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Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 3 mesi 3 settimane fa

La Chiesa italiana sceglie la strada dell’incontro con l’umanità, metterlo in discussione è disonestà allo stato puro

Lun, 04/12/2023 - 13:57

Viviamo un momento storico inedito. Le tante incertezze stanno svelando il volto molteplice delle povertà in Italia e nel mondo. La sfida è sempre quella: ascoltare le grida d’aiuto o voltarsi dall’altra parte? La Chiesa italiana – e questo è innegabile – continua a scegliere la strada che porta all’incontro con l’umanità. E lo fa in una misura che non ha eguali nel Paese, con esperienza e con intelligenza. Metterlo in discussione è disonestà allo stato puro. Così come rappresentare le Chiese in Italia allo sbando o in mani di chi non si sa, proprio come sta avvenendo in questi giorni su alcuni organi d’informazione e blog. È un’immagine talmente fuori dalla realtà da suscitare una serie di interrogativi sui veri obiettivi: se ci sono, quali sono?

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55 anni di Avvenire. Girardo (direttore): “Una piazza aperta in cui si possono confrontare le idee, a servizio della Chiesa e della società”

Lun, 04/12/2023 - 11:32

“Leggere i fatti e gli avvenimenti in un flusso di notizie che si è fatto sempre più pervasivo e confuso, che vive di istanti e di impressioni. Essere un giornale di idee significa scegliere, in questo mare di notizie in cui siamo immersi, le cose che vale la pena raccontare e portarle in prima pagina”. Marco Girardo, direttore di Avvenire, fa un bilancio dei 55 anni di storia del quotidiano che ricorrono oggi e apre alle prospettive sul futuro.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Cosa è cambiato rispetto al 1968?
Abbiamo la stessa ispirazione e lo stesso sguardo cattolico, cioè universale rispetto alla lettura dei fatti. Ma adesso dobbiamo scegliere ancore di più cosa raccontare. Alle volte andando controcorrente, per essere comunque sempre vicini alle persone. Paolo VI ci chiese di rispettare e servire le persone. In questo contesto informativo,

rispettare le persone significa scegliere gli argomenti da portare in pagina.

Con uno sguardo alla Chiesa e alla società che non abbia preconcetti?
Dobbiamo essere aperti al confronto e al dibattito dentro la Chiesa, che è un mondo fatto anche di ispirazioni diverse che devono convergere verso una comunione. Bisogna essere coraggiosi nell’ospitare queste posizioni.

Essere un giornale di dialogo con le radici salde nella nostra identità, ma senza che ciò diventi arroccamento.

Avvenire è una piazza in cui si possono confrontare le idee.

È un giornalismo che richiede coraggio. Alcuni potrebbero pensare che è un’informazione in perdita…
Per essere al servizio delle persone bisogna avere coraggio. Anche essere uno strumento con cui, per usare le parole di Papa Francesco, si riesce a comunicare cordialmente lo richiede. Nelle dinamiche digitali e sui social, funziona l’informazione polarizzata che alimenta le bolle autoreferenziali. Non dobbiamo essere schiavi di questo meccanismo ma tenere dritta la barra, concentrandoci su quelle che sono le istanze che riteniamo utili a un servizio secondo giustizia, verità e carità. È il mandato che ci ha consegnato Paolo VI. Dobbiamo avere il coraggio di fare delle scelte, anche controcorrente, per le quali essere disposti a pagare un prezzo.

Quanto è importante, per i cattolici italiani, avere un giornale di riferimento dove potersi sentire comunità?
È fondamentale. Avvenire è all’interno di un ecosistema informativo della Chiesa italiana che è fatto di un’agenzia di stampa come il Sir, di una televisione come Tv2000, della rete radiofonica di InBlu2000 e della presenza capillare dei giornali diocesani.

È un sistema informativo complesso, a servizio di una Chiesa ricca, diversificata, radicata sul territorio con posizioni e interpretazioni alle volte diverse che sono un arricchimento. Avere questa piazza informativa in cui è possibile un confronto aperto e trasparente è prezioso.

La Chiesa italiana e il pontificato di Francesco sono spesso oggetti di un racconto divisivo e polemico. Come si può offrire una narrazione onesta?
È sicuramente uno dei compiti più sfidanti, ma anche più appassionanti. La Chiesa italiana è accanto alle persone in ogni circostanza, soprattuto dove il tessuto sociale è lacerato e ferito. Vogliamo essere sinceri, trasparenti, onesti e capaci di ospitare posizioni diverse nella Chiesa: è un atto doveroso in questo momento. È uno degli elementi del servizio che possiamo fare alla Chiesa italiana e ai nostri lettori.

Come si sta ripensando Avvenire nel digitale?
A partire dalla neutralità del contenuto informativo che produciamo, per declinarlo nelle varie piattaforme. Un lavoro interno di riorganizzazione che prevede la capacità di selezionare le notizie, i racconti, le analisi, i commenti. E poi, in un secondo tempo, di scegliere su quale piattaforma poterli sviluppare: il giornale di carta, il podcast, la newsletter, l’informazione digitale.

Produrre contenuti e distribuirli sulle diverse piattaforme partendo dalla nostra identità.

Vogliamo avvicinare i lettori più giovani, gli under 30, e capire cosa chiedono ad Avvenire per i prossimi 55 anni. Idealmente ci domandano di essere chiari nella complessità, di avere opinioni separate dei fatti, di avere punti di vista diversi sui grandi temi, di farci prossimi a chi legge, di essere onesti nello sguardo sulla realtà.

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Che cosa mangiamo? La libertà di scelta dei consumatori passa da controlli e informazioni corrette

Lun, 04/12/2023 - 11:28

Non solo sapere cosa si mangia, ma anche esser certi che ciò che si acquista sia sicuro dal punto di vista della sanità alimentare. Liberi di scegliere, dunque, ma liberi e informati. E ragionevolmente certi che qualsiasi cosa arrivi sugli scaffali dei punti vendita, questa sia stata controllata in modo adeguato. Il tema è certamente “caldo”, anche per le recenti decisioni di Governo e  Parlamento sugli alimenti a base di insetti e su quelli “sintetizzati”.

I principi di sicurezza e informazione dovrebbero apparire scontati e acquisiti (tra l’altro in Italia sono sanciti da leggi precise), ma troppo spesso ancora finiscono nel caos mediatico oppure in quello costruito ad arte da chi vuole speculare illecitamente sull’alimentazione oppure, più semplicemente, da chi è male informato. E per capire quanta confusione vi sia, basta pensare proprio alle vicende più recenti relative agli alimenti a base di insetti oppure a quelli “sintetizzati” o “coltivati” in vitro come la carne sintetica.

Insomma, quello dell’alimentazione, si dimostra così ancora una volta un tema divisivo, in cui gli schieramenti si fanno netti e intransigenti, mentre la lucidità sembra perdersi nelle polemiche così come la scienza (vera e unica disciplina a poter dettare legge in questi casi) nelle diatribe in televisione.

L’esempio della carne sintetica è lì a dirci tutto circa la confusione e gli schieramenti che si possono generare basati sull’informazione in qualche modo non completa.

Alla domanda se sia davvero carne quella “coltivata”, la risposta non può essere univoca perché la scienza non ha ancora dato una risposta univoca.  Sulla risposta però gli schieramenti si sono formati e scontrati. E’ carne buona e sana per i sostenitori che aggiungono a loro sostegno l’assenza di antibiotici, il danno ambientale più basso, l’assenza di consumo di acqua e suolo per allevare gli animali, la diminuzione del numero di animali uccisi, la possibilità di dare carne anche anche a chi non può permettersela. E’, invece, un obbrobrio biologico per i detrattori che mettono sul tavolo dubbi come la possibilità di tumori determinate dalle staminali (che servono per costruire la carne “coltivata”), l’assenza di studi approfonditi sulla sicurezza nutrizionale,  l’elevata produzione di anidride carbonica e l’alto costo energetico del procedimento. Entrambi gli schieramenti hanno ragioni da parte loro, ma non sufficienti.

Altro esempio è quello degli insetti a tavola. Esempio che, se vi fosse bisogno, è ancora più complicato dall’elemento culturale insito da sempre nell’alimentazione. Perché, lo sappiamo, gli insetti fanno parte della gastronomia tradizionale di altre culture differenti dalla nostra (ma non per questo meno apprezzabili). Qui la scienza può forse dir poco, mentre il cozzo più sonoro arriva dallo scontro tra tradizioni alimentari secolari. Ma la confusione è sempre altissima.

Quindi che fare?

Controlli e informazioni appaiono essere ancora una volta i due cardini attorno ai quali far ruotare tutto. Controlli su due fronti. Quelli dettati già dalle leggi (in Italia eseguiti dai Carabinieri Nas ma anche dagli Ispettorati repressione frodi che fanno capo al ministero dell’agricoltura così come dalle aziende sanitarie locali) e controlli indicati dalla scienza che, magari nel silenzio dei laboratori, continua a sperimentare e, appunto, a verificare la salubrità degli alimenti soprattutto quelli “nuovi”. La morale?

Sapere cosa si mangia è, pressoché da sempre, condizione essenziale per fare scelte avvedute compatibilmente con le proprie possibilità alimentari. E deve essere condizione assicurata a tutte le fasce di popolazione. Indicazioni chiare sulle materie prime e sulla loro origine, spiegazioni comprensibili degli ingredienti, illustrazioni precise dei luoghi di origine e di trasformazione sono tutti elementi ormai insostituibili di ogni etichetta alimentare corretta, almeno nel nostro Paese. Un traguardo, raggiunto per quasi tutti i cibi almeno in Italia, che è stato duro conquistare e che ha richiesto anni di negoziati e battaglie da parte dei coltivatori e dei consumatori. Traguardo che deve però essere reso efficace per tutti. E non solo per nicchie di mercato o fasce di popolazione più o meno ampie.

Perché, a ben vedere, c’è un terzo strumento che occorre adoperare: la voglia di capire e quindi di informarsi usando fonti autorevoli e affidabili. Perché le etichette occorre leggerle con attenzione, perché sui cibi occorre comunque andar cauti, perché invece di seguire qualche guru improvvisato del mangiare e bere “sano” è sempre meglio andare alle fonti istituzionali e scientifiche.

Insomma, la prima regola da applicare è quella di non farsi abbindolare da immagini ad effetto che nascondono solo la pochezza di argomenti. Gli esempi non mancano. Tra gli ultimi basta ricordare gli “insetti contro maccheroni” e gli “alimenti del futuro”. Ma come non ricordare anche un classico della propaganda d’altri tempi come il “vino del contadino”?

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Violenza di genere. Confalonieri: “I social media possono fare da detonatore a problematicità preesistenti”

Lun, 04/12/2023 - 09:17

Emanuela Confalonieri, psicologa e docente di psicologia dello sviluppo presso l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, da diversi anni si occupa di ricerca e progetti di formazione che hanno come oggetto l’educazione affettiva e sentimentale di adolescenti e giovani adulti. Il Sir le ha rivolto alcune domande.

Professoressa Confalonieri, gli adolescenti e i giovani adulti oggi come vivono le relazioni affettive?
Una buona percentuale di adolescenti e giovani adulti vive con serenità la propria vita affettiva e le relazioni. Naturalmente l’ambiente di provenienza e le frequentazioni, di cui essi fanno esperienza negli anni della crescita, condizionano fortemente i comportamenti di ciascuno. Nei rapporti sentimentali i giovani hanno come riferimento primario il modello genitoriale e i propri coetanei. In una relazione entrano in gioco diverse sfere: intimità, impegno, reciprocità. Sono aspetti di cui si fa esperienza fin dalla nascita e che sedimentano attraverso l’esempio e il confronto con gli altri.

E la sessualità come viene vissuta dai giovani?
Gran parte di essi vive la sessualità in maniera naturale, come fase di crescita e maturazione. Poi ci sono “gli sperimentatori”, ovvero quegli adolescenti che vivono la sessualità con una accezione un po’ troppo “tecnica”, separandola dalla dimensione affettiva. Una terza tipologia riguarda i giovani che con fatica raggiungono la propria consapevolezza e identità sessuale. Molti di essi si affidano a Internet, alla pornografia o a personaggi del web per reperire informazioni e costruire le proprie certezze, a volte incorrendo in situazioni rischiose e fuorvianti.

In alcuni casi le relazioni dei giovani prendono una piega malsana e violenta…

Ci sono grandi paure che accompagnano le prime relazioni, fra cui l’abbandono e la solitudine.

Si tratta di due aspetti dell’esistenza umana oggi particolarmente “sentiti”: il nostro è un mondo in cui la solitudine viene negata, o “riempita” artificiosamente. Le giovani generazioni, inoltre, fanno fatica a sostenere i “no” e mal tollerano le frustrazioni, anche quelle che arrivano dalla scuola, o dallo sport… Coloro che non sono stati educati a vivere il “no” come un’opportunità di cambiamento e di evoluzione interiore, quando sperimentano il rifiuto in un contesto più sensibile (ad esempio, quello sentimentale) tendono a sviluppare risposte rabbiose e aggressive o a isolarsi.

I condizionamenti sono riconducibili più a disagi familiari, al contesto in cui tutti siamo immersi, o all’impatto che la tecnologia ha nelle nostre vite?
Alla base dei condizionamenti troviamo innumerevoli fattori che interagiscono fra loro. Nessuno di questi aspetti è l’unico a incidere. Un ruolo lo hanno anche il temperamento della persona e le sue caratteristiche innate. Chiaramente in un percorso di costruzione delle “competenze affettive” devono essere coinvolte le famiglie, le scuole e deve essere prevista anche l’educazione a un uso responsabile e funzionale della tecnologia.

I social media in un adolescente possono fare da detonatore a problematicità preesistenti.

