, appartenenti a tutte le estrazioni sociali con livelli culturali differenti, sono chiamate dallo Spirito a vivere in fraternità alla presenza da Dio come Cristo sul monte. In unione con il Signore, scandiscono il tempo nella preghiera continua.

La loro vita rende credibile e visibile “…una storia di amore appassionato per il Signore e per l’umanità: nella vita contemplativa questa storia si dipana, giorno dopo giorno, attraverso l’appassionata ricerca del volto di Dio, nella relazione intima con Lui” (Vultum Dei quaerere 9).

Chi vive in monastero, impara nella relazione con il Signore ad amare come Lui, malgrado le fragilità e i limiti personali. Le fraternità contemplative si sentono parte di questa storia tanto amata dal Padre di Gesù Cristo, pur non servendola direttamente. La loro presenza continua ad annunciare che Dio esiste e che Dio è amore.

Coloro che sono state chiamate a vivere nella contemplazione, non rinnegano la bellezza della vita anzi, avendo scoperto il suo grande valore, la offrono al Signore per amore dell’umanità. Nella relazione con Lui la vita in Dio prende forma, a livello personale e fraterno, nella preghiera, nell’adorazione, nel silenzio, nell’ascolto, durante il lavoro, nell’accoglienza di chi bussa alla porta del monastero. Incarnando nel quotidiano la Parola, le contemplative dicono con la vita che è possibile vivere il Vangelo.

La stabilità vissuta dalle fraternità in monastero a volte interroga coloro che strutturano il tempo consumando l’esistenza nell’attimo presente, senza progettare la propria vita, senza tenere vive le radici del passato e senza riconoscere i semi esistenti che possano svilupparsi nel futuro. Interpella chi naviga da un punto all’altro del mondo, trascurando il contatto con la propria profondità esistenziale, chi, preso dal vortice delle onde virtuali, non riesce a fermarsi, per ascoltare le domande esistenziali e cercare le risposte.

Non mancano persone che oggi, pur consumando la vita nella corsa sfrenata, bussano alla porta dei monasteri e cercano ospitalità. Nella sosta sperimentano la sensazione del contatto dei piedi con la terra, l’accordo del respiro della vita con il profondo di sé. Avvertono in queste oasi di pace una nostalgia di silenzio che a volte rigenera il bisogno non solo di incontrare se stessi, ma soprattutto il Mistero che li abita. Chi sceglie di sostare in questi luoghi di preghiera, anche per un giorno, riscopre che la vita ha un senso a cui dare un nome e, confrontandosi con le monache che vivono nella stabilità alla presenza di Dio sulle orme di Gesù Cristo, sperimentano che “la fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è” (Desiderio desideravi 10).

Molti riflettono sulla dimensione contemplativa della vita come via, per ritrovare il senso profondo esistenziale, senza lasciarsi prendere dal vuoto che non fa approdare a nulla. Chi è battezzato e vive lontano dal Vangelo si accorge che è vitale il fermarsi per incontrare il Signore, se stesso e gli altri, perché senza il contatto continuo con Dio il proprio io diventa il principio e il termine della propria esistenza. Attraverso la frequentazione dei monasteri scoprono che la contemplazione è la via privilegiata per penetrare nello spessore della vita, per ritrovare le coordinate umane e divine della propria e altrui esistenza che danno un colore nuovo alla realtà. Si accorgono che le contemplative giorno per giorno si impegnano ad essere memoria vivente della presenza del Signore, assumendo il pensiero, i sentimenti e l’agire di Gesù Cristo.

La Chiesa in questo tempo chiede a tutti di sperimentare la bellezza del cammino sinodale. Anche le contemplative, vivendo in monastero, separate e non escluse dalla Chiesa e dal mondo, sentono l’importanza di camminare insieme con le donne e gli uomini del nostro tempo con la modalità propria. Possono testimoniare, in sinergia con tutti gli stati di vita, una “fraternità mistica, contem­plativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano” (Evangelii Gaudium). Nella Chiesa l’uno può arricchire l’altro con amore senza fine, senza confusioni e senza condizioni. Le contemplative, infatti, si lasciano raggiungere dall’amore Trinitario anche attraverso l’amore di coppia o di chi, come Gesù, dona tutto di sé e vive accanto ai dimenticati del nostro tempo.

Oggi c’è l’urgenza di raccontare insieme la bellezza della vita umana animata dallo Spirito. Quale idea abbiamo della vita contemplativa? Come stiamo vivendo nella Chiesa e nel mondo la dimensione contemplativa della vita? In che modo il vivere alla presenza di Dio ci apre alla speranza, alle relazioni autentiche che fanno vedere il Risorto? Che cosa ci aiuta a coltivare la disponibilità a donare la propria vita, perché altri siano felici?

I 95 anni del Movimento apostolico ciechi: “La disabilità non deve essere nascosta”

Mar, 21/11/2023 - 10:04

La persona con disabilità è un soggetto attivo nella Chiesa. A ribadirlo è il Movimento apostolico ciechi (Mac) che, in occasione dei 95 anni di fondazione, ha promosso delle giornate di condivisione in cui il messaggio al centro è stata la speranza di cui sono testimoni i tanti partecipanti. “L’assistenzialismo rientra nella cultura del passato e non possiamo negare che le Congregazioni religiose abbiano fatto un lavoro eccellente quando della disabilità nessuno si curava”, afferma don Alfonso Giorgio, assistente nazionale del Movimento. “Già da diverso tempo – osserva -, l’atteggiamento è cambiato. Alcune volte, però, ci sono famiglie di persone con disabilità che ancora non si sentono affiancate e preferiscono tenere distanti i propri figli. Come Movimento, invece, cerchiamo di stare vicini. Pure alcuni confratelli rinunciano ad accogliere perché pensano di non avere i mezzi. Ma se c’è una fragilità, che non riusciamo a gestire, dobbiamo metterci a nudo e chiedere aiuto per trovare una soluzione. La cosa più importante è avere cuore per accogliere tutti. All’inizio anch’io non ero preparato, ma nel tempo ho imparato molto”.

La persona con disabilità è un soggetto attivo nella Chiesa e “la disabilità non deve essere nascosta”, commenta il presidente nazionale del Movimento apostolico ciechi, Michelangelo Patanè. “Siamo chiamati alla santità come tutti gli altri – spiega – e non siamo santi perché disabili.