E la “cultura” del corpo, così ingombrante nella nostra società, quanto pesa nello sviluppo delle dinamiche affettive?
Il “corpo” è diventato negli ultimi anni forse il “nodo” che gli adolescenti fanno più fatica a sciogliere. I socialmedia mettono in forte rilievo questo tema e spesso lo esasperano. Il corpo sta diventando la dimensione identitaria prevalente: se non sto bene con il mio corpo, non sto bene. Tornando a parlare di frustrazioni… Non si è disponibili a “sostare” nell’insoddisfazione rispetto al proprio aspetto fisico, nell’immaginario collettivo c’è poi la via di fuga del “cambiamento”, o della “trasformazione”: non mi piaccio, ma posso cambiare… Come? Indossando un outfit di tendenza, intraprendendo una dieta radicale, fotografandomi con il “filtro” giusto dello smartphone, perfino affidandomi alla chirurgia estetica.

In quale modo possono essere strutturati degli efficaci percorsi di educazione all’affettività?
Nei nostri percorsi di formazione cerchiamo di costruire delle competenze, consapevoli che le sole conoscenze non bastano. L’obiettivo non è rendere i giovani “invulnerabili”, ma capaci di affrontare fallimenti e delusioni. I campi di intervento sono: intimità, reciprocità, regolazione emotiva. Si lavora sull’identità, sulla capacità di leggere i bisogni propri e quelli dell’altro e di risolvere i conflitti attraverso il dialogo.

 

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Israele e Hamas: Yshay Dan (familiare ostaggi), “Nessuno spirito di vendetta. Dobbiamo vivere in pace”

Gio, 30/11/2023 - 08:36

Yshay Dan, franco-israeliano, ha perso la cognata Carmela, di 80 anni, e la nipote Noya, bambina autistica di 12 anni, grande fan di Harry Potter, nel corso dell’attacco terroristico del 7 ottobre di Hamas ad Israele. Le hanno ritrovate morte abbracciate, nel kibbutz di Nir Oz, dopo che la loro famiglia aveva sperato che fossero state prese come ostaggi. Sorte invece capitata a suo nipote, Ofer Kalderon, 53 anni, portato nella Striscia di Gaza con i suoi due figli, Sahar, 16 anni, ed Eretz, 12. Questi ultimi due sono stati rilasciati martedì 28 novembre da Hamas nell’ambito dell’accordo con Israele, mediato da Qatar, Egitto e Usa. Ofer è ancora tenuto in ostaggio insieme ad altri israeliani. “Non sappiamo nulla delle loro condizioni” dice al Sir, Yshay il cui cognome deriva da una delle dodici tribù di Israele, quella di Dan, che secondo il libro di Giosuè ebbe in eredità due parti della Terra Promessa poste al Nord. Yshay, tra i fondatori del kibbutz di Nir Oz, uno di quelli attaccati da Hamas, ieri ha incontrato Papa Francesco, a margine dell’udienza del mercoledì nella quale il Pontefice ha reiterato il suo appello “a pregare per la grave situazione in Israele e in Palestina; Pace, per favore, Pace. Auspico che prosegua la tregua in corso a Gaza, affinché siano rilasciati tutti gli ostaggi e sia ancora consentito l’accesso ai necessari aiuti umanitari”.

Y. Dan (secondo da dx) (Foto Y.Dan)

Parole ben accolte da Yshay che vanta di avere sempre avuto buoni rapporti con gli abitanti di Gaza. Suo fratello Uri, la cui moglie è stata uccisa, per anni ha accompagnato gratuitamente i gazawi bisognosi di cure negli ospedali israeliani. Al termine dell’udienza il Sir lo ha intervistato.

Come è andato l’incontro con Papa Francesco?
Ringrazio moltissimo il Pontefice. Ho avvertito qualcosa che prima non conoscevo, ovvero il fatto che lui può dare una speranza, la speranza. Non so se sia “una” speranza o “la” speranza, ma l’ho guardato negli occhi e ho parlato con lui. Mi ha sorpreso constatare con quanta attenzione stesse ascoltando quanto gli stavo dicendo. Gli ho mostrato la foto della mia famiglia – due di loro erano in ostaggio fino a due giorni fa, un altro lo è ancora – e gli ho parlato di tutti i 100 e più ostaggi. Mi ha detto di pregare per la pace tra Israele e i palestinesi, per gli ostaggi e per coloro che soffrono o sono malati. Gli ho mostrato la foto degli ostaggi, lui ha poggiato la sua mano sulla mia e mi ha detto, in francese,

“Sono con te, pregherò per questo e non dimenticarlo”.

Per tutto questo tempo il suo sguardo è stato rivolto a me. In Israele ci sono dei grandi rabbini e quando parlano sono in grado di trasmettere una grandissima forza. Questo è esattamente ciò che ho percepito. Vorrei precisare che non sono un credente, sono agnostico. Ma se vuole sapere cosa ho provato esattamente, la risposta è che ho provato qualcosa di molto forte che non saprei definire.

(Foto AFP/SIR)

Cosa pensa della tregua e dell’accordo per il rilascio degli ostaggi?
Non ho una risposta perché non so il motivo di tutto questo. Penso che nessun uomo al mondo ce l’abbia. Credo che il Qatar dia soldi per ottenere il rilascio degli ostaggi. Non sappiamo cosa sia successo, non ho una risposta chiara a questa domanda.

Ha speranze per il futuro rilascio degli altri ostaggi, è fiducioso?
Non lo sono affatto. Ho imparato a convivere con il pensiero che non sono più vivi e mi sorprendo soltanto quando accade qualcosa di positivo.

Ha avuto modo di parlare con i familiari degli ostaggi già liberati? 
Ho avuto l’opportunità di parlare con la figlia di mio fratello, i cui due figli sono stati liberati. Mi ha detto che i loro bambini sono molto tristi, non parlano. E lei non insiste nel farli parlare. Ha saputo di uno dei bambini preso in ostaggio che ha detto che sono stati costretti a vedere i filmati di Hamas che documentano le atrocità compiute in Israele, hanno potuto vedere ciò che è stato fatto alle donne, come hanno tagliato la testa del neonato. È orribile. Forse anche i figli di mio fratello hanno visto queste immagini ma non parlano. Le poche volte che lo fanno parlano molto lentamente e sottovoce, come se fossero in uno stato di shock. Ma non ho certezza di questo.

Si sta discutendo di un prolungamento della tregua. Questa settimana è prevista la visita del Segretario di Stato americano Anthony Blinken in Israele e in Cisgiordania, mentre si attende il rilascio di nuovi ostaggi e prigionieri. Lei crede in una vicina conclusione della guerra?
Io e la maggior parte delle persone attaccate da Hamas nel sud di Israele abbiamo grossi problemi che rispondono al nome di Benjamin Netanyahu e dei coloni. Penso che sia loro interesse che la guerra continui, quindi non credo che ci chiederanno se vogliamo la pace o meno. Dicono che bisogna continuare a combattere perché credono nelle parole dei profeti o non so cosa.

A suo parere esiste la possibilità che, in un futuro prossimo, israeliani e palestinesi possano convivere pacificamente?
Sì. Sono sicuro che faremo il possibile a riguardo.

Faremo la pace con i cittadini arabi, e loro la faranno con noi e sono sicuro che l’accetteranno. Sono persuaso che la maggior parte di loro vuole la pace con Israele. La maggior parte degli israeliani ricerca la pace, intesa come pari dignità,

non una pace che implica che noi saremo il re e i palestinesi gli schiavi. Nessuno vuole questo. Nessuno spirito di vendetta. So che dobbiamo vivere insieme in pace perché può essere un paradiso. Ricostruiremo Gaza, ne sono sicuro. E sarà per i palestinesi, non per l’esercito e non per il governo. Spero ci sia un cambio di governo e la pace con il nostro vicino.

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Malta. Un “Laboratorio della Pace” nel cuore del Mediterraneo, dove il migrante non è un numero ma una persona

Mer, 29/11/2023 - 16:57

Malta, Padre Dyonisius, fondatore di “PeaceLab” (Foto Sir)

(da Malta) È un via vai continuo di ragazzi che bussano alla porta o chiamano al telefono. Nonostante i suoi 93 anni e un corpo piegato dalla lunga vita, padre Dionysius Mintoff, frate francescano, risponde, fa domande e dà indicazioni chiare su dove andare e cosa fare. Il problema principale per tutti è ottenere un documento di richiedente asilo. Senza quello, ripete con voce forte e decisa, o si torna indietro o si viene lasciati per strada. Siamo nel Centro di accoglienza per migranti “Giovanni XXIII Peace Lab”. Un laboratorio di pace. Forse più semplicemente, un posto dove trovare rifugio e aiuto e da dove ripartire per costruire un futuro. È venuto qui anche Papa Francesco durante la sua visita a Malta nell’aprile del 2022. Siamo ad Hal Far, la zona dove si trova l’aeroporto. Poco lontano da qui fino ad un mese fa, nel campo profughi c’erano 12 mila migranti. Ora non c’è praticamente più nessuno. I ragazzi che arrivano al Centro di padre Dionysius vengono da Mali, Eritrea, Etiopia, Senegal, Sudan, Somalia. L’elenco è una geografia di Paesi messi duramente alla prova da guerre, instabilità politiche, cambiamenti climatici, povertà spesso estreme. I ragazzi – racconta il sacerdote – hanno alle spalle mesi, addirittura anni di viaggio, detenzioni, maltrattamenti. Mentre il francescano parla, alla porta si affaccia un ragazzo. Ha 26 anni. Viene dal Sudan. In jeans e felpa rossa, riesce a dire con voce incrinata dall’emozione, solo una parola: “casa”. Poi fa vedere un documento. Sembra un passaporto. Lo mostra come fosse la cosa più preziosa che ha. Ma il francescano gli dice che quel documento qui non vale a niente, che deve assolutamente richiedere un documento di asilo e che se viene preso senza quel “foglio”, rischia di tornare da dove è venuto, mandando in fumo tutto.

Malta, padre Dionysius con un giovane della Somalia (Foto Sir)

Al Peace Lab attualmente ci sono 54 ragazzi. Ma i numeri variano di continuo. Di mattina, c’è poca gente perché lavorano quasi tutti. Al centro possono mangiare, dormire, addirittura pregare in chiesa o in moschea. Ogni giorno, 4 medici garantiscono a turno un’assistenza sanitaria in una piccolissima clinica adibita nel centro. Per loro, ci sono anche sale dove possono incontrarsi e frequentare una scuola di lingua inglese e “general skills” per aiutarli ad affrontare la vita nei diversi paesi di approdo. Da una stanza esce Hasan. Ha 24 anni e viene dalla Somalia. Con il ragazzo sudanese fa da traduttore in arabo. La sua è una vita in viaggio difficile da seguire tra campi profughi, rotte in barca, tappe. Solo la destinazione finale è certa: ora vive qui. Ride quando gli si chiede se ha un sogno. “Non lo so”, risponde. “Sarei contento di poter vivere una buona vita”.

Malta, la Chiesa nel centro PeaceLab (Foto Sir)

“La guerra fa male, molto”, dice con faccia serissima padre Dionysius. “Fa male a tutti, ai vincitori e ai vinti. Uccide gli innocenti. Genera sofferenza, distruzione, morte. E più aumentano le guerre nel mondo, più aumentano le persone in fuga che vengono a bussare alle porte dei nostri paesi per chiedere aiuto”. Forte è il ricordo della giornata vissuta con Papa Francesco. “Doveva stare qui una mezzora”, racconta il francescano. “È rimasto tre ore e ha potuto parlare con i nostri ragazzi, conoscere le loro storie”. In quella occasione il papa parlò dell’importanza dei “luoghi di umanità”, luoghi dove le persone non sono trattate “come dei numeri, ma per quello che sono”, cioè volti, storie, “semplicemente uomini e donne, fratelli e sorelle”. “Siamo qui per dare testimonianza”, aggiunge padre Dionysius, “per rendere credibili le parole del Vangelo laddove Gesù dice: ‘Ero straniero e mi avete accolto’. I problemi non si risolvono con i seminari e i discorsi. Le ingiustizie e le povertà si affrontano solo andando a vivere con chi le subisce”. Tra le carte, il francescano prende un quaderno di appunti scritti a mano. Ne tira fuori uno scritto tanti anni fa:

“Devi vivere con la gente per conoscere i loro problemi. Devi vivere con Dio, per risolverli”.

Vuole dire qualcosa oggi a Papa Francesco? “Gli vorrei dire che il sabato e la domenica, la chiesa è pienissima di persone che pregano sempre per lui. Che Dio gli dia la forza perché possa continuare a diffondere, soprattutto laddove ci sono povertà e guerre, semi di amore e di speranza, e possa vederli crescere robusti e duraturi”.

 

Striscia di Gaza: ricordi di viaggio, otto anni dopo, di guerra in guerra

Mer, 29/11/2023 - 14:57

Come starà Naima? I ragazzi della Holy Family School staranno continuando a studiare? Le suore della parrocchia latina della Sacra Famiglia riusciranno ancora a trovare la forza di sorridere ai bimbi di cui si prendevano cura? Sono stati i miei primi pensieri quando, lo scorso 7 ottobre, è arrivata la notizia dell’attacco di Hamas a Israele, che ha dato inizio a una guerra sanguinosa e spaventosa, che in meno di due mesi ha ucciso oltre 10mila persone.

Quando leggo degli orrori che si stanno compiendo, quando vedo le immagini dei luoghi distrutti, delle persone che hanno perso tutto, la mia mente va al viaggio che nel novembre del 2015 mi ha portato, insieme a un gruppo di giornalisti della Fisc (la Federazione italiana dei settimanali cattolici), in Israele.

(Foto M. Ricci)

Una settimana intensa in cui abbiamo visto con i nostri occhi cosa significa vivere in quei luoghi, in cui abbiamo conosciuto persone che non avevano nulla ma davano tutto per aiutare gli altri. Abbiamo fatto tappa a Gerusalemme, a Betlemme e infine nella Striscia di Gaza. Abbiamo percorso con il cuore pesante il lungo corridoio che separa il resto del mondo da quel lembo di terra. Ad accoglierci trovammo il parroco, padre Mario Da Silva, che allora guidava la parrocchia latina della Sacra Famiglia, nel nord della Striscia. In quegli spazi oggi convivono oltre 700 cristiani sfollati, che non hanno più nulla e si sono rifugiati lì per cercare riparo dai razzi, dalle esplosioni, dalla violenza che imperversa ovunque. Hanno deciso di non spostarsi al sud, come intimato da Israele, perché quella è la loro terra e perché per molte persone, con disabilità o gravi patologie, affrontare un viaggio sarebbe impossibile. Anche otto anni fa quella parrocchia era un luogo di accoglienza. Padre Mario, insieme alle suore di Madre Teresa di Calcutta, si prendeva cura di bambini e ragazzi spesso abbandonati dalle famiglie, di persone malate e anziani soli, che altrimenti non avrebbero saputo come sopravvivere. Ripenso alle parole di don Mario, quando ci raccontava che per loro, purtroppo, avere a che fare con il sibilo dei razzi e delle bombe era la norma.

Da quando si era ritirato da Gaza nel 2005, Israele aveva già combattuto tre guerre con i terroristi di Hamas, nel 2008, nel 2012, nel 2014. “Una notte abbiamo ricevuto una chiamata. Potevamo essere uno dei bersagli del bombardamento previsto nelle ore successive. Ci veniva chiesto di andarcene, ma non sapevamo come trasportare le persone invalide e gli ammalati, né tantomeno dove portarli. Ci siamo stretti gli uni agli altri e abbiamo pregato”. Mi chiedo come stiano, oggi, quelle suore, quei bambini, quegli anziani. Mi chiedo se, come raccontava don Mario, si abbracciano ancora “cercando conforto, cercando una speranza nel buio della notte mentre il rumore delle esplosioni è sempre più vicino”. Mi chiedo se le suore che ho conosciuto sorridono come facevano allora, anche se vivevano in un paese dove la vita era sempre appesa a un filo. Il giorno in cui ci accolsero in parrocchia quei sorrisi erano per noi, per quei “volti amici” di cui, ci dissero, avevano “molto bisogno”. Ci offrirono il pranzo, probabilmente uno dei più belli a cui io abbia mai preso parte. Eravamo in una cucina poco illuminata e anche poco riscaldata, attorno a un tavolo apparecchiato ‘alla meglio’ con qualche bottiglia di aranciata e le pizze da asporto, che condividemmo pescando direttamente dai cartoni. Le suore non conoscevano molto l’italiano, comunicare a parole non era semplice.

Ingresso a Gaza (Foto M. Ricci)

Eppure di quel pranzo io non ricordo il silenzio, il freddo o la penombra. Ricordo i sorrisi, il cuore carico di emozione, gli sguardi pieni di gioia, la riconoscenza reciproca. Non serviva altro per illuminare, riscaldare e riempire quella stanza. Gli stessi sguardi e gli stessi sorrisi riconoscenti li ho ritrovati spesso durante la nostra permanenza a Gaza. Come quando entrammo nelle classi della Holy Family School, una delle tre scuole cattoliche della Striscia. Bambini e ragazzi non vedevano l’ora di parlare con noi. Nonostante la loro giovane età, tutti avevano conosciuto gli orrori della guerra. Tutti avevano perso un familiare, un amico, un parente sotto le bombe. Ma resistevano:

“Non smettiamo di sognare. Il nostro modo di combattere è studiare”.

In tanti volevano frequentare l’università, dopo il diploma. Senza andarsene dalla Striscia, ma “cercando di fare qualcosa qui, nella nostra terra, che speriamo un giorno di poter cambiare”. Mi chiedo come stanno, cosa fanno oggi, se sono rimasti a Gaza, se riescono, nonostante tutto, a sperare ancora.

Gaza, Naima con padre Da Silva (Foto Sir)

Poi ripenso a Naima, che allora aveva 84 anni. Viveva in un piccolo appartamento, buio e freddo. Non aveva nulla, spesso nemmeno i soldi per comprare le medicine. Eppure, al nostro arrivo in casa sua, era riuscita a trovare un pacchetto di caramelle che ci aveva offerto per darci il benvenuto. Da 25 anni non vedeva i figli, non aveva mai conosciuto i nipoti. Gaza era la sua terra: “Qui sono nata e qui voglio morire”. Mi domando se Naima è ancora viva, se litiga ancora con quell’immagine stropicciata di Gesù che teneva tra le mani e a cui si rivolgeva quando non aveva nulla da mangiare. Ricordo ancora la sua voce rotta dal pianto quando ci raccontava della solitudine, della sofferenza, delle difficoltà della vita di ogni giorno. Mi chiedo se riesce ancora a inseguire quel sogno che volle condividere con noi: “Vorrei tanto che il Papa venisse qui. Mi piacerebbe conoscerlo e incontrarlo di persona”. Mi chiedo se si aggrappa ancora al suo “mare. A Gaza è bellissimo”.

 

 

Gabriele (Consumerismo): “La fine annunciata del mercato tutelato farà aumentare i prezzi”

Mer, 29/11/2023 - 11:32

Da gennaio inizia il gas, da aprile l’elettricità. L’uscita dal mercato tutelato, rimandata a partire dal 2017, è alle porte e riguarderà circa 6 milioni per le utenze gas e 9,5 milioni di utenze domestiche elettriche. Chi manterrà le garanzie saranno coloro che rientreranno nella fascia di vulnerabilità, stabilita secondo criteri di fragilità. A dare il definitivo addio al mercato tutelato è stato il Consiglio dei ministri che lunedì 27 ha approvato un decreto sull’energia che non contiene ulteriori proroghe. La decisione dell’esecutivo è stata motivata dalla volontà di non andare contro la Commissione europea che attende il passaggio da tempo. Per il presidente dell’associazione Consumerismo, Luigi Gabriele, “il prezzo del mercato di tutela, che spesso poteva apparire più vantaggioso rispetto al libero mercato, nella maggior parte dei casi era una soglia per gli operatori del libero mercato oltre il quale non andare. Ora che verrà meno questa comparazione, è plausibile che gli operatori tenderanno ad alzare i prezzi, visto che non c’è più un punto di riferimento”.

Presidente, la mancata proroga al mercato tutelato sarà davvero un salasso come viene annunciato per le famiglie?
Sì lo sarà per tutti coloro che non sono capaci di muoversi nel mercato libero. La tutela proteggeva proprio le persone che oggi vengono classificate all’interno di una categoria più ristretta e vulnerabile per cause economiche o di salute e la gran parte dei cittadini che non hanno la consapevolezza di andare a individuare un fornitore su libero mercato anche per la difficoltà di leggere la bolletta energetica. C’è poi una questione legata al prezzo che tenderà a salire: fino ad oggi quello del mercato di tutela, che spesso poteva apparire più vantaggioso rispetto al libero mercato, era nella maggior parte dei casi un ‘prezzo soglia’ per gli operatori del libero mercato oltre il quale andare. Ora che verrà meno questa comparazione, è plausibile che gli operatori tenderanno ad alzare i prezzi, visto che non c’è più un punto di riferimento. Già nella relazione annuale dell’autorità garante era stato indicato che su 2000 offerte sul libero mercato, solo 200 erano più convenienti dell’offerta di tutela.

Il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica annuncia che farà un tavolo per rendere più “morbido” il passaggio per le famiglie. Anche le organizzazioni dei consumatori saranno coinvolte? 
Tavoli e convocazioni non hanno molto senso quando le decisioni sono state già prese. Il tema vero è che c’era un ampio tempo a disposizione per avviare delle campagne di sensibilizzazione e comunicazione. I consumatori non sono stati raggiunti da queste campagne né tanto meno da parte delle organizzazioni dei consumatori che hanno avuto a disposizione budget per farlo. La cosa fondamentale è garantire la massima trasparenza. In questo cambio straordinario di sistema basato su una protezione ex ante a una condizione in cui sarà il mercato a decidere sarà difficile che qualcuno non venga confuso o che non si senta raggirato.

Quali potrebbero essere i consigli da dare oggi ai consumatori?
Consiglio di non affidarsi in alcun modo alle offerte che vengono fatte al telefono o porta a porta. Sconsiglio di fidarsi anche perché vengono avanzate da persone non esperte. Consiglio invece di farsi aiutare a capire se si possiedono i requisiti per rimanere nelle fasce protette perché rientrano nelle categorie dei vulnerabili. In caso contrario, farsi aiutare da amici e parenti considerando prima una lettura approfondita dei consumi. In generale è sempre meglio fare riferimento ai fornitori che hanno un negozio su strada e che mostrino di essere sempre reperibili. Un po’ come abbiamo fatto con la telefonia quando c’è stata la liberalizzazione

Papa Francesco: “Ancora non sto bene. Continuiamo a pregare per la Terra Santa”

Mer, 29/11/2023 - 11:04

“Ancora non sto bene e la voce non va tanto”. Papa Francesco, che ieri sera su consiglio dei medici ha annullato il viaggio a Dubai per la Cop28, ha iniziato con queste parole l’udienza di oggi in Aula Paolo VI, lasciando poi la lettura della catechesi a mons. Filippo Ciampanelli, della Segreteria di Stato, che ha letto anche i saluti nelle varie lingue. Al termine dell’udienza, dopo aver assistito ad un’esibizione di artisti circensi che partecipano al Festival dei talenti circensi italiani, Francesco ha preso la parola per un ennesimo appello per la pace in Terra Santa.  Per descrivere le sue condizioni di salute, dopo che nell’Angelus di domenica scorsa da Casa Santa Marta aveva parlato di “infezione ai polmoni”, il Papa ha usato il termine spagnolo “gripe”, che significa influenza.

“Per favore, continuiamo a pregare per la grave situazione in Terra Santa”, l’appello di Bergoglio, che ha preso la parola per chiedere ancora una volta: “Pace, per favore, pace!”. “Auspico che prosegua la tregua in corso a Gaza, affinché siano rilasciati tutti gli ostaggi e sia ancora consentito l’accesso ai necessari aiuti umanitari”,

ha detto Francesco, che poi ha proseguito: “Ho sentito la parrocchia lì: manca l’acqua, manca il pane, la gente soffre. È la gente semplice, la gente del popolo che soffre: non soffrono quelli che fanno la guerra. Chiediamo la pace”. “E non dimentichiamo, parlando di pace, il caro popolo ucraino, che soffre tanto”, l’invito del Papa, che ha ribadito: “La guerra sempre è una sconfitta, tutti perdono. Tutti no, c’è un gruppo che guadagna tanto:

i fabbricanti di armi, questi guadagnano bene sopra la morte degli altri”.

Subito prima, clown, acrobati e giocolieri circensi hanno dato un saggio della loro abilità davanti a Francesco, che li ha applauditi a più riprese, concedendosi poi per una foto di gruppo. “Vorrei ringraziare per questo momento di gioia questi ragazze e ragazze del circo”, l’omaggio a braccio: “Il circo ci spinge ad una dimensione dell’anima umana: la gioia gratuita, quella gioia semplice, fatta con la mistica del gioco. Ringrazio tanto questi ragazzi e ragazze che ci fanno ridere, ma che ci danno l’esempio di un allenamento molto forte, perché per arrivare a quello che arrivano loro c’è un allenamento molto forte”.

“Ci troviamo nella prima civiltà della storia che globalmente prova a organizzare una società umana senza la presenza di Dio, concentrandosi in enormi città che restano orizzontali anche se hanno grattacieli vertiginosi”.

È l’analisi del Papa, nella catechesi dell’udienza letta da mons. Ciampanelli “Anche oggi la coesione, anziché sulla fraternità e sulla pace, si fonda spesso sull’ambizione, sui nazionalismi, sull’omologazione, su strutture tecnico-economiche che inculcano la persuasione che Dio sia insignificante e inutile: non tanto perché si ricerca un di più di sapere, ma soprattutto per un di più di potere”, il commento sulla scorta del racconto della Torre di Babele: “È una tentazione che pervade le grandi sfide della cultura odierna”.

“Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia”,

l’esortazione per il tempo presente: “Occorre stare nei crocevia dell’oggi. Uscire da essi significherebbe impoverire il Vangelo e ridurre la Chiesa a una setta. Frequentarli, invece, aiuta noi cristiani a comprendere in modo rinnovato le ragioni della nostra speranza, per estrarre e condividere dal tesoro della fede cose nuove e cose antiche”. Per Francesco, “si può annunciare Gesù solo abitando la cultura del proprio tempo. Non serve contrapporre all’oggi visioni alternative provenienti dal passato. Nemmeno basta ribadire semplicemente delle convinzioni religiose acquisite che, per quanto vere, diventano astratte col passare del tempo”.

“Una verità non diventa più credibile perché si alza la voce nel dirla, ma perché viene testimoniata con la vita”,

la tesi del Papa, secondo il quale “lo zelo apostolico non è mai semplice ripetizione di uno stile acquisito, ma testimonianza che il Vangelo è vivo oggi qui per noi”. “Coscienti di questo, guardiamo dunque alla nostra epoca e alla nostra cultura come a un dono”, l’indicazione di rotta: “Esse sono nostre ed evangelizzarle non significa giudicarle da lontano, nemmeno stare su un balcone a gridare il nome di Gesù, ma scendere per strada, andare nei luoghi dove si vive, frequentare gli spazi dove si soffre, si lavora, si studia e si riflette, abitare i crocevia in cui gli esseri umani condividono ciò che ha senso per la loro vita. Significa essere, come Chiesa, fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti”. “Più che voler riconvertire il mondo d’oggi, ci serve convertire la pastorale perché incarni meglio il Vangelo nell’oggi”, conclude Francesco: “Facciamo nostro il desiderio di Gesù: aiutare i compagni di viaggio a non smarrire il desiderio di Dio, per aprire il cuore a Lui e trovare il solo che, oggi e sempre, dona pace e gioia all’uomo”.