C’è ancora la necessità di porre nelle condizioni di parità i servizi, ma nel complesso le persone con disabilità hanno diritti e doveri come tutti”.

Le chiese italiane sono riuscite ad abbattere gran parte delle barriere architettoniche, “ma manca – continua Patanè – ancora in tante diocesi l’interprete del linguaggio dei segni per le persone sorde”. Le attività promosse del Movimento non si limitano all’Italia, ma si spingono nelle periferie del mondo. “Il Mac – ricorda don Alfonso – è stato fra i primi, con sorpresa di molti, a rispondere al grido di aiuto per i Paesi più poveri, dopo la lettera enciclica Populorum Progressio. Spesso abbiamo affiancato le diocesi locali. Per esempio in Etiopia o in Kenya, i progetti sostenuti dal Mac hanno permesso l’apertura di scuole per non vedenti e realizzato il miracolo per dei ragazzi mendicanti di diventare insegnanti. Anche in Tanzania, l’ultimo progetto attivato mira ad aiutare i bambini albini per sottrarli ai pregiudizi culturali o al commercio criminale degli organi”.

(Foto Movimento Apostolico Ciechi)

In occasione della VII Giornata mondiale dei poveri, una delegazione del Movimento ha partecipato alla messa nella Basilica Vaticana di San Pietro. “Vedere il Papa in carrozzina – prosegue don Alfonso – è stato un segnale per noi importante, perché dimostra la semplicità con cui Francesco manifesta la sua fragilità. Mi ha colpito quando il Pontefice ha detto che le povertà vanno cercate perché il pudore le nasconde e di non fare del bene solo a chi ci passa davanti”. La partecipazione alla messa ha rappresentato anche un ulteriore conferma che la Chiesa riconosce come parte di sé tutti: “Siamo un’associazione – evidenzia il presidente nazionale Patané – e teniamo al nostro carattere ecclesiale”.

Nel messaggio inviato in occasione dell’anniversario di fondazione, il cardinale Angelo De Donatis, vicario generale di Sua Santità per la diocesi di Roma, ha auspicato che la speranza arrivi soprattutto ai giovani “i quali – ha affermato – più di tutti non vedono con chiarezza il proprio futuro”. Anche nell’associazione ci sono giovani vedenti e non vedenti. “Con loro – racconta don Alfonso – abbiamo vissuto una parte delle giornate, fra loro si respira la voglia di ritrovarsi e di essere un segno, un incoraggiamento.

Il vedente giovane è un accompagnatore e allo stesso tempo un compagno di viaggio del non vedente. Insieme riescono a superare i limiti e questo li esorta a fare di più. Gli stessi non vedenti capiscono che è importante l’aiuto degli altri. La speranza viene seminata attraverso la testimonianza cristiana.

Con il Movimento si va oltre la disabilità, per costruire le relazioni e vivere nella società”. Un segnale di speranza viene anche dalle numerose testimonianze di inclusione espresse da giovani nelle scuole, nelle chiese o nel lavoro, durante le giornate di condivisione del Mac. “Stiamo vedendo – commenta il presidente – che c’è un interesse quando si va alle cose concrete. Un messaggio che vogliamo mandare ai giovani è questo: ci siamo abituati ad avere tanto e spesso ci lamentiamo per ciò che non abbiamo. Ricordo le parole di Papa Ratzinger che diceva che sprechiamo il superfluo mentre altrove manca il necessario”.

Orfani di femminicidio. Con i Bambini: “Nel 36% dei casi erano presenti durante l’uccisione della mamma”

Mar, 21/11/2023 - 09:34

Non ci sono stime ufficiali su quanti siano gli orfani delle vittime di femminicidio in Italia. Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, ha avviato “A braccia aperte”, la prima iniziativa di sistema in loro favore e a supporto delle famiglie affidatarie. In gergo vengono definiti “orfani speciali” perché la perdita di uno dei genitori è avvenuta per mano di un coniuge. Ma sono doppiamente orfani, perché la perdita della madre per mano del padre significa anche che l’altro genitore non ha più contatti con i figli e questi divenuti maggiorenni e consapevoli dell’accaduto quasi sempre non vogliono più vederli.

Sono 157 gli orfani presi in carico dai quattro progetti finanziati da Con i Bambini. Questo dato è variabile perché altri 260 in tutta Italia sono stati già agganciati dai partenariati gestori e a breve inizieranno anch’essi un percorso di sostegno e accompagnamento con le loro famiglie. Il progetto “Orphan of Femicide Invisible Victim” segue il Nord Est, mentre nel Nord Ovest opera il progetto “Sos – Sostegno orfani speciali”. Nel Centro Italia è attivo il progetto “Airone”, al Sud “Respiro – Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali”. La percentuale più alta di orfani accompagnati riguarda il Sud, al momento (ottobre 2023) ci sono 100 orfani presi in carico grazie al progetto “Respiro”. Ma il dato è fortemente in crescita. “Per il 74% dei beneficiari l’età di ingresso nel progetto è tra i 7-17 anni, per il 17% l’età è compresa tra 18-21 anni e per il rimanente 8% l’età è inferiore a 6 anni. Di questi, il 56% sono di sesso maschile e il 43% femminile (1% non specificato). Il 95% dei beneficiari presi in carico ha la cittadinanza italiana, solo il 5% ha cittadinanza di altri Paesi Ue o extra-Ue. Nel 36% dei casi i bambini erano presenti al momento dell’evento”. Questo elemento ha conseguenze che condizioneranno ancor più pesantemente per gran parte della vita. I minori che diventano orfani a seguito di tali tragici eventi subiscono un impatto psicologico devastante, il quale inevitabilmente influisce negativamente sulla loro sfera emotiva e relazionale. Le conseguenze psicologiche creano una vera e propria sindrome denominata “child traumatic grief”. Il bambino, sopraffatto dalla sofferenza e dalla reazione al trauma, diviene incapace di elaborare il lutto, trovandosi intrappolato in uno stato di dolore cronico. Il 13% degli orfani presenta forme di disabilità (precedenti al trauma); tra le più comuni vi sono disabilità intellettive e relazionali e un ulteriore 8% presenta bisogni educativi speciali (Bes), disturbi evolutivi specifici o disturbi psichici.