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Pope Francis: “I am still unwell. Please continue to pray for the Holy Land”

Mer, 29/11/2023 - 11:04

“I am still not well and my voice is not good.” With these words Pope Francis opened Wednesday’s audience in the Paul VI Hall, having cancelled his trip to the COP28 in Dubai last night on the advice of his doctors. Msgr. Filippo Ciampanelli, a dignitary of the Secretariat of State, then read the catechesis and delivered the greetings in the various languages. At the end of the audience, after a performance by circus artists participating in the Festival of Italian Circus Talents, Francis renewed his call for peace in the Holy Land.  Referring to his state of health, the Pope used the Spanish term “gripe”, which means flu. He had mentioned a “lung infection” during last Sunday’s Angelus from Casa Santa Marta.

“Please, continue to pray for the serious situation in the Holy Land”, was the Pope’s appeal who took the floor to renew his appeal: “Please, please, peace!” “I hope that the ongoing ceasefire in Gaza will continue, that all hostages will be released, and that necessary humanitarian aid will still be allowed in”,

Francis said. He added: “I have been in contact with the parish in Gaza: there is no water, there is no bread, people are suffering. The simple people, the suffering population: those who wage war are not suffering. We are asking for peace”. ” Speaking of peace, let us not forget the dear Ukrainian people, who are suffering so much,” the Pope remarked: “War is always a defeat, everybody loses. Not everyone, there is a group that profits a lot:

The arms dealers, they profit greatly from the death of other people”.

Earlier, clowns, acrobats and circus jugglers performed for Francis, who applauded them several times before posing for a group photo. “I would like to thank these young girls and boys of the circus for this moment of joy,” he said in unscripted remarks: “The circus makes us enjoy a specific aspect of the human soul, which is gratuitous joy, the simple joy that comes with the mystique of play. I am extremely grateful to these boys and girls who make us smile, while at the same time demonstrating their hard training, because to do what they do requires a very high level of training”.

“We find ourselves in the first civilization in history that globally seeks to organize a human society without the presence of God, concentrated in huge cities that remain horizontal despite their vertiginous skyscrapers”,

states the Pope’s reflection contained in the catechesis for the audience read out by Monsignor Campanelli. “Even today, cohesion, instead of fraternity and peace, is often based on ambition, nationalism, homologation, and techno-economic structures that inculcate the persuasion that God is insignificant and useless: not so much because one seeks more knowledge, but above all for the sake of more power”, is the comment referred to the story of the Tower of Babel: “It is a temptation that pervades the great challenges of today’s culture.”

“We must not fear dialogue: on the contrary, it is precisely confrontation and criticism that help us to preserve theology from being transformed into ideology”,

the exhortation for the present time: “It is necessary to stand at the crossroads of today. Leaving them would impoverish the Gospel and reduce the Church to a sect. Frequenting them, on the other hand, helps us Christians to understand in a renewed way the reasons for our hope, to extract and share from the treasure of faith ‘what is new and what is old’”. For Francis, “Jesus can be proclaimed only by inhabiting the culture of one’s own time. There is therefore no need to contrast today with alternative visions from the past. Nor is it sufficient to simply reiterate acquired religious convictions that, however true, become abstract with the passage of time.”

“A truth does not become more credible because one raises one’s voice in speaking it, but because it is witnessed with one’s life”,

is the Pope’s thesis, for whom “apostolic zeal is never a simple repetition of an acquired style, but testimony that the Gospel is alive today here for us.” “Aware of this, let us therefore look at our age and our culture as a gift.” The Pope’s guidance: “They are ours, and evangelizing them does not mean judging them from afar, nor is it standing on a balcony and shouting out Jesus’ name, but rather going down onto the streets, going to the places where one lives, frequenting the spaces where one suffers, works, studies and reflects, inhabiting the crossroads where human beings share what has meaning for their lives. It means being, as a Church, a leaven for dialogue, encounter, unity. After all, our own formulations of faith are the fruit of dialogue and encounter among cultures, communities and various situations.” “More than wanting to convert the world of today, we need to convert pastoral care so that it better incarnates the Gospel in today”, Francis concluded: “Let us make Jesus’ desire our own: to help fellow travellers not to lose the desire for God, to open their hearts to Him and find the only One who, today and always, gives peace and joy to humanity.”

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Giovani. Teen Star: il programma dedicato alla sessualità e all’affettività degli adolescenti

Mer, 29/11/2023 - 10:18

Nell’ambito del programma internazionale “Teen Star” (www.teenstar.it), dedicato alla sessualità e all’affettività degli adolescenti, da circa dieci anni il Centro d’Ateneo Studi e Ricerche  sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano organizza dei corsi di formazione per educatori, professionisti del settore e per genitori. Il logo del programma è una stella a cinque punte: esse indicano le sfere – fisico, emozionale, intellettuale, sociale e spirituale – che sono coinvolte nella sessualità di ogni essere umano. Incontriamo Raffaella Iafrate, pro-rettore della Cattolica, docente e direttrice del corso di alta formazione.

Professoressa Iafrate, quali sono gli obiettivi del programma “Teen Star”?
Negli anni ci siamo resi conto che, malgrado la molteplicità di corsi dedicati alla sessualità e all’affettività, ne mancasse uno davvero incentrato sull’essere umano nella sua completezza. Formare su questi temi non vuol dire occuparsi esclusivamente della prevenzione di gravidanze indesiderate o di malattie sessualmente trasmissibili, oppure offrire un approccio teorico e moralistico. A partire dalla conoscenza del proprio corpo, del suo valore, della sua bellezza e delle sue potenzialità, con “Teen Star” abbiamo voluto ispirare una vera e propria “rivoluzione” umana orientata alla comunicazione e alla relazione. Conoscere e approfondire la dimensione biologica e antropologica della sessualità permette di scoprire che essa tende alla realizzazione del profondo desiderio di “amare ed essere amati”.

Quindi, si tratta di un percorso formativo che ha come fine ultimo l’essere umano…
Nutriamo una profonda fiducia nell’essere umano. Per questo motivo abbiamo scelto un metodo di formazione fondato sull’esperienza e la riflessione. Ogni anno la professoressa Pilar Vigil, ginecologa, biologa e docente della Pontificia Università Cattolica del Cile, nonché relatrice del corso, sollecita i gruppi a confrontarsi sui temi sociali e culturali più attuali, recentemente abbiamo affrontato il transgenderismo e la fluidità di genere.

Soltanto una buona consapevolezza di sé rende l’individuo in grado di fare delle scelte realmente libere in campo affettivo e sessuale.

Quali sono le urgenze educative oggi nell’ambito dell’affettività?
Nella società attuale ci troviamo davanti a una cultura dominata da uno sbilanciamento a favore degli aspetti emozionali a discapito di quelli valoriali, con un’affettività sradicata dall’ethos, da una prospettiva di senso, percepita come pura saturazione di un bisogno, senza direzione e scopo, ridotta a puro sentimentalismo, a “ciò che si sente”, si prova.  Anche a livello educativo si osserva tale sbilanciamento.  Bambini e adolescenti vengono educati sul piano cognitivo e – al limite – comportamentale, ma si ritiene l’affettività come “non educabile”, a favore di uno spontaneismo che si risolve in un puro soddisfacimento dei bisogni immediati.

Qual è l’origine delle lacune che oggi presentano gli adolescenti e i giovani adulti in campo affettivo?
Negli anni si è andata consolidando sempre più una prospettiva individualistico-narcisistica abbinata a un incoraggiamento costante a vivere “qui ed ora” le proprie emozioni. Il risultato è la negazione, o quantomeno il disconoscimento dei bisogni dell’altro da sé.

L’essere umano realizza la propria identità nella progettualità, non nel godimento dell’effimero.

Anche il corpo, che paradossalmente sembra al centro del nostro accudimento, si è trasformato in un oggetto narcisistico di cui godere. Parlare di corpo “in relazione” significa invece introdurre l’idea di corpo inteso  come “limite”, “confine”. È proprio su questo limite intrinsecamente umano che è possibile interpretare il corpo come mediatore tra il sé e l’altro, come potente strumento di comunicazione.

Esiste un aspetto in cui le attuali generazioni sembrano superare le precedenti?
I giovani di oggi avvertono più delle generazioni passate il bisogno e il desiderio della verità. Lo stereotipo dell’autorità con loro non funziona e sono maggiormente inclini a “smascherare” ciò che non è autentico. Occorre essere credibili, coerenti e autorevoli con loro, soprattutto quando si trattano temi tanto delicati, nei confronti dei quali – tra l’altro – i ragazzi sembrano essere disposti a un approccio sereno e privo di pregiudizi. Non possiamo più permetterci di veicolare essenzialmente concetti e contenuti… Per dirla con le parole di Giorgio Gaber: “Non insegnate ai bambini. Ma coltivate voi stessi il cuore e la mente”.

Giulia Cecchettin. Cantelmi: “Fragilità maschile che cortocircuita nell’aggressività e nella violenza”

Mer, 29/11/2023 - 09:55

Non un unico fattore scatenante, ma un mix esplosivo che porta ad un vero e proprio cortocircuito. C’è questo, per lo psichiatra Tonino Cantelmi, direttore sanitario dell’Istituto don Guanella di Roma e presidente dell’Itci (Istituto di terapia cognitivo interpersonale), alla base dell’orribile uccisione di Giulia Cecchettin, dopo la quale il tema della violenza maschile sulle donne sembra essere davvero entrato nel dibattito pubblico. C’è chi parla di cultura patriarcale, di un raptus di follia, di un mostro mimetizzato all’interno di un’apparente normalità. Per Cantelmi il vero problema è la fragilità della figura maschile.

Tonino Cantelmi – foto SIR

Professore, si è parlato di cultura patriarcale, di follia, di immaturità relazionale. Secondo lei, che cosa c’è dietro questo ennesimo femminicidio che ha particolarmente colpito l’opinione pubblica?
Non credo si possa ridurre ad un fatto culturale; qui – come in molti casi analoghi – si è verificato un corto circuito.

Esiste una profonda fragilità maschile, che cortocircuita nell’aggressività e nella violenza come unico rimedio al senso di frustrazione e di impotenza.

Un processo complesso, legato soprattutto all’immaturità relazionale, ossia all’incapacità di relazioni autentiche, il vero tema centrale di questo inizio di terzo millennio. La clamorosa e drammatica fragilità del maschile, legata anche al crollo di modelli culturali rassicuranti, si fonde con la grande crisi della relazione interpersonale che oggi caratterizza ogni ambito del vivere. Ma c’è anche un altro aspetto.

Quale?
Il contesto generale della nostra società, imbarbarita e sempre più violenta – anche per la crescente diffusione dell’uso di cocaina e altre sostanze psicotrope – all’interno della quale l’aggressività personale viene sempre più agita come modalità di risoluzione dei conflitti.

Tornando alla fragilità maschile, da dove nasce?
In decenni di progressiva erosione, se non di eclissi, della figura paterna, è venuta meno la trasmissione dei modelli autenticamente maschili, indispensabile per la formazione di un’identità maschile equilibrata e compiuta. Il bambino, dopo i primi anni di vita, ha bisogno di “distaccarsi” gradualmente dalla figura materna per “avvicinarsi” alla figura del padre che dovrebbe essere in grado di accompagnarne e sostenerne il processo evolutivo. Negli ultimi decenni, purtroppo, questa dinamica di identificazione maschile si è indebolita, con la conseguenza di

giovani maschi, ma anche uomini cinquantenni, molto fragili perché privi di un’identità certa e compiuta.

Che ruolo gioca in tutto questo il grado di libertà, istruzione, emancipazione raggiunto dalla donna? Giulia è stata, non a caso, uccisa alla vigilia della laurea dall’ex fidanzato rimasto indietro negli studi.
Negli ultimi anni all’interno dell’universo femminile si è realizzata un’autentica “mutazione genetica” in termini di autonomia, assertività, successo professionale. Traguardi conseguiti in tempi brevi con cui molti uomini non hanno ancora imparato a fare i conti.

Per un maschio fragile, una donna risolta e assertiva può essere percepita come antagonista, “aggressiva” o addirittura “minacciosa”.

Un aspetto di competizione maschile che mi sembra evidente anche in questa vicenda: la frustrazione di fronte alla brillante carriera accademica di Giulia che fa sentire il suo ex inadeguato; da qui, oltre che per l’abbandono, la sua violenza distruttiva.

Lei ha sottolineato anche l’incapacità odierna di relazioni autentiche. Che cosa intende dire?
La maggior parte delle relazioni uomo-donna è oggi caratterizzata da narcisismo, mancanza di vera empatia, appiattimento sul presente. Più che sulla profondità del sentimento e sulla condivisione di una visione e di un progetto di vita, si gioca sulla ricerca nell’immediato di emozioni forti, concentrandosi solo sul presente, finché dura. In questo modo però la coppia è incapace di elaborare e gestire i conflitti che finiscono inevitabilmente per risolversi con la rottura, talvolta anche violenta, della relazione.

È stato annunciato un progetto di educazione affettiva nelle scuole. Al di là di questo, di cui non si conoscono ancora i contenuti, chi dovrebbe “insegnare” ai giovani l’importanza e il modo per costruire relazioni affettive sane? I genitori?
Magari! Dovremmo essere noi a parlare con i nostri figli di educazione affettiva e di sessualità. Ma prima di parlare di sesso – che oggi i nostri figli “imparano” su Pornhub e Youporn, per citare solo due tra le piattaforme più invasive del web –

occorrerebbe far capire loro il valore dell’intimità, della condivisione, del rispetto, della reciprocità.

Le emozioni, anche quelle forti, sono il passo successivo. I nostri figli, però, hanno spesso a che fare non con genitori autorevoli adulti di riferimento, bensì con adultescenti ancora invischiati nei loro aspetti adolescenziali e incoerenti con il loro ruolo genitoriale. E poi, più che le parole, conta la testimonianza di una relazione felice tra mamma e papà; relazione che invece oggi è spesso estremamente scadente.