“Il 42% oggi vive in famiglia affidataria, il 10% vive in comunità e il 10% con una coppia convivente. Solo il 5% è stato dato in adozione e vive con una famiglia adottiva. L’83% delle famiglie dei beneficiari arriva a fine mese con grande difficoltà, spesso per la necessità di circondarsi di professionisti e specialisti per supportarli con i bambini, come emerso dalle interviste ai caregiver, ovvero di chi si prende cura del minore. I nuclei familiari includono in media tra i 3 e i 5 componenti compresi i bambini”. La condizione socio economica degli orfani e delle famiglie affidatarie è un altro elemento discriminante per la crescita di bambini e ragazzi che hanno subito un trauma così forte. “Il 52% riceve misure di sostegno al reddito: il 6% reddito di cittadinanza, il 45% altre misure”. L’impossibilità ad accedere agli strumenti a loro tutela o avere le stesse opportunità degli altri ragazzi non fa altro che acuire ancora di più il discrimine che sono costretti a subire anche per il loro futuro. “Il 15% di loro dichiara di avere un reddito annuale inferiore a 12mila euro, l’8% superiore, mentre per il 77% l’informazione non è nota”.

L’azione di prossimità che Con i Bambini promuove con gli orfani di femminicidio rappresenta anche una vera inchiesta conoscitiva del fenomeno. Per inquadrare meglio il fenomeno vanno presi in considerazione i fattori che caratterizzavano la vita dei ragazzi orfani di femminicidio antecedenti all’evento. Gran parte dei nuclei familiari, ovvero il 65%, non era in carico ai servizi sociali prima dell’evento, nonostante la presenza di elementi di vulnerabilità. Fatta eccezione per 25 casi cioè il 35% dei beneficiari, in cui il nucleo familiare di origine non presentava elementi di vulnerabilità, in tutti gli altri casi, si riscontrano elementi di vulnerabilità che rendono ancora più complessa la gestione delle dinamiche familiari. Tra questi i più comuni sono la presenza di familiari con dipendenze da sostanze o altro e di familiari con provvedimenti giudiziari prevalentemente di natura penale. Un altro elemento da considerare è la violenza assistita: fisica, psicologica, sessuale. In particolare, la violenza assistita psicologica è stata segnalata in 50 casi su 70.

Nei casi di femminicidio presi in carico dai progetti di Con i Bambini “il 36% dei bambini erano presenti al momento dell’uccisione della madre”.

Tre bambini, le cui madri sono state vittime di femminicidio nel 2015 e nel 2017, al momento della presa in carico da parte del progetto non erano ancora stati resi consapevoli o a conoscenza della verità rispetto all’evento. In altri 7 casi di femminicidi avvenuti tra il 2016 e il 2022 i bambini risultano essere solo in parte a conoscenza e consapevoli della verità. In numerosi casi è stato grazie al supporto del progetto che le famiglie affidatarie hanno accettato di raccontare la verità rispetto all’accaduto. Da altre interviste è emerso che in alcuni casi i professionisti che all’inizio avevano seguito le famiglie avevano consigliato di non dire la verità, o non erano in grado di gestire le emozioni durante i colloqui, confermando l’importanza della formazione e della seria supervisione per affrontare questo lavoro complesso e prezioso, che oggi le reti al lavoro garantiscono.

L’iniziativa voluta da Con i Bambini mira a sviluppare un modello flessibile e personalizzato di intervento multidisciplinare sistemico a sostegno degli orfani speciali. Nel corso dei 48 mesi di accompagnamento gli obiettivi sono “costruire una solida rete affettiva e relazionale che sostenga gli orfani nella loro crescita intesa in modo olistico (scuola, supporto psicologico, sport, orientamento al lavoro, ecc.); favorire il consolidarsi di una rete a sostegno degli affidatari insieme ad associazioni, Terzo Settore e attori della società civile di ogni territorio e dell’intero territorio nazionale; attivare sistemi per la precoce intercettazione del rischio di violenza domestica”.

(Foto: “Con i Bambini”)

“La tragedia dei femminicidi purtroppo non finisce – ricorda Marco Rossi-Doria, presidente di Con i Bambini -. Siamo tutti colpiti da questa condizione terribile. Centinaia di bambini e ragazzi vivono una situazione difficile, fortemente traumatica: la mamma viene uccisa spesso davanti ai loro occhi dal padre, che finirà i suoi giorni in prigione o si suiciderà come spesso accade.

I bambini sono orfani due volte, perdono madre e padre in un solo momento anche perché chi resta in carcere difficilmente vede i propri figli.

A crescere gli orfani di femminicidio sono i parenti di prossimità: nonni, zii, che però, nei fatti, non godono ancora, purtroppo, di costanti azioni di prossimità che le politiche pubbliche si ripromettono da tempo di attuare e vengono lasciati soli ad affrontare un dramma così grande che ha bisogno di un’attenzione specializzata, così come di supporto burocratico, economico, organizzativo, legale… E poi c’è la vita che deve ricominciare: gli studi, il lavoro e la necessità di curare la ferita profonda che è dentro di sé”. Con i Bambini grazie al Fondo di contrasto della povertà educativa, aggiunge Rossi-Doria, “segue concretamente in tutta Italia i ragazzi e i bambini rimasti orfani a causa dell’uccisione della madre, sperimentando, così, un modello di intervento che dovrà servire ai decisori pubblici per garantire i risultati auspicati su un tema tanto difficile. Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile in Italia ha assunto la responsabilità di mettersi accanto e accompagnare passo passo questi ragazzi nel migliorare la propria vita e avere una opportunità di elaborazione, per quanto possibile, di un evento inconsolabile e di crescita”.

Giulia Cecchettin. Mantelli: “Basta cultura del patriarcato e della sopraffazione maschile sulla donna!”