#GivingTuesday. Cecchini (Fond. Aifr): “Cultura del dono per una società più umana, solidale e sostenibile”

Mar, 28/11/2023 - 18:15

Black Friday, Cyber Monday e… #GivingTuesday. Il 28 novembre l’Italia – e non solo – si illumina di rosso per celebrare la generosità: tra la “indigestione” di consumismo di fine novembre e l’avvio della corsa sfrenata allo shopping natalizio, una pausa che è un invito a donare per

sensibilizzare sull’importanza di un gesto di generosità e promuovere la cultura della solidarietà.

Iniziativa nata nel 2012 a New York dall’intuizione del Centro culturale 92nd Street Y e dell’Onu, quest’anno il #GivingTuesday – Giornata mondiale del dono – si celebra in tutto il mondo il 28 novembre; dopo oltre 10 anni quell’invito a donare e ad attivarsi per la cura del prossimo e dell’ambiente è diventato oggi un movimento globale di solidarietà che incoraggia la cooperazione tra persone e la pratica del dono, coinvolgendo milioni di cittadini di oltre 90 Paesi nel mondo.

Monumenti in rosso. Per l’occasione il 28 novembre verranno illuminati di rosso i monumenti più simbolici del pianeta: tra questi il Cristo Redentore a Rio de Janeiro e le cascate del Niagara in Canada. In Italia, grazie alla collaborazione dell’Anci, si illumineranno di rosso il David di Michelangelo a Firenze, la Fortezza Malatestiana di Rimini, il Palazzo delle Logge a Pisa, Piazza del Campo a Siena, la Mole Antonelliana a Torino, Ca’ Farsetti a Venezia, solo per citarne alcuni.

foto Gli angeli di Pollicino Aps

Responsabilità e trasparenza. Nel nostro Paese, a promuovere e coordinare dal 2017 l’appuntamento è la Fondazione Aifr, che fin dall’inizio ha voluto mettere in luce l’impegno del Terzo Settore, sottolineando l’impatto che ogni singola azione può generare sulla comunità, nonché l’importanza della trasparenza. Intanto, dall’indagine Italiani solidali, realizzata da Bva Doxa e diffusa dalla Fondazione Aifr in occasione del #GivingTuesday, nel 2022 gli italiani che hanno fatto almeno una donazione ad un’associazione sono saliti al 55%, rispetto al 35% del 2021 e al 21% del 2020. “Il mondo della solidarietà sta cambiando: c’è una presa di coscienza del donatore che vuole essere promotore di cambiamento e di sviluppo”, spiega al Sir Marco Cecchini, presidente della Fondazione Aifr, secondo il quale “il donatore è sempre più consapevole e vuole partecipare, vuole sapere a chi vengono destinati i fondi e come vengano effettivamente impiegati.

Accountability e trasparenza sono le parole chiave della donazione”.

Non solo fondi. “Vogliamo creare una ‘cultura del dare agli altri’ – prosegue il presidente della Fondazione –. Si possono donare fondi, ma anche tempo o competenze a chi ne ha bisogno”. Importante, sottolinea, che le persone “imparino a donare con continuità, non un solo giorno l’anno o sotto l’onda emotiva di una catastrofe naturale o di un’emergenza umanitaria. Vorremmo che la logica divenisse quella dei piccoli gesti quotidiani che però fanno cultura:

io dono perché la mia coscienza mi spinge ad essere generoso verso il mondo che mi circonda e verso chi è nel bisogno”.

Quanto è importante educare i ragazzi fin da piccoli alla cultura del dono della solidarietà civile? “È fondamentale – risponde Cecchini –, e i tragici eventi di cronaca di questi giorni ce lo dimostrino. In generale,

educare al dono, che è l’antidoto al possesso, può aiutare anche a prevenire la violenza sulle donne.

Nel nostro specifico, stiamo lavorando sulla generazione Z promuovendo campagne nelle scuole attraverso il progetto A scuola di generosità: percorsi tematici sull’educazione a solidarietà, diritti umani, sostenibilità ambientale, cittadinanza attiva, volontariato, accoglienza, contrasto dell’odio in rete. Credo che un’educazione a questi valori aiuterebbe a costruire una società meno violenta, più umana, rispettosa e sostenibile”.

StreamingTuesday. Quest’anno, sempre in tema di giovani, la Fondazione Aifr lancia la nuova iniziativa StreamingTuesday: il 28 novembre oltre 20 gamer e content creator si alterneranno sulla piattaforma twitch.tv in una maratona streaming di 24 ore per sensibilizzare al dono gli spettatori. Sessioni di videogame e giochi di ruolo per sostenere una raccolta fondi a favore di Save the Children, Aism (Associazione italiana sclerosi multipla) e altre organizzazioni non profit. Obiettivo, spiega il presidente della Fondazione, “promuovere l’importanza di un gesto di generosità attraverso il gioco, una sorta di ‘gaming for good’ anche fra le giovani generazioni”.

Scatta la generosità è invece il contest fotografico dedicato a scuole e organizzazioni non profit per raccontare il dono attraverso le immagini. Fino al 30 novembre è possibile inviare una propria foto su questo form: entro il 15 dicembre gli utenti possono votare l’immagine preferita condividendola sui propri canali Facebook e X (Twitter). La foto più condivisa si aggiudicherà una donazione di 3mila euro.

My giving story è infine la rubrica per dare voce alla solidarietà, raccontare e condividere sui canali social della Fondazione Aifr piccoli gesti quotidiani: storie di generosità, umanità e attivismo che possono fare la differenza. Sui social, ciascuno può contribuire a “rendere virale la generosità” condividendo la propria iniziativa e partecipazione alla Giornata con l’hashtag #GivingTuesday.

Fine mercato tutelato. Come orientarsi? Le linee guida della Caritas

Mar, 28/11/2023 - 12:16

Il 10 gennaio 2024 è la data prevista per la fine del cosiddetto “mercato tutelato” per le forniture domestiche di gas naturale e di energia elettrica. Il mercato tutelato è quello nel quale i prezzi delle forniture energetiche e i contratti vengono stabiliti dall’autorità competente, ovvero l’Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente). Al posto del mercato tutelato, anche per le utenze domestiche – per le aziende, infatti, il passaggio alle nuove condizioni c’è già stato lo scorso aprile – ci sarà il mercato libero. In questo caso, i prezzi e le condizioni delle forniture di gas e luce verranno decisi in autonomia dalle società energetiche, ma l’Arera manterrà il suo ruolo di indicatore delle tendenze di mercato (i prezzi dell’energia, come di pressoché ogni bene e servizio, sono influenzati dalle dinamiche di domanda e offerta).

La Caritas di Roma per aiutare le famiglie dopo la fine del “mercato tutelato” ha redatto delle linee guida con tutte le informazioni per orientarsi tra le diverse offerte:

Che cos’è il mercato tutelato gas e luce?

I servizi di tutela sono i servizi di fornitura di energia elettrica e gas naturale con condizioni economiche (prezzo) e contrattuali definite dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) destinati ai clienti domestici che non hanno ancora scelto un venditore nel mercato libero.

Che cos’è il mercato libero dell’energia e del gas?

Lo sviluppo della normativa comunitaria in tema di energia ha portato progressivamente e gradualmente alla fine del mercato tutelato e alla necessità di una piena liberalizzazione del mercato dell’energia e del gas pur salvaguardando le tutele di prezzo per le categorie di soggetti definiti vulnerabili.

Nel mercato libero il costo dell’energia (costo materia energia) è stabilito dal venditore che può avere quindi diverse offerte da proporre e con diversa durata (es 12 mesi, 24 mesi).

Il mercato libero dell’energia è conveniente?

Ci possono essere offerte convenienti ma bisogna essere in grado di scegliere quella adatta alle proprie abitudini di consumo, inoltre bisogna verificare la durata dell’offerta ed eventuali modifiche a scadenza offerta.

Ricordiamo che il costo finale della bolletta non dipende solo dal costo della materia energia ma anche da una serie di oneri indispensabili per garantire il servizio quali: trasporto, gestione del contatore, oltra a IVA e imposte e canone Rai per quanto riguarda la fornitura di energia elettrica se domestico residente.

Nel libero mercato, pertanto, la leva economica concorrenziale è “solo” la voce riferita al costo di commercializzazione e i costi relativi all’acquisto dell’energia e del gas, non potendo i venditori intervenire su altri costi di sistema né su imposte e IVA. Sono inoltre definite tra le parti anche gli altri aspetti contrattuali e vengono pertanto sottoscritte dal cliente le Condizioni Generali di Contratto e le Condizioni Tecnico Economiche.

Quali sono le tappe imminenti, quando sarò obbligato a scegliere un contratto sul libero mercato?

Per i clienti domestici di gas naturale (famiglie e condomini) il superamento della tutela di prezzo è previsto a gennaio 2024.

Per i clienti domestici non vulnerabili di energia elettrica invece il superamento della tutela di prezzo è previsto a partire da aprile 2024.

Per le microimprese di energia elettrica il servizio di maggior tutela si è concluso ad aprile 2023 (per le piccole imprese era già terminato nel 2021).

ATTENZIONE!

E’ fondamentale quindi distinguere il cliente vulnerabile dal cliente non vulnerabile in quanto i clienti vulnerabili potranno continuare ad essere serviti a condizioni contrattuali ed economiche definite e aggiornate dall’Autorità anche dopo le scadenze sovra indicate.

Chi sono i clienti vulnerabili?

Sono considerati clienti vulnerabili i clienti domestici che, alternativamente:

  • si trovano in condizioni economicamente svantaggiate in quanto percettori di bonus sociali
  • sono soggetti (intestatari di fornitura) con disabilità ai sensi dell’articolo 3 legge 104/92
  • hanno un’utenza in una struttura abitativa di emergenza a seguito di eventi calamitosi
  • hanno un’età superiore ai 75 anni (vulnerabilità si applica al compimento del 76esimo anno di età)

Chi ha più di 75 anni e un reddito elevato può rientrare nella categoria di vulnerabilità e continuare ad essere servito a condizioni economiche definite da ARERA?

Si il requisito anagrafico soddisfa la condizione di vulnerabilità.

La condizione di vulnerabilità permette al cliente finale di accedere al servizio di tutela della vulnerabilità per tutte o solo alcune delle utenze intestate?

Il cliente identificato come vulnerabile può richiedere di essere fornito nel servizio di tutela della vulnerabilità (condizioni di prezzo stabilite da ARERA) con riferimento a tutte le utenze di gas naturale a lui intestate.

Sono un cliente vulnerabile posso comunque scegliere un contatto sul libero mercato se trovo un’offerta conveniente?

Si, il cliente vulnerabile può in qualsiasi momento decidere di passare al mercato libero, allo stesso modo, un cliente vulnerabile che si trova già nel mercato libero può richiedere di essere fornito alle condizioni definite dall’Autorità (servizio di tutela della vulnerabilità).

Cosa succede se non individuo a gennaio alcuna offerta gas sul libero mercato? Mi staccano la fornitura?

Se il cliente finale non sottoscrive le nuove condizioni di fornitura proposte dal venditore, né un diverso contratto di mercato libero con lo stesso o con altro venditore, a partire da gennaio 2024 il medesimo venditore continuerà a erogare il gas distinguendo le condizioni economiche da applicare in caso si cliente vulnerabile o non vulnerabile:

  • se sei un cliente vulnerabile, il tuo fornitore attuale continuerà da gennaio 2024 ad erogare la fornitura con il servizio di tutela della vulnerabilità, alle condizioni economiche previste per il servizio di tutela gas definite dall’Autorità;
  • se sei un cliente non vulnerabile, il tuo attuale fornitore continuerà da gennaio 2024 ad erogare la fornitura con condizioni contrattuali stabilite da Arera ma a condizioni economiche stabilite dall’operatore e comunque comunicate per tempo (fattura di settembre/ottobre 2023) al cliente.

Posso autocertificare la mia condizione di vulnerabilità? (es ho più di 75 anni)

Si, il cliente servito in tutela gas che non è stato identificato come vulnerabile può richiedere al proprio o altro venditore di essere servito nel servizio di tutela della vulnerabilità compilando il modulo che ha ricevuto nella bolletta (a partire da quella si settembre 2023). Il modulo per autocertificare la condizione di vulnerabilità è disponibile anche sul sito Arera e riproposto in allegato. (All 1)

Consigli di autotutela

Il mercato libero può offrire vantaggi ma anche brutte sorprese se non si effettua una scelta libera e consapevole. Spesso sono proprio le persone più fragii ad essere vittime di pratiche commerciali scorrette (insistenti promozioni porta a porta o telefoniche con minaccia di sospensione della fornitura).

Come posso individuare un’offerta conveniente?

L’ARERA ha messo a disposizione un motore di ricerca on line che consente di comparare le diverse offerte presenti sul mercato in base alle caratteristiche della propria fornitura ed al consumo annuo. Si può consultare il Portale Offerte https://www.ilportaleofferte.it/portaleOfferte/ anche facendosi aiutare da un familiare o persona di fiducia.

Il “Portale Offerte” di ARERA raccoglie tutte le offerte presenti sul mercato di vendita al dettaglio di energia elettrica e gas naturale: grazie a questo strumento è possibile confrontare in maniera semplice e gratuito le varie offerte senza il timore di vedersi applicata un’offerta non richiesta, si tratta infatti del motore di ricerca di comparazione ufficiale. Evita la comparazione con altri motori di ricerca non ufficiali che nascondo a volte meccanismi di automatiche adesioni contrattuali.

Cosa devo fare quando si presentano a casa operatori commerciali per propormi di cambiare contratto?

Chiedi sempre l’esibizione del cartellino di identificazione dell’operatore commerciale che si presenta alla porta. Se sei un cliente vulnerabile, servito oggi in regime di mercato tutelato e non hai interesse a cambiare non è necessario sottoscrivere alcun contratto sul libero mercato.

Se sei solo/a in casa e ti interessa comunque valutare la possibilità di cambiare operatore ma pensi di non essere in grado di comprendere pienamente l’offerta contrattuale proposta, chiedi di fissare un appuntamento quando ci sarà qualcuno ad affiancarti. Non avere fretta nessuno può interrompere la fornitura a meno che non sia tu a chiedere la chiusura del punto di fornitura. La fornitura di energia elettrica o gas può essere sospesa inoltre per morosità a seguito di formale messa in mora in ipotesi di fatture non pagate.

Mi suonano alla porta e mi propongono con insistenza di far vedere la bolletta per mettere in risalto i risparmi che otterrei con un nuovo contratto nel mercato libero. Cosa devo fare?

Considera che la bolletta contiene tanti dati preziosi : CF, stato dei pagamenti, POD o PDR identificativi della fornitura, contratto in essere, presenza di eventuali bonus sociali e altro. Questi dati possono essere facilmente carpiti da operatori commerciali non corretti pertanto evita di mostrare la tua bolletta. Mostra la tua bolletta solo se decidi di sottoscrivere un diverso contratto e dopo aver ben compreso l’offerta proposta.

Ricorda inoltre che alcune voci non possono essere azzerate da nessun venditore (es spese di trasporto, Iva ecc…) pertanto diffida da coloro che propongono offerte strabilianti, il confronto va fatto sempre considerando la voce della materia energia.

Ha suonato alla porta una persona con un cartellino e diceva di dover sostituire il contatore e mi ha chiesto copia di una bolletta. E’ normale?

No. A sostituire il contatore può essere solo la società di distribuzione ( es Areti, Italgas, e-distribuzione) e non la società di vendita. Quando c’è necessita di leggere o sostituire il contatore la società di distribuzione lascia sempre un avviso nel condominio nei giorni precedenti. Verifica sempre cosa c’è scritto sul cartellino identificativo dell’operatore e verifica se è stato lasciato nei giorni precedenti un avviso per il cambio o lettura contatore.

Mi chiamano continuamente al telefono per propormi nuove offerte, è lecito?

A meno che l’utenza telefonica non sia inserita in apposito registro delle opposizioni (con divieto di utilizzo per promozioni commerciali) è possibile telefonare per promuovere offerte commerciali. Tuttavia ci sono delle regole da rispettare come ricorda la campagna di sensibilizzazione di ARERA e di AGCM (https://www.difenditicosi.it/come-difendersi/).

  • Ogni volta che ricevi una telefonata a scopo commerciale, chiedi che ti venga indicato chi sta chiamando e perché. L’operatore che ti ha contattato deve metterti a conoscenza del nome della società di vendita e dello scopo della chiamata.
  • Ricordati che nessuna Autorità, Agenzia o Ente pubblico chiama i clienti finali per attivare nuovi contratti. Non sei obbligato a concludere il contratto per telefono.
  • Ricorda che il prezzo comunicato al telefono o nelle pubblicità non è di norma il prezzo complessivo ma solo la parte su cui i venditori possono farsi concorrenza, che comprende i costi di commercializzazione e i costi relativi all’acquisto dell’energia e del gas

Di chi posso fidarmi per avere informazioni certe per orientarmi nel mercato energetico?

L’Arera, autorità di regolazione del settore energetico, ha messo a disposizione un numero verde gratuito che risponde a quesiti telefonici e scritti sul funzionamento del mercato, sui diritti dei consumatori e utenti nei settori di competenza e sulle modalità di erogazione dei servizi; inoltre fornisce indicazioni utili per la gestione di eventuali controversie con il proprio fornitore o per il cambio fornitore.

Il numero verde è  800166654

attivo dalle 8.00 alle 18.00, dal lunedì al venerdì, esclusi i festivi

 

Antisemitismo. Fiasco: “Una malattia mai debellata. Il conflitto può trasformarla in epidemia, bisogna evitare che diventi pandemia”

Mar, 28/11/2023 - 09:26

“Il brutale attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre scorso ha dolorosamente e vilmente colpito Israele con tanti morti innocenti e il seguito dei rapiti nelle mani dei terroristi, sulla cui sorte trepidiamo e chiediamo siano restituiti alle loro famiglie. … L’attacco ha sconvolto il popolo israeliano e suscitato la reazione militare d’Israele contro Hamas sulla striscia di Gaza. Questa a sua volta ha causato al popolo palestinese, in gran parte profughi, migliaia di vittime innocenti, molti dei quali bambini. Le lacrime sono tutte uguali. Ogni uomo ucciso significa perdere il mondo intero”. Sono parole del card. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, nell’introduzione dell’Assemblea straordinaria generale, ad Assisi, mettendo al tempo stesso in guardia dal preoccupante risorgere dell’antisemitismo. Su questo pericoloso intreccio, escalation del conflitto israelo-palestinese e rigurgiti di antisemitismo, abbiamo sentito il sociologo Maurizio Fiasco.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Professore, lo scenario è fosco…

Una premessa, necessaria, ma che sembra sfuggire ai più. Il conflitto israelo-palestinese, in corso da oltre 70 anni, è quello che si prolunga di più nel pianeta terra. La comunità internazionale non è infatti mai riuscita a comporlo, nonostante i mutamenti epocali in così tanti decenni. Si sono trasformate radicalmente le relazioni internazionali, nel collasso di regimi che sembravano inattaccabili. E ciò ha sovvertito valori e prospetti psicologici, nella scomparsa di modelli produttivi e industriali. Eppure, bisogna tornare alla guerra delle Fiandre nel XVI secolo – svoltasi per 80 anni – per ricordare una tragedia di ampiezza paragonabile a quella in Medio Oriente: ancora senza che si profili una via di uscita, mentre intere generazioni sono nate e stanno completando il ciclo naturale della vita senza aver conosciuto una patria e la pace.

Non solo il conflitto, ma c’è anche un ritorno dell’antisemitismo.

L’antisemitismo non è un fenomeno spontaneo, ma il sintomo di una malattia che segna varie epoche attraversate dall’umanità. Esplode e si diffonde dopo la cacciata degli ebrei dal regno di Spagna, nel 1492, e diventerà un lievito dell’autoritarismo e dell’assolutismo, dei regimi terribili verso la fine dell’Ottocento e soprattutto dopo la fine della Prima Guerra mondiale. Con il crollo economico della Germania, per la ricaduta della grande crisi finanziaria del 1929, il totalitarismo intossicherà le masse proprio dove era insediata la più numerosa, colta e innovativa comunità ebraica del Vecchio Continente. Per poi giungere allo sterminio industrializzato nei lager. Disegno del potere e congiuntura delle relazioni internazionali possono riuscire dunque a far risorgere le condizioni per l’antisemitismo: che da atteggiamento di minoranza conquista gli umori di parte della popolazione, divenendo un comportamento cui anche la politica imprime l’accelerazione.

La situazione attuale deve preoccupare?

C’è ragione di allarmarsi, perché sta uscendo dai territori (morali, psicologici, culturali, dunque non solo fisici) che erano ben noti, seppur minoritari. E, con la rozzezza dei richiami ai pregiudizi razziali, va proponendo a parti delle popolazioni una chiave esplicativa del loro rischiare, o già vivere, l’esclusione sociale per povertà assoluta. Insomma, l’inganno e l’impostura si fanno strada in presenza di un disagio di massa, come accade tanto nelle crisi post-belliche, quanto nelle ristrutturazioni e nelle crisi delle economie nazionali.

L’antisemitismo, possiamo affermare per analogia, è una malattia endemica che riemerge nel precipitare delle difese immunitarie nei popoli.

(Foto: ANSA/SIR)

E poi c’è il terrorismo…

In tale quadro si presenta la reviviscenza del terrorismo. E dell’insistenza a perseguire l’illusione di una sua sconfitta per via “tecnica”, cioè militare. Eppure, l’esperienza (da ultimo negli anni Settanta) ha insegnato come il terrorismo, per essere sconfitto, non si estingua per mero contrasto “operativo” e a mano armata. Il terrorismo prospera quando cattura un’ampia legittimazione per via di consenso. È così oltrepassa il dolore e i lutti che causa con le sue azioni scellerate, quando si verifica almeno una di queste tre condizioni fondamentali: l’ancoraggio a una questione di nazionalità che non riesce a diventare un’entità statuale; il radicamento in una questione etnica, cioè quando una maggioranza o una minoranza opprima l’altra parte negandole opportunità fondamentali; se un regime autocratico reprime con il sangue e la tortura le libertà politiche, civili, di pensiero, di organizzazione pacifica, di espressione religiosa. Questi tre fattori consegnano all’azione scellerata e criminale di minoranze – i terroristi – l’investitura, il mandato sociale, etnico o di rivendicazione di un bisogno naturale insoddisfatto alla vita. Si comprende che nel contrastare il terrorismo la scelta dell’opzione esclusivamente militare provoca grandi sofferenze, mentre il problema non si risolve. Si riprodurrà comunque una consegna del testimone, nel propagarsi del mito dei terroristi, che pur sconfitti hanno interpretato l’anelito alla liberazione nazionale, alla integrità etnica o alle libertà fondamentali. Certo, è la versione manipolatoria dei terroristi, ma fa presa, purtroppo. E poi c’è la guerra, che, come ha ammonito anche il grande psicoanalista James Hilmann, “non ha altra causa che la sua struttura”. E infatti, nell’interminabile conflitto israelo-palestinese, assistiamo ancora alla spinta autopoietica del conflitto: si autoalimenta, come un gioco nel quale si è entrati senza aver fissato le regole per uscire dal gioco. Non è stato così per la Prima e per la Seconda Guerra mondiale? Che sono cessate solo quando il prezzo delle distruzioni è divenuto insopportabile per qualsiasi sistema: 50 milioni di morti nella Prima Guerra mondiale, 70 nella Seconda.

(Foto AFP/SIR)

Il conflitto in corso accresce l’antisemitismo?

L’antisemitismo è una malattia mai debellata. Il conflitto può trasformarla in epidemia, bisogna evitare che diventi una pandemia.

Il circolo vizioso del conflitto si può interrompere grazie a quella variabile che si chiama “perdono”, che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni da parte della vittima. Ma è la scelta della vittima che si fa protagonista ed esercita un grande potere: il potere della riconciliazione.

È un discorso difficile però da far accettare a chi subisce violenza o attacchi terroristici senza aver fatto nulla…

Un aspetto terribile della violenza è l’essere una malattia, che spinge il male a contagiare anche la vittima. Quando il Papa dice che la guerra è una sconfitta per tutti, questa sua frase, a mio avviso, significa che nella guerra tutti pagano, non solo con il dolore e con la sofferenza atroci, ma anche che tutti sono vittime del meccanismo autopoietico che contrassegna la guerra. È la guerra a dominare i comportamenti, a guidare i pensieri, stravolgendo le facoltà cognitive razionali dei sistemi e delle persone singole. Finché non ci si emancipa da questo cerchio infernale, si resta vittime e, nello stesso tempo, si corre il pericolo di volgersi in carnefici. Il male subìto dalla vittima si compone di ferite inflitte ai corpi e alle anime, di lutti vissuti. Ma anche di condizionamenti perversi alla vittima stessa quanto alla sua struttura emotiva, al formarsi ossessivi di pensieri di male, di smarrimento del senso comune di umanità. Vi si presta poca attenzione, di solito, ma è una grande devastazione che compie la violenza: cambia la persona che la subisce e la costringe a diventare simmetrica al carnefice.

Dicevamo però che l’antisemitismo ha una lunga storia…

Sì, perché nasce come strumento del potere, poi viene inoculato nella popolazione; quindi, entra nel senso comune e nella cultura di una parte della popolazione. E non se ne allontana automaticamente. Serve una grande, assidua, incessante azione di contrasto. Va spento ai primi segni del suo riemergere. Il problema è che l’antisemitismo è anche strumento di potere nelle situazioni disperate. Oggi, nel conflitto israelo-palestinese, dove è stato utilizzato dalle formazioni oltranziste e dal terrorismo, che hanno scalzato via l’Autorità nazionale palestinese. Ripeto, l’antisemitismo può combinarsi con un sentimento di massa e allora il potere non ha più remore e può arrivare anche alle atrocità estreme, come è stata la pianificazione dell’olocausto. Come oggi l’antisemitismo è utilizzato da Hamas per dare legittimazione popolare al suo agire. Una constatazione ovvia, ma sconcerta che non si avanzi – dalla comunità internazionale – un vero e giusto disegno per uscire dalla nuova esplosione della crisi dopo le atrocità di Hamas. Ma senza di questo disegno – di pace nella giustizia – è totalmente impossibile frenare il ritorno dell’antisemitismo.

Cosa fare allora?

Abbandonare la strada della vendetta e definire un disegno per la pace, accettando anche condizioni che possono non piacere nell’immediato tanto all’una quanto all’altra delle parti in conflitto. Eppure, se il disegno è giusto e razionale, occorre reperire le condizioni per farlo avanzare nel sistema delle relazioni internazionali. All’interno di questo disegno deve trovarsi un patto che associ entrambe le parti al rigetto dell’antisemitismo, smascherandone la struttura, denunciando le complicità che raccoglie. Vanno denunciate le responsabilità di opinion leader, di importanti intellettuali, di quanti rivestono responsabilità politiche quando strumentalizzano, per obiettivi prosaici o di visibilità, tanto l’antisemitismo quanto l’islamofobia: due fattori che si rafforzano reciprocamente. È una situazione, quella attuale, dove tutta la discussione politica, sociale, culturale sta mostrando una spaventosa regressione. Colpire gli ospedali facendo strage di bambini non sarebbe tanto facile, come pure entrare nei kibbutz e far strage come il 7 ottobre. Viene meno la censura corale della comunità internazionale e si violano persino i protocolli dell’uso della violenza in guerra. Abrogata nei fatti la Convenzione di Ginevra, non si fermano le repliche delle atrocità. L’unica voce autorevole che si è alzata per fermare la guerra viene dal Papa e dalla Chiesa, perché il cristianesimo è anche libertà dall’ottusità nei conflitti e porta in risalto l’essenziale dell’umanità.

(Foto Vatican Media/SIR)

Lei prima parlava di perdono: ma è possibile anche in situazioni drammatiche come questa?