Mar, 21/11/2023 - 09:34

Una lunga scia di sangue. Con la brutale uccisione di Giulia Cecchettin, accoltellata e gettata in un dirupo dall’ex fidanzato, sale a 105 il numero di donne uccise dall’inizio dell’anno, fa sapere il ministero dell’Interno. Ma ieri sera c’è stata la 106ma vittima, una donna di 66 anni strangolata dal marito a Fano. Sulla scorta della morte di Giulia, grazie alla procedura d’urgenza il disegno di legge del Governo per il contrasto alla violenza sulle donne – che prevede il rafforzamento e la velocizzazione delle misure preventive e cautelari – firmato dalla ministra per le Pari opportunità e la famiglia Eugenia Roccella e già approvato all’unanimità dalla Camera, è calendarizzato in Aula al Senato per mercoledì 22 novembre. “Speriamo diventi in pochi giorni definitivamente legge dello Stato”, l’auspicio di Roccella. E intanto, su richiesta di Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del merito, che ha annunciato una campagna di educazione alle relazioni nelle scuole, oggi 21 novembre si terrà alle 11 in tutti gli istituti un minuto di silenzio.

“Aldilà di tutte le misure preventive e repressive che possiamo mettere in atto, se non riusciamo a

sradicare la subcultura del controllo, del possesso e della sopraffazione maschile sulla donna

non riusciremo mai a invertire questo trend”, dice al Sir Isolina Mantelli, presidente del Centro calabrese di solidarietà con sede a Catanzaro, all’interno del quale è attivo dal 2012 anche Mondo rosa, centro antiviolenza e casa rifugio per accogliere donne vittime di violenza di genere con i loro figli. Per Mantelli alla base di questo fenomeno in crescita c’è un mix esplosivo di elementi. Anzitutto

“una cultura del patriarcato e della sopraffazione, ancora diffusa a tutti il livelli della società e dura a morire, sulla quale si innesta una diffusa mancanza di educazione alle relazioni e al rispetto della persona”.

Isolina, ci troviamo per l’ennesima volta di fronte ad un copione già visto, dall’esito scontato…
Purtroppo, ancora una volta, è il frutto di quelle relazioni di potere che molti uomini stabiliscono all’interno del rapporto con la propria donna, e che permangono anche dopo la fine della relazione. Una modalità che cresce nell’humus della cultura patriarcale e maschilista che in modo più o meno sottile pervade tuttora la nostra società e contro la quale dobbiamo impegnarci tutti – e sottolinea con forza “tutti”, ndr. – nessuno escluso. Non basta avere una donna a capo del Governo per pensare che questi stereotipi stiano venendo meno.

Colpisce il fatto che questa subcultura del patriarcato sia attecchita anche in un giovane di poco più di vent’anni, fino a poco fa la riferivamo a uomini più adulti.
E’ una subcultura radicata e pervasiva, ma non c’è solo questo.

Oggi chi educa i ragazzi ai sentimenti, alle relazioni rispettose? Chi insegna loro che l’amore non è possesso?

Chi li prepara, attraverso i “no” detti durante l’infanzia, a gestire le frustrazioni dell’età adulta, tra queste anche l’eventuale rifiuto o abbandono da parte di una ragazza? Il “no” detto in famiglia è faticoso, crea conflitti, ma educa perché la frustrazione è un sano elemento di crescita e maturazione della personalità. Oggi i ragazzi sono abituati a pretendere subito quello che al momento è l’oggetto del proprio desiderio; il “no” scatena in loro reazioni violente.

(Foto ANSA/SIR)

Elena, la sorella di Giulia, ha avuto parole forti e ha detto che più che fare un minuto di silenzio occorre impegnarsi per proteggere le ragazze e le donne di oggi e del futuro.
Dovremmo trasformare questo minuto di silenzio in

una parola educativa per i nostri figli che apprendono la sessualità attraverso la pornografia che riduce la donna ad oggetto per il proprio piacere.

E’ importante una buona campagna di educazione alle relazioni all’interno della scuola. E’ vero che l’amore e il rispetto per la donna si dovrebbero respirare in famiglia, ma oggi molte famiglie non li vivono e non sono pertanto in grado di trasmetterli. Con l’aggravante che la cultura consumistica ha alterato anche le relazioni “oggettificando” anche le persone. Non c’è da stupirsi se alcuni considerano la donna alla stregua di un bene di consumo.

Fa riflettere anche la tempistica dell’omicidio, perpetrato alla vigilia della laurea di Giulia, come se l’assassino non volesse il suo trasferimento a Reggio Emilia e/o non tollerasse di essere rimasto indietro negli studi rispetto a lei…
Cultura patriarcale vuol dire anche non tollerare il successo professionale di una donna rispetto ad un proprio mancato traguardo, vissuto come una sconfitta. E vuol dire anche silenzio da parte degli uomini.

(Foto ANSA/SIR – INSTAGRAM / SIDEREALFIRE)

Che cosa intende dire?
Sono sconvolta e nauseata dal silenzio maschile. Vorrei vedere uomini alzarsi e gridare contro questa violenza, vorrei anche che chi è uscito dalla spirale della rabbia e della violenza parlasse e rendesse pubblica la propria testimonianza di ex uomo maltrattante. Pensi alla potenza che questa voce potrebbe avere nelle scuole. Io ho anche un Centro di riabilitazione per uomini maltrattanti, inviatici della Questura, che iniziano un percorso di consapevolezza e di recupero con psicologi e pedagogisti. A volte ci vogliono anche otto mesi prima che smettano di scaricare la responsabilità sulla donna e acquisiscano coscienza di avere un problema con la rabbia.

Isolina, c’è qualcosa che cosa vorrebbe dire alle ragazze e alle donne?
Siate prudenti e non sottovalutate segnali preoccupanti come la gelosia, la smania di controllo, il tentativo di isolarvi da familiari e amici. Purtroppo la cultura del patriarcato fa ritenere ancora a molte donne che la gelosia sia un segno di attenzione nei loro confronti; in realtà è un pericolo.

Non bisogna sentirsi lusingate e orgogliose del maschio geloso. E’ un pericolo dal quale fuggire a gambe levate!

 

Assemblea Fisc. Ungaro (presidente): “Dobbiamo essere profeti e testimoni di speranza per l’Italia”

Lun, 20/11/2023 - 12:24

“Nel 2026 la Federazione festeggia i sessant’anni di fondazione. Ci dobbiamo interrogate sul rapporto tra la Fisc e il Paese per comprendere sempre meglio il ruolo che le nostre testate possono svolgere, tanto dal punto di vista informativo che da quello sociale. Siamo radicati all’interno di una realtà ecclesiale che è profondamente cambiata in questo tempo e che oggi ci pone davanti a sfide importanti”. Mauro Ungaro, direttore del settimanale diocesano di Gorizia “Voce Isontina” e presidente della Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc), si prepara ad aprire la XX Assemblea nazionale ordinaria elettiva su “La Fisc: una voce a servizio del Paese. Informazione, cultura e sinodalità” (Roma, 23/25 novembre).

foto SIR/Marco Calvarese

L’Assemblea si tiene durante il Cammino sinodale delle Chiese in Italia. Che contributo può arrivare dai settimanali cattolici?
Il Sinodo è la quotidianità per le nostre testate che da sempre sono in ascolto dei territori, intesi non soltanto come luoghi fisici ma come luoghi teologici in cui le nostre chiese vivono la costituzione pastorale di Papa Francesco Gaudium et spes.

La Fisc è prima di tutto una realtà ecclesiale, che vive nella Chiesa ed è collegata alle chiese locali. Se questo venisse meno, perderemmo la nostra identità.

C’è grande attenzione al Cammino sinodale. Tanti direttori dei giornali si trovano nelle commissioni sinodali diocesane o sono referenti. È un dato significativo della nostra presenza. Inoltre, il Cammino sinodale ha portato una rinnovata attenzione dei vescovi al tema della comunicazione sociale e, con essa, ai settimanali diocesani. Si è riusciti ancora una volta a cogliere e valorizzare la presenza informativa e culturale, che può aiutare le diocesi nel loro impegno pastorale quotidiano. I settimanali diocesani restano una risorsa per il Paese. Il presidente Mattarella li aveva definiti un “vero presidio della democrazia“. In virtù di questo, possono favorire il Cammino sinodale della Chiesa italiana.

Cosa caratterizza le testate diocesane?
Dobbiamo essere profeti e testimoni di speranza per l’Italia. Non bisogna rincorrere lo scoop, ma stare attenti a come la notizia influisce sulla vita delle persone. Le nostre testate vivono ancora dell’edizione cartacea. I nostri lettori sono affezionati a un giornale che si legge tenendolo tra le mani.

Ma il digitale è diventato fondamentale, sia per intercettare nuovi pubblici che per dare velocità alle notizie. È un cambio di mentalità che dobbiamo assumere.

Ci viene chiesta la stessa professionalità, la stessa capacità di lettura e di approfondimento, ma con i tempi del digitale. È una sfida nell’ottica della profezia: se viviamo i territori non siamo obbligati a correre dietro alle notizie, ma possiamo anticiparle. Dobbiamo essere talmente bravi a leggere le nostre realtà, da capire le richieste e le necessità che da esse provengono.

La presenza digitale è il futuro della Fisc?
È un orizzonte del nostro impegno. Le testate non sono strutturate, tranne rare eccezioni, anche in termini di personale. Ci stiamo, però, attrezzando e diversi giornali hanno già una presenza notevole sul digitale. La pandemia ci ha mostrato l’impatto del nostro lavoro e la fedeltà dei lettori. Abbiamo la grande fortuna di avere un’agenzia di stampa come il Sir che ci apre una finestra sul mondo e ci permette di non chiuderci nel nostro ambito. Questa apertura si accompagna, ad esempio, alla presenza dei missionari in aree decentrate che non chiamano i riflettori dei grandi media. E ci permette di calare il globale nel locale, di leggere il globale attraverso la lente della nostra esperienza locale. Per i nostri lettori è un valore aggiunto, soprattutto in un tempo nel quale la notizia non è approfondimento e resta in superficie.

Quali appuntamenti attendono la Federazione?
Ci avviciniamo alla scadenza della legge sull’editoria, i cui contributi riguardano circa un terzo delle nostre testate, e guardiamo con preoccupazione a questa fase.

Le nostre testate hanno problemi economici, molti derivati dalle conseguenze della guerra in Ucraina che ha influito sull’aumento esponenziale dei costi della carta e della produzione. Ma vorrei guardare con speranza al futuro. 

Quest’anno ricorrono i sessant’anni del documento conciliare Inter mirifica
Il decreto ha segnato un passaggio fondamentale per i mezzi di comunicazione, divenuti non più semplici strumenti ma luoghi da abitare. È una realtà che sentiamo profondamente nostra: probabilmente la Federazione senza l’Inter mirifica non ci sarebbe stata, dunque restiamo fedeli al documento nel nostro lavoro.

Che bilancio dei quattro anni di presidenza?
È stato un tempo difficile in cui abbiamo vissuto la pandemia e la guerra, con tutte le conseguenze sociali, umani ed economiche. Abbiamo colto, però, un’occasione importante per la Federazione grazie al lavoro unitario del Consiglio nazionale sui temi della presenza digitale e della formazione. Grazie al sostegno fondamentale della Cei, del Servizio per la promozione del sostegno economico e alla collaborazione con Weca, abbiamo realizzato corsi di formazione che hanno avuto riscontro tra le nostre testate, perché ci rendiamo conto che le sfide che ci attendono richiedono nuove professionalità. Abbiamo puntato anche sulla valorizzazione delle energie e del rapporto con gli altri media: Avvenire, Tv2000, Sir, Corallo ma anche le realtà ecclesiali del Copercom. Siamo pronti a dare il nostro contributo in ottica sinodale.

Il “grido” del vescovo di Loikaw, città sotto assedio. In cattedrale, colpita e danneggiata, sono rifugiate ancora delle persone

Lun, 20/11/2023 - 10:18

Foto di repertorio diocesi di Loikaw (Myanmar)

Una città sotto assedio da 10 giorni, con attacchi aerei e bombardamenti continui e indiscriminati ed una cattedrale danneggiata dai colpi di artiglieria ma che continua ad ospitare le ultime famiglie impossibilitate a fuggire. È quanto sta accadendo a Loikaw, città nello Stato di Kayah (Myanmar), dove il vescovo, mons. Celso Ba Shwe, è rimasto con altri 12 sacerdoti e 10 religiose. È il vescovo a raccontarlo al Sir, dopo che domenica 19 novembre Papa Francesco all’Angelus ha parlato “insolitamente” di Myanmar la cui popolazione, ha detto, “continua a soffrire a causa di violenze e soprusi”. La situazione nel Paese è precipitata da quanto la giunta militare ha preso il potere con un colpo di stato nel 2021. Da allora, non si sono placati gli scontri tra l’esercito e i gruppi armati di resistenza.