Sì,

per interrompere il circolo vizioso della guerra bisogna introdurre dall’esterno una variabile, che è costituita dal dialogo, dalla riconciliazione e dal perdono.

È quello che è avvenuto in Sudafrica, dove il terrorismo c’è stato fino alla fine dell’apartheid: l’African National Congress praticava la lotta armata o il terrorismo, ricevendo l’investitura della maggioranza nera che era massacrata dalla minoranza bianca razzista, colonialista. Quando il contesto è cambiato, grazie alla genialità di Desmond Tutu, Nelson Mandela e Frederick De Klerk, c’è stata la lungimiranza di non regolare i conti con le vendette. Ed è stato tradotto in politica – non sembri irriguardoso dire questo – un principio cristiano: il perdono e la riconciliazione. La giustizia non è stata concepita come “retributiva”, che doveva risarcire in proporzioni simmetriche le vittime. Ma come riparativa, riconciliativa. Questo caso di successo, forse, nei terribili giorni attuali, andrebbe ricordato e messo in risalto. Ovviamente, la contropartita della riconciliazione e del perdono è la verità.

Terra Santa. Card. Pizzaballa al Ccee: “Dite ai vostri governi di trovare vie di uscite alla guerra”

Mar, 28/11/2023 - 09:21

(da Malta) “È scoppiata questa guerra ma non si vede come possa concludersi. Non c’è una exit strategy. Finiti i bombardamenti, finita l’operazione militare, cosa accadrà? Non è chiaro, né si conosce il progetto politico sul dopo la guerra”. È questa la preoccupazione forse più grande che il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, in collegamento video, ha espresso, lunedì 27 novembre, ai presidenti delle Conferenze episcopali europee riuniti a La Valletta per la loro Assemblea plenaria. Da qui una preghiera e una richiesta: “Fatevi partecipi verso i vostri governi affinché tengano presente la situazione e aiutino queste due popolazioni a trovare vie di uscita possibili perché da soli dubito che riusciranno”. “È importante anche come Chiese – ha aggiunto il patriarca – cercare di utilizzare un linguaggio che non sia esclusivo”, che non si schieri cioè tra i pro e i contro, che eviti di cadere nella logica dello “stare con l’uno significa essere contro l’altro”. “Soprattutto come cristiani non dobbiamo cadere nella trappola delle narrative opposte, ma cercare di dire le cose con verità, condannare quanto è successo il 7 ottobre, ma anche farsi portavoce del dolore delle troppe vittime palestinesi e trovare un linguaggio inclusivo. Non è semplice in questo momento” ma occorre “cercare di tenere per quanto possibile la verità, ma anche l’amicizia”.

La Valletta, Assemblea plenaria del Ccee (Foto Sir)

Il card. Pizzaballa ha aggiornato i vescovi europei sulla situazione della popolazione cristiana. A Gaza – ha detto – ci sono circa un migliaio di cristiani riuniti in due complessi. Circa 700 sono rifugiati  nel complesso della chiesa cattolica latina e circa 200 nella vicina chiesa ortodossa. Si trovano nella parte nord della Striscia di Gaza che secondo le indicazioni dei militari dovrebbe essere evacuata ma “i nostri cristiani non vogliono lasciare, semplicemente perché non sanno dove andare. La metà degli edifici sono distrutti, tutte le infrastrutture sono distrutte. Non c’è acqua, né nessuna forma di approvvigionamento”. Il cardinale racconta che il Patriarcato è riuscito attraverso le agenzie umanitarie – il Catholic Relief Service e altre organizzazioni – a far arrivare loro il minimo necessario: viveri e naturalmente acqua che è il problema principale, perché le strade sono distrutte e il suo trasporto richiede un coordinamento con le forze militari. “In questo momento come sapete – ha proseguito il cardinale – c’è un cessate il fuoco che noi speriamo possa essere prolungato”. In tutta questa situazione, dice Pizzaballa, nonostante le difficoltà e i giorni che passano rinchiusi dentro un complesso che non era costruito per essere un rifugio, nonostante le tensioni e gli ostacoli di ogni tipo, “la comunità cristiana si sta comportando bene”. Qualche giorno fa, prima ancora del cessate il fuoco, dopo l’ennesimo invito ad evacuare la zona, i cristiani di Gaza hanno detto di nuovo no: “Noi non vogliamo partire. In questo diluvio di bombe, vogliamo essere come l’arca di Noè”.

Le previsioni sul futuro di Gaza, dopo questa guerra, sono molto preoccupanti. “Dopo questa guerra non sappiamo cosa resterà. Quasi tutte le case delle nostre famiglie cristiane sono state distrutte”. Ma la situazione è difficile anche nei territori della Cisgiordania. I permessi di lavoro dei palestinesi in Israele sono stati cancellati, tranne per i lavori nella sanità, negli ospedali e nelle scuole. Sono quindi scomparse le due risorse principali: il lavoro in Israele e i pellegrinaggi. “È pertanto una situazione sociale molto difficile, una povertà preoccupante”. Ma a preoccupare è anche “l’impatto emotivo che questa guerra ha avuto sulle popolazioni israeliana e palestinese”. “È enorme”, dice il cardinale. “C’è un odio profondo e un forte risentimento tra le due parti”. Negli ospedali dove ci sono ebrei e arabi, gli ebrei non vogliono più essere curati da medici e infermieri arabi e viceversa. Quelle forme di coesistenza che prima esistevano sono in questo momento scomparse e i media non fanno che martellare su questi sentimenti mettendo l’uno contro l’altro”. Bisognerà lavorare quindi su questo e il cammino si prevede lunghissimo. La guerra scoppia in un attimo. Ora – ed è l’appello del cardinale di Gerusalemme – bisogna lavorare per una strategia politica e sociale di uscita e farlo il prima possibile.

La Valletta, messa nella Co Cattedrale di San Giovanni (Foto Sir)

I vescovi hanno accolto le parole del patriarca di Gerusalemme dei Latini e le prime parole pronunciate nella sua prolusione da mons. Gintaras Grušas, arcivescovo di Vilnius e presidente del Ccee, sono dedicate alla pace. “Oggi più che mai, il mondo ha bisogno di pace”, ha detto. “Con Papa Francesco, diciamo con forza il nostro no alla guerra, essa è una sconfitta per l’umanità. Ribadiamo la nostra vicinanza a quanti soffrono a causa di tanti conflitti, in modo particolare l’Ucraina, il popolo armeno e gli abitanti della Terra Santa. Continuiamo a pregare per le vittime e per i loro familiari. Continuiamo a pregare per il miracolo della pace”. “La violenza non può essere un modo per difendere una causa”, ha aggiunto mons. Grušas. “Rinnoviamo l’appello per un cessate il fuoco definitivo, perché si prosegua con la liberazione degli ostaggi e si tengano aperti i corridoi umanitari a Gaza”, ha concluso.

Israele e Hamas. P. Faltas (Custodia): “50 giorni di inferno sulla terra. La pace è il destino dei due popoli”

Mar, 28/11/2023 - 09:00

“In Terra Santa esiste un prima del 7 ottobre e un dopo il 7 ottobre, come l’11 settembre per gli Stati Uniti. La gente ha paura di uscire, non c’è nessuno per strada. Aree chiuse per motivi di sicurezza. Persone spaventate”. Padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, descrive così “il clima” in Israele, in Cisgiordania e a Gaza, dopo l’attacco terroristico di Hamas ad Israele. Parlando nei giorni scorsi ai partecipanti della XX Assemblea nazionale ordinaria elettiva della Fisc, a Roma, il frate riferisce anche di Betlemme, città che nelle prossime settimane sarà al centro delle celebrazioni del Natale: “È una città morta, chiusa, vuota, deserta. Entrare ed uscire è difficilissimo. Tantissime persone vogliono scappare. Le famiglie cristiane vogliono portare via i loro figli, perché dicono che lì non hanno futuro. La guerra non è solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. Dove vuole andare Hamas? Dove vuole andare Israele? Queste sono le domande che ci poniamo oggi”. A margine della assemblea Fisc, il Sir ha incontrato il vicario della Custodia di Terra Santa.

Padre Faltas con Abu Mazen (Foto I.F.)

Padre Faltas, domenica prossima, 3 dicembre, comincerà il Tempo di Avvento che porta al Natale. Ma che Natale sarà per Gaza e Betlemme?
“Sarà un Natale triste. Siamo circondati da morti, feriti, macerie e sofferenze. A Gaza è stato tutto distrutto. Nessuna delle famiglie cristiane ha più una casa dove stare, sono tutte sfollate all’interno della parrocchia latina, oltre 700 persone e in quella greco-ortodossa di san Porfirio. La stessa cosa in Cisgiordania e a Betlemme, dove si contano, arresti, morti e feriti. Nella città natale di Gesù, oggi chiusa e deserta, non ci saranno feste, in piazza della mangiatoia niente luci e niente albero di Natale. Il 2 dicembre, vigilia della prima Domenica di Avvento, il custode di Terra Santa, padre Francesco Patton farà, come tradizione, il suo ingresso in città ma ci sono delle difficoltà da superare dovute al momento attuale. Il Natale sarà così concentrato tutto nella Messa di Mezzanotte, celebrato dal patriarca latino, card. Pierbattista Pizzaballa. Nei giorni scorsi sono stato a colloquio con il presidente palestinese Abu Mazen e con Papa Francesco. Aspettiamo il presidente Abu Mazen alla Messa di Mezzanotte a Betlemme. Ha detto che verrà. Una presenza, quella dei presidenti palestinesi, alla Messa di Natale che risale al 1995 con Yasser Arafat.

(Foto AFP/SIR)

Sono passati più 50 giorni dal 7 ottobre e ancora ci si chiede come sia potuto accadere un fatto del genere…
Il 7 ottobre è avvenuto quello che tutti ritenevano impossibile, si è consumato un fatto tragico al quale nessuno riesce a dare una spiegazione: in poche ore sono stati uccisi 1.400 israeliani, 5.000 feriti, un vero e proprio “Sabato nero”. Molti in Israele – e non solo – si chiedono come sia potuto accadere e qualcuno dovrà dare delle risposte. L’auspicio adesso è che la tregua continui anche dopo il rilascio concordato degli ostaggi. Sono certo che Egitto, Usa e Qatar, che hanno mediato per questo accordo, stanno lavorando per una prosecuzione della tregua e per il completo rilascio di tutti gli ostaggi. Nessuno di questi Paesi, Biden in testa, vuole che la guerra continui non solo a Gaza ma in tutta la Terra Santa. Non si può descrivere quello che abbiamo visto in questi 50 e più giorni di guerra, un inferno sulla terra. Sono 35 anni che sono in Terra Santa, ho vissuto la prima e la seconda Intifada, l’assedio alla Natività, ma una cosa del genere non l’avevo mai vista.

(Foto ANSA/SIR)

Dopo quanto accaduto, crede ancora nella pace tra israeliani e palestinesi?
L’unica soluzione è vivere insieme, è il destino di questi due popoli. Credo che questo sia il momento di parlare di negoziato, di pace, perché dopo tante vittime, distruzioni e sofferenze bisogna dire basta, basta guerra, basta sangue, basta vendetta. È giunto il tempo di riprendere in mano la soluzione “Due popoli, due Stati”. Questo è il compito della comunità internazionale. Sono 70 anni che se ne parla ma poi si torna a fare la guerra che pagano sempre gli innocenti. Serve subito una pace giusta, sostenibile e duratura. In Terra Santa sono passati tutti i potenti della Terra, tutti hanno parlato di Due Stati, ma nessuno ha fatto mai nulla. Devono fissare un termine nel quale questo avvenga, una data in cui ci sarà lo Stato palestinese che tutti devono riconoscere. San Giovanni Paolo II diceva sempre che non ci sarà mai pace nel mondo se prima non ci sarà pace a Gerusalemme. Il cuore del mondo è la Terra Santa, il cuore del conflitto è Gerusalemme. Se si troverà una soluzione per la Città Santa avremo la pace. Gerusalemme, come da sempre auspica la Santa Sede, deve essere una città aperta a tutti.

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/11/FiscAssembleaRomaFaltasVideo_24112023.mp4

Israel and Hamas. Father Faltas (Custody): “50 days of inferno. Peace is the destiny of both peoples”.

Mar, 28/11/2023 - 09:00

“In the Holy Land, there is a before 7 October and an after 7 October, like 9/11 for the United States. People are afraid to go out. There is no one in the streets. Some areas have been sealed off for security reasons. People are afraid”. Father Ibrahim Faltas, Vicar of the Custody of the Holy Land, described the “atmosphere” in Israel, the West Bank and Gaza after the Hamas terrorist attack on Israel. Speaking to participants at the 20th Ordinary National Assembly of the National Federation of Catholic Weeklies (FISC) held in Rome over the past few days, the friar mentioned the city of Bethlehem, the heart of Christmas celebrations in the coming weeks: “It is a dead, enclosed, empty, deserted town. It is very complicated to enter and to leave. So many people want to leave. Christian families want to take their children with them, saying they have no future there. The war is not only in Gaza, but also in the West Bank. Where is Hamas going? Where is Israel going? These are the questions we are asking ourselves today.” SIR interviewed the Vicar of the Custody of the Holy Land on the sidelines of the FISC assembly.

Father Faltas, next Sunday, December 3rd, the Advent season will begin. What kind of Christmas will it be for Gaza and Bethlehem?

“It will be a sad Christmas. We are surrounded by death, casualties, rubble and suffering. Everything in Gaza is destroyed. Not a single Christian family has a home, they are all displaced in the Latin parish, over 700 people, and in the Greek Orthodox parish of St Porphyrios. The same situation exists in the West Bank and in Bethlehem, where the number of arrests, deaths and casualties is high. In the birthplace of Jesus, now closed and deserted, there will be no Christmas celebrations; there will be no Christmas lights and no Christmas tree in the Manger Square. On the 2nd of December, the eve of the first Sunday of Advent, the Custos of the Holy Land, Father Francis Patton, will enter the city in keeping with tradition, but there are some difficulties to be resolved due to the current circumstances. Christmas will therefore be entirely centred on the Midnight Mass celebrated by the Latin Patriarch, Card. Pierbattista Pizzaballa. In the last few days I had talks with the Palestinian President Abu Mazen and with Pope Francis. We expect President Abu Mazen to attend the midnight Mass in Bethlehem. He said he would come. The presence of Palestinian presidents at Midnight Mass goes back to 1995 with Yasser Arafat.