Vescovo, il Papa ha parlato di Myanmar. Ma cosa sta succedendo?
Un feroce scontro è scoppiato a Loikaw, capitale dello Stato di Kayah, l’11 novembre, quando le forze di resistenza hanno lanciato un’offensiva per occupare la città amministrata dalla giunta. In risposta agli attacchi della resistenza, le truppe della giunta stanno conducendo bombardamenti e attacchi aerei indiscriminati che hanno ucciso decine di residenti. Bombardamenti continui, colpi di artiglieria e spari riempiono l’aria della città notte e giorno nella città di Loikaw. Ora è il decimo giorno di conflitto nella città di Loikaw.

E la popolazione?
Circa il 90% dei residenti della città si è trasferito da Loikaw verso luoghi più sicuri, nella parte occidentale dello stato di Kayah e in altre città e paesi dello Shan meridionale e in altri stati. Dall’11 novembre 1.300 persone sono accorse nel complesso della Cattedrale di Cristo Re per rifugiarsi. Abbiamo provato a evacuarli gruppo per gruppo con l’aiuto di altre organizzazioni della società civile in una settimana. Siamo riusciti a trasferire l’ultimo gruppo di 170 persone nella parrocchia più sicura più vicina nella diocesi di Pekhon, nello Stato Shan. Si tratta di anziani, famiglie con bambini piccoli e neonati, disabili, malati cronici.

Foto di repertorio diocesi di Loikaw (Myanmar)

E lei?
Rimango con 12 sacerdoti e 10 religiose al centro pastorale insieme a 37 persone, che non vogliono più lasciare la città dopo essersi spostate in molti luoghi (alcuni più di 10 volte) negli ultimi due anni. L’edificio del nostro centro pastorale è stato colpito due giorni fa da colpi di mortaio, danneggiando alcune parti del tetto e del soffitto. Fortunatamente non c’è stato nessun ferito.

E i suoi sacerdoti?
Tutti i sacerdoti e le suore anziani sono stati evacuati in luoghi più sicuri. Tutte le chiese e i conventi della città sono stati abbandonati.

Di cosa avete bisogno?
Le persone evacuate necessitano urgentemente di cibo, ripari, coperte e medicinali, in particolare coloro che si trasferiscono a Dimoso dove si trova il più grande sito di sfollati interni. Ci sono più di 150.000 sfollati interni esistenti in quell’area dal 2021.

Solo Papa Francesco si ricorda del Myanmar. Vi sentite dimenticati dai leader mondiali e dalle organizzazioni umanitarie?
Assolutamente sì! Il grido delle persone orribilmente sofferenti nella mia diocesi e in Myanmar non viene ascoltato, né notato. I leader politici mondiali conoscono molto bene cosa sta accadendo ma lo considerano parte di affari interni o come un caso minore. Sono molto triste.

Cosa chiedete?
Fate sapere al mondo e alla comunità internazionale che anche noi siamo esseri umani con una dignità che deve essere protetta, che abbiamo bisogno di giustizia, pace, amore e sostegno umanitario pratico. Ho provato più volte a parlare a livello locale con entrambe le parti in conflitto. Ma entrambe le parti sospettano di me e non accettano di parlare.

Il Papa ha anche detto che la guerra è sempre una sconfitta e che la pace è sempre possibile. Lei crede sia vero?
E’ assolutamente vero. La pace è possibile solo attraverso la Conversione del cuore e la Giustizia con misericordia. Dio chiede una conversione globale! Senza di essa, non c’è pace.

The “cry” of the bishop of Loikaw, a city under siege. People are still sheltering in the damaged cathedral.

Lun, 20/11/2023 - 10:18

The city of Loikaw has been under siege for 10 days, targeted by constant shelling and airstrikes. The cathedral has been damaged by artillery fire. The last families unable to leave the city are nonetheless still sheltered inside. The dramatic situation is unfolding in Loikaw, a city in Kayah State (Myanmar), where the Bishop, Msgr. Celso Ba Shwe, has decided to remain with 12 priests and 10 nuns. The bishop spoke to SIR about the situation, as Pope Francis mentioned Myanmar during the Angelus prayer on Sunday 19 November. The Pope recalled that the population “unfortunately continues to suffer violence and abuse.” The country’s plight has worsened since the military junta seized power in a coup in 2021. Fighting between the military and armed resistance groups has been intense ever since.

 

Bishop Ba Shwe, the Pope recalled the situation in Myanmar. What’s happening?

Fierce fighting broke out in Loikaw, the capital of Kayah State, on 11 November. Local resistance forces launched an offensive to seize the junta-controlled city. In response to the opposition attacks, junta forces launched indiscriminate shelling and air strikes, killing dozens of residents. The city of Loikaw has been subjected to continuous shelling, artillery and gunfire throughout the day and night. The armed conflict in Loikaw town is now in its tenth day.

What about the population?

About 90 percent of the population of Loikaw has fled to safety in western Kayah State and other towns and cities in south Shan and other states. Since 11 November, 1,300 people have taken refuge in the compound of Christ the King Cathedral. We tried to evacuate each group over the course of a week with the help of other civil society organisations. We were able to relocate the last group of 170 people to the nearest safe parish in Pekhon diocese, Shan State. They include elderly people, families with young children and babies, people with disabilities and people with chronic illnesses.

How are you coping?

I have remained in the pastoral centre with 12 priests, 10 nuns and 37 residents who don’t want to leave the city after having been displaced several times (some more than 10 times). Two days ago, the building of the Pastoral Centre was hit by mortar shells, which damaged parts of the roof and ceiling. Fortunately, no one was hurt.

And your priests?

All the elderly priests and nuns have been evacuated to safer places. All churches and convents in the city have been abandoned.

What do you need?

Evacuees are in urgent need of food, shelter, blankets and medicines, especially those evacuated to Dimoso, the largest IDP site. More than 150,000 IDPs have been living there since 2021.

Only Pope Francis remembers Myanmar. Do you feel that you have been forgotten by world leaders and humanitarian organisations?

Most definitely! The cry of the suffering people in my diocese and in Myanmar goes unheard and unnoticed. World leaders are well aware of what is happening, but they consider it to be an internal matter or a minor case. This makes me very sad.

What are your requests?

Please let the world and the international community know that we too are human beings with dignity that deserves to be protected, and that we need justice, peace, love and concrete humanitarian support. I have repeatedly tried to meet with the two warring parties and encourage talks. But both camps mistrust me and do not want to talk.

The Pope has also said that war is always a defeat and that peace is always possible. Do you believe this to be true?

It is absolutely true. Peace can only come from a change of heart and from merciful justice. God demands global conversion! Without it there can be no peace.

Elezioni presidenziali in Argentina. Con Milei vince la promessa di “cambiamenti drastici”

Lun, 20/11/2023 - 10:05

Tra la “minestra riscaldata” del peronismo di Sergio Massa e il salto nel buio, gli argentini hanno scelto la seconda soluzione. Temuta da molti, alla fine la vittoria di Javier Milei, in Argentina, è arrivata. In in modo chiaro e inequivocabile, con circa 11 punti di scarto, più di quelli che pronosticavano i sondaggi (55,69% contro 46,30%). Milei vince in gran parte delle province, di strettissimo margine nella periferia di Buenos Aires, più nettamente nel centro della capitale, mentre dilaga più a nord e a ovest, nelle province di Santa Fe, Córdoba e Mendoza.
Massa si è, dunque, fermato all’affermazione del primo turno (era in vantaggio di sette punti). Gli elettori non hanno dato fiducia all’attuale ministro dell’Economia, che non ha saputo fermare la crisi economica e l’inflazione, che galoppa al 140%. E hanno affidato tutte le loro speranze a colui che, nella notte, ha promesso “cambiamenti drastici, senza gradualità”, annunciando “la fine del modello dello Stato onnipresente che crea povertà, per abbracciare l’idea di libertà”. Termine che, nella concezione di Milei, significa liberismo spinto e fine dei sussidi, oltre che l’adozione del dollaro al posto del disastrato peso.

I motivi della vittoria. In realtà, la vittoria di Milei è arrivata senza dubbio grazie all’appoggio della destra liberale e più moderata guidata da Patricia Bullrich (la candidata giunta al terzo posto al primo turno), il candidato populista e iperliberista è riuscito a prevalere, nonostante le tante prese di posizione eccentriche e polemiche. Non è il primo populista a vincere le elezioni in modo clamoroso, e non sarà neppure l’ultimo. Come accaduto ad altri candidati ritenuti “estremisti” e “pericolosi” – si possono fare gli esempi di Donald Trump e Jair Bolsonaro, che pure presentano varie differenze con la figura e i riferimenti del neoeletto presidente argentino – Milei ha calamitato tutte le attenzioni in campagna elettorale. “Direi che è stata una campagna atipica, perché non si è discusso dell’amministrazione del governo, ma delle proposte di Milei”, afferma il prof. Ignacio Labaqui, analista politico e sociologo dell’Università Cattolica Argentina (Uca).

“Più che una polarizzazione ideologica, c’è molta insoddisfazione nella gestione dei principali problemi della società da parte dei partiti tradizionali. Da qui l’emergere di una figura come Milei”.

Del nuovo presidente sono ormai note le proposte “radicali”, in merito ai tagli di spesa pubblica e alle politiche assistenziali. Ha promesso, con in mano una motosega, di liberare l’Argentina dalla “casta”. Senza dimenticare alcuni riferimenti nostalgici alla stagione della dittatura militare, più evidenti nelle prese di posizione della candidata alla vicepresidenza Victoria Villarruel, deputata conservatrice vicina al partito spagnolo Vox e al mondo militare. E, nonostante siano stati ritrattati in campagna elettorale, sono noti pure gli attacchi a Papa Francesco.

Democrazia non a rischio. Davvero Milei, l’extraterrestre arrivato alla “Casa Rosada”, è dunque un rischio per la democrazia? Per il docente, al netto del programma di Milei, le cose non stanno così: “Il nuovo presidente, al di là dei proclami, non ha altra scelta, se non quella di moderarsi in caso di elezione. Al primo turno ha ottenuto solo l’appoggio di un terzo dell’elettorato, e sarà il presidente del Congresso più debole dal ritorno della democrazia, probabilmente anche di tutta la storia argentina dall’adozione del suffragio universale. Che si moderi o meno, la sua sfida principale è la governabilità. L’alleanza con Bullrich aggiunge alcuni parlamentari, ma non abbastanza per approvare le leggi”.

“Dunque, credo sia esagerato parlare di minaccia per la democrazia. Numeri alla mano, Milei sarà un presidente estremamente debole”.

“I presidenti forti sono quelli che godono di maggioranze ampie al Congresso e possono, per esempio, controllare le nomine alla magistratura. Questi, storicamente, sono stati una minaccia per la democrazia.  Per Milei si tratta più di una sfida in termini di governabilità, che di una minaccia alla democrazia”. Come accennato, decisiva è stata l’alleanza con buona parte della coalizione liberale. La scommessa, ora è quella della governabilità, e non sarà per niente facile.
Il presidente, del resto, starà seduto su un’autentica pentola a pressione, e sarà chiamato ad affrontare una crisi economica e sociale che sembra irrisolvibile. “L’Argentina – prosegue Labaqui – deve attuare un piano di stabilizzazione per ridurre l’inflazione, che ha raggiunto livelli mai visti dal 1990. Questo richiede, oltre a una diagnosi corretta e a un piano adeguato, il sostegno politico e la capacità di negoziare con i sindacati e i movimenti sociali”.
Occhi puntati anche sulla politica internazionale: “Massa aveva già avuto molti contatti internazionali con alti funzionari di Brasile, Cina, Europa e Stati Uniti. Ciò non significa che non avrebbe avuto conflitti, ad esempio sul programma del Fondo monetario internazionale, sulle licenze 5G o sulla gara d’appalto per le vie d’acqua. Con Milei, il rapporto con gli altri Paesi sarà un’incognita, ma è facile ipotizzare pessimi rapporti con i governi di sinistra del Cono Sud e con Amlo in Messico”. Tutta da confermare anche l’adesione dell’Argentina ai Paesi Brics, che era stata annunciata in occasione dell’ultimo vertice tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. In ogni caso, la vittoria di Milei conferma che l’idea di una “svolta a sinistra” del subcontinente sudamericano, di cui si parlava ampiamente un anno fa, è assai fragile.