More than 50 days have passed since 7 October and people are still wondering how such a terrible event could have happened….

What everyone thought could never happen did happen on 7 October, a tragedy that no one can explain: in just a few hours, 1,400 Israelis were killed and 5,000 wounded, a veritable “Black Sabbath”. Many people in Israel – and abroad – are wondering how this could have happened, and someone will have to provide the answers. Our hope now is that the ceasefire will continue after the agreed release of the hostages. I am sure that Egypt, the US and Qatar, who brokered this agreement, are working for a continuation of the ceasefire and the release of all the hostages. None of these countries, led by Biden, want to see a continuation of the war, not only in Gaza but throughout the Holy Land. It is impossible to describe what we have seen in these more than 50 days of war, a hell on earth. I have been living in the Holy Land for the past 35 years, I lived through the first and second Intifadas, the siege of the Church of the Nativity, but I have never seen anything like this.

Do you still believe in peace between Israelis and Palestinians after what has happened?

Living together is the only solution, it is the destiny of these two peoples. I think that now is the time to talk about negotiations, to talk about peace, because after so much death, destruction and suffering, we have to say that enough is enough, no more war, no more blood, no more revenge. The time is ripe for reviving the “two Peoples, two States” solution. That is the task of the international community. It was on the agenda for 70 years, but then war broke out again, with the innocent always suffering the most. What we need now is a just, sustainable and lasting peace. All the world’s leaders have visited the Holy Land, they have all talked about the Two-State solution, but no one has ever delivered. They must set a date for this to take place, a date when there will be the Palestinian state that everyone must recognise. John Paul II used to say that there will never be peace in the world until there is peace in Jerusalem. The heart of the world is the Holy Land, the heart of the conflict is Jerusalem. If a solution is found for the Holy City, we will have peace. Jerusalem must be a city open to all, as has always been the desire of the Holy See.

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La riforma liturgica sessant’anni dopo. Mons. Busca: luci, ma anche ombre da superare

Lun, 27/11/2023 - 09:27

Luci e ombre. Forse più le prime. Ma il bilancio della riforma liturgica, a 60 anni dal varo della Sacrosantum Concilium (SC) il documento conciliare che la codificò, e a 50 dalla nascita dell’Ufficio liturgico nazionale (Uln), è ricca di spunti di riflessione. Come dice il vescovo di Mantova e presidente della Commissione episcopale per la liturgia, Gianmarco Busca, al termine del convegno organizzato proprio dall’Uln per fare il punto sull’applicazione della riforma in Italia.

Che cosa è emerso?
Diciamo subito, e questo vale non solo per l’Italia ma per tutto il mondo, che la riforma non poteva ritenersi conclusa solo con la pubblicazione di nuovi libri liturgici. Doveva maturare pian piano una capacità celebrativa che andava di pari passo con l’esperienza di fede dei credenti e delle comunità e che chiedeva di essere rinnovata alla luce del primato della Parola e di una nuova profezia della Chiesa rispetto alle sfide storiche. Per fare un bilancio onesto, con luci e ombre, dobbiamo inserirlo nel cammino della Chiesa uscita dal Concilio. Per restringere il campo all’Italia, sicuramente c’è stato un grande lavoro di adattamento della SC alla nostra cultura e ai nostri tempi.

Che cosa ha funzionato e cosa bisogna invece migliorare?
Gli impulsi dati dalla riforma liturgica erano di qualità alta. Ma era richiesta anche un’alta qualità delle nostre comunità cristiane, che invece hanno conosciuto un ridimensionamento non solo numerico, ma anche, oserei dire, di spessore della vita cristiana. Non tutta la produzione liturgica – penso ai canti – è stata di buona qualità. Talvolta è stato spacciato per bello quello che non era corretto per i contenuti o i linguaggi. C’è stata inoltre qualche difficoltà nella trascrizione dei modelli celebrativi concreti delle grandi ispirazioni della riforma. Abilitare al celebrare non è qualcosa che avviene a tavolino o immediatamente. Ci sono stati tentativi poco felici di rendere la liturgia più fruibile, talvolta l’eccesso di verbosità ha rischiato di trasferire i linguaggi della catechesi dentro il rito. Così come una sorta di autoreferenzialità dei celebranti non ha permesso di aprirsi all’incontro con Dio. In sostanza, le premesse buone della riforma restano. Ma siamo più consapevoli che non abbiamo avuto cantieri celebrativi, cioè esperienze paradigmatiche, sempre all’altezza dei modelli.

Fra le luci c’è chi colloca la ritrovata forza della Parola di Dio.
Certamente. La mensa della Parola ha oggi un proprio peso e ben superiore a prima, quando nemmeno si comprendeva nella propria lingua la Parola. Ma c’è il rischio anche qui che l’elemento didascalico, di spiegazione (ad esempio nel momento omiletico) prenda il sopravvento sulla Parola di Dio sacramentale, che è presenza del Cristo che parla. Dunque si è capito che Bibbia e liturgia sono un binomio imprescindibile per l’esperienza cristiana. Il loro rapporto chiede di essere meglio focalizzato nella predicazione, ma non solo.

Fra le ombre invece c’è chi pone l’attutirsi del senso del mistero.
In effetti è una notazione che abbiamo raccolto anche da alcune sintesi del cammino sinodale della Chiesa italiana. La questione di fondo è se le liturgie sono vive, capaci di evangelizzarci, e di aprirci all’incontro con Dio. Indubbiamente ci sono stati degli equivoci intorno alla actuosa partecipatio, alla partecipazione attiva, che spesso è stata banalmente ridotta al far fare a tutti qualcosa, mentre invece nella mens della SC l’idea è che sia una partecipazione intensa coinvolgente. La liturgia implica uno scatto, il passaggio di una soglia, l’ingresso in un mondo altro che è quello dell’umano trasfigurato dal divino. Perciò il silenzio, l’adoperare un linguaggio diverso da quello della strada restano fondamentali.

Nel convegno si è parlato di una liturgia in uscita per una Chiesa in uscita. Che cosa significa?
Significa una liturgia non autoreferenziale che ci proietta in un sacro separato, ma che è capace di ospitare il realismo della dimensione umana anche con il suo risvolto drammatico. Ad esempio, sarebbe una liturgia solo in entrata quella che cura una resa puramente estetica. La liturgia cristiana invece si fa  carico anche della non bellezza, dell’esperienza del male, del peccato, dell’incompiutezza.  Nel rito entra la vita e la vita deve entrare nel rito in una osmosi continua dei vissuti portati all’altare e deposti davanti a Dio. Penso, ad esempio, ai Salmi, che sono l’anatomia dell’animo umano anche nella sua drammaticità, ma sempre in dialogo con il Signore.  Quindi in definitiva una liturgia in uscita è quella che è capace di registrare questi vissuti umani e riesce a renderli in entrata rispetto alla misericordia di Dio, alla redenzione di Cristo, alla sua croce e risurrezione.

Lei accennava prima alla musica. C’è stata una relazione in questi giorni che ricordava il cammino fatto negli ultimi anni, dalla musica beat in poi. Qual è lo stile più adatto oggi per la musica liturgica?
Occorre una musica di qualità con testi e contenuti adeguati. Perché la musica liturgica non è un apparato esteriore o decorativo. È liturgia vera e propria, è preghiera cantata, professione di fede. Fides canora, diceva sant’Ambrogio. In altri termini fede tradotta in canto. Non tutti i linguaggi musicali sono adeguati a esprimere il mistero. Occorre anche un filtro critico. Ma d’altra parte si è consapevoli che, se il popolo canta, questa è la vera solennità. Il linguaggio musicale del canto rappresenta una risorsa notevole per emozionare; dunque, per aprire il contatto con il mistero. E questo deve orientare nella ricerca degli stili. Se si canta in gregoriano, tutti immaginiamo quasi di trovarci in un monastero. Ora, la domanda è quali stili musicali sono veramente capaci di veicolare l’esperienza del mistero cristiano. Quindi occorre preparazione tecnica da parte di chi suona e canta e sensibilità nel comprendere come le espressioni musicali possano indurre all’immersione nel mistero.

(*) Avvenire

Da Verona a Trieste. Nerozzi (Comitato Settimane sociali): “Emergenza educativa e coinvolgimento dei giovani, in gioco c’è la democrazia”

Lun, 27/11/2023 - 09:24

“Tra i contenuti affrontati al Festival della dottrina sociale e quelli della 50ª Settimana sociale c’è assoluta sintonia. Anche perché il lavoro fatto a Verona è un modo per dare continuità ai temi delle Settimane sociali”. Così Sebastiano Nerozzi, professore associato di Storia del Pensiero economico all’Università Cattolica del Sacro Cuore e segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici in Italia, mette in evidenza il solco che unisce Verona e Trieste, città distanti quasi 270 km ma accomunate in questi mesi dalla riflessione sulla Dottrina sociale della Chiesa e dall’impegno per il bene comune del Paese. Non è un caso se nel ricco programma del Festival, un panel è stato dedicato ad “una riflessione sulla crisi e sui fondamenti morali della democrazia”, tema al centro dell’appuntamento che si terrà in terra giuliana il prossimo luglio. A margine della sessione, nella quale Nerozzi ha spiegato quali saranno il cammino di avvicinamento e l’obiettivo della 50ª Settimana sociale, il Sir lo ha incontrato.

Professore, il tema di questi giorni a Verona era “Socialmente liberi”, strettamente legato a quello della democrazia. In vista di Trieste, quanto è importante che ci siano contesti come questo che alimentino la riflessione e coinvolgano le persone?
Mi sembra che ci sia una forte continuità di spirito e anche di format tra quanto si è vissuto in questi giorni a Verona e quello che ci prepariamo a vivere a Trieste. Questa continuità è data dal fatto che

al Festival abbiamo avuto riflessioni, si è svolto un confronto tra studiosi, esperti e persone direttamente impegnate nei processi; a questo è stato affiancato il racconto di esperienze molto interessanti, come le imprese che lavorano per un’economia sostenibile, per creare innovazione sociale ed economica nei territori.

E poi ho notato un altro elemento importante: i laboratori, tavoli attorno a cui le persone si sono incontrate, si sono confrontate su un tema, hanno cercato linee comuni, si sono ascoltate. E

questo partire dall’ascolto, che è molto in linea con il cammino sinodale, risponde a quell’idea del dialogo sociale che Papa Francesco in Fratelli tutti auspica. Questo stile il Festival della dottrina sociale lo incarna. E anche la Settimana sociale vuole portarlo avanti.

Nel cammino di avvicinamento a Trieste, c’è qualche tema, qualche ambito che più di altri stanno emergendo come urgenze in questa fase storica per il nostro Paese?
Certo, le urgenze che vediamo sono le urgenze che sente il Paese.

C’è un’emergenza educativa,

che in questi giorni sta venendo fuori ma non è solo legata ai temi dell’affettività, della violenza, del rispetto fra le persone. È legata in generale all’educazione civile, all’essere parte di una comunità democratica, di una comunità che deve trasmettere di generazione in generazione valori e regole condivise, ma anche trovare modalità per rilanciare il dialogo sociale e la ricerca del bene comune.

C’è una sfida educativa che verso Trieste sentiamo molto forte: ed è come facilitare la partecipazione dei giovani. Si tratta di capire come accompagnarli, come stimolarli, come accogliere le loro istanze con dei linguaggi e anche con degli spazi che siano nuovi e che loro possono abitare.

L’Italia è un Paese nel quale demograficamente i giovani sono pochi e quindi dovrebbero essere preziosi. La politica spesso se ne riempie la bocca ma poi le scelte vengono orientate su altro…
Questo porta a riflettere sulla questione del voto, che per molti giovani è inutilmente complicato, presenta ostacoli spesso difficili e costosi da superare. Pensiamo ai giovani fuori sede che per rientrare nei propri Comuni di residenza per poter votare devono sostenere spese spesso molto alte;

mentre da anni gli italiani all’estero hanno diritto a votare fuori dal Paese, paradossalmente chi invece per motivi contingenti, di lavoro, di studio, perché sta facendo un investimento formativo o sul suo futuro non può votare e in molti casi non lo fa.

Non è casuale che l’astensione che è cresciuta tantissimo nelle ultime elezioni politiche – con un’affluenza scesa addirittura al 64% degli aventi diritto con un crollo drammatico di quasi il 10% dal 2018. Questo è un dato assolutamente allarmante anche perché l’astensione è concentrata proprio tra i giovani, le donne e le persone con particolare disagio economico e sociale. L’articolo 3 della nostra Costituzione ci dice che dovremmo rimuovere gli ostacoli alla partecipazione di tutti i lavoratori alla vita della Repubblica, invece noi questi ostacoli continuiamo a ignorarli.

Se i giovani non partecipano al voto, altri sceglieranno anche per loro…
Certo. Le scelte le farà chi ha una prospettiva più radicata in stagioni del passato, non in quella di chi vive l’oggi e deve costruire il proprio futuro. Allora

la necessità di riportare i giovani alla democrazia, di riavvicinarli, è molto forte

e noi come promotori della Settimana sociale abbiamo anche fatto la scelta di farci accompagnare dai giovani creando una Consulta dei giovani per la Settimana Sociale a cui vi aderiscono da tutta Italia, provenienti da tante associazioni diverse. Stanno organizzando delle manifestazioni in vista di Trieste, degli incontri, dei percorsi e a luglio ci daranno una mano, saranno con noi protagonisti anche durante i giorni a Trieste. Un modo concreto per dare loro la possibilità di essere protagonisti, di far sentire la loro voce e richiamare la nostra attenzione su ciò che ritengono più importante.

Uno degli