Le preoccupazioni della Chiesa. La Chiesa argentina ha seguito con grande interesse la sfida elettorale, indicendo una Giornata di preghiera per la Patria venerdì scorso. Segno che la scadenza elettorale veniva colta come un passaggio chiave, anche se dall’episcopato non erano giunte prese di posizione in merito alla scelta sui candidati, nonostante gli attacchi di Milei al Papa. Il nuovo presidente sarà giudicato per quello che farà o non farà, soprattutto rispetto ai tanti poveri e svantaggiati. A dare voce a questa preoccupazione sono stati, alla vigilia del voto, i “curas villeros”, i sacerdoti dei quartieri periferici di Buenos Aires e delle altre principali città: “I più umili del nostro popolo hanno bisogno della sanità pubblica e dell’istruzione, dell’aiuto contro la piaga della droga, dell’integrazione socio-urbana dei quartieri popolari e della tranquillità di una democrazia consolidata”. “Non decidiamo con la paura. Non possiamo fare nulla di buono se abbiamo paura”, ha detto l’arcivescovo di Buenos Aires, mons. Jorge Ignacio García Cuerva, ieri mattina durante l’omelia domenicale. E ha avvertito che “la crisi sociale si è aggravata perché abbiamo paura gli uni degli altri”. Un male oscuro dal quale non sarà facile, per l’Argentina, liberarsi in tempi brevi.

Se le organizzazioni internazionali vanno all’angolo

Lun, 20/11/2023 - 00:05

Il 26 giugno del 1945, durante la cerimonia di fondazione dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) il Presidente statunitense Truman dichiarava: «La carta delle Nazioni Unite che state firmando è una struttura solida sulla quale possiamo costruire un mondo migliore. La storia vi onorerà per questo». A distanza di quasi ottant’anni, quel “sogno” inseguito da tre grandi della storia – Roosevelt, Churchill e Truman –mostra tutta la sua fragilità. Al termine della seconda guerra mondiale, i 51 stati fondatori – oggi aderiscono alle Nazioni Unite 193 Stati del mondo su un totale di 206 – si impegnarono a gestire collettivamente le grandi sfide mondiali. Di fronte ai tanti conflitti irrisolti, le Nazioni Unite appaiono, oggi, inadeguate a perseguire quella nobile missione. Non solo riguardo ai due più vistosi conflitti in atto – quello russo-ucraino e oggi quello in medio oriente – ma anche per tutte le altre guerre -Somalia,Sudan, Afghanistan, Iraq, Siria e altre ancora –che si combattono in ogni parte del mondo. Si deve, allora, prendere atto del fallimento dell’Onu? Il presidente della Repubblica parlando lo scorso 26 ottobre ai giovani funzionari di un programma congiunto tra Italia e Nazioni Unite, ha detto che l’Onu non va criticato, ma rafforzato, anche perché“si dimentica che la capacità dell’Onu dipende dalla disponibilità degli Stati membri”. Ed è proprio questa disponibilità che, nel tempo, è mancata. È bastato,infatti,il veto di uno solo dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti) per bloccare qualsiasi risoluzione “sostanziale”. Lo si è visto in occasione dell’invasione dell’Ucraina quando, per il veto di uno dei “Cinque”, l’ONU non ha potuto mai negoziare la fine delle ostilità. Lo si sta riscontrando ora nel medio oriente, dove per le divergenze fra i “Grandi” si trovano difficoltà per ottenere il “cessate il fuoco” e per liberare gli ostaggi e soccorrere i feriti, molti dei quali bambini. E nemmeno le sentenze per crimini di guerra , riescono a dissuadere le parti in causa dal bombardare, indiscriminatamente, ospedali,abitazioni e civili. Anche il diritto internazionale,come si vede, è ridotto alla stregua di una tigre di carta!Dallo scorso 7 ottobre tutti gli occhi del mondo sono fissi sulla Striscia di Gaza, con la conseguenza che il dramma dell’Ucraina è come caduto nel dimenticatoio. Come avvenne per l’aggressione russa, anche ora per il medio oriente, tornano le domande sulle cause del conflitto,sulla possibile durata e soluzione e,principalmente, sulla individuazione dei colpevoli. La pubblica opinione, allora, spaccata fra i pro e contro Putin, è divisa oggi fra i pro-israeliani e i pro-palestinesi. Mentre riemerge,in varie parti del mondo, quell’odioso virus dell’antisemitismo che sembrava archiviato definitivamente. Se è vero che l’attuale conflitto è stato causato dall’attacco sferrato dai terroristi di Hamas a cittadini inermi, è anche vero che siamo in presenza di un conflitto fra arabi e israeliani, conosciuto come “questione palestinese”,che si trascina da oltre 70 anni. Neppure gli accordi di Oslo del 1993, che registrarono,sostanzialmente, il reciproco riconoscimento fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, sono riusciti a porre fine al conflitto. Forse perché israeliani e palestinesi non sono stati assistiti adeguatamente dalle Organizzazioni Internazionali. In medio oriente, come peraltro, tra Russia e Ucraina, l’obiettivo della pace non può essere affidato solo alle parti belligeranti. Oriana Fallaci nel suo libro“Le radici dell’odio”, a proposito del conflitto israeliano-palestinese, si esprimeva così: “da una parte ci sono gli arabi e dall’altra gli ebrei, sia gli uni che i secondi combattono per non finire. Se vincono gli arabi sono finiti gli ebrei; se vincono gli ebrei, sono finiti gli arabi. Dunque chi ha ragione, chi ha torto, chi scegli?».Qui non si vuole cancellare la storia e neppure sminuire le responsabilità che si porta dietro Israele per le sue politiche intransigenti e belligeranti. Ma mentre nelle piazze si manifesta, scegliendo di stare “o di qua o di là”,c’è chi ha scelto di stare dalla parte delle vittime, di tutte le vittime.

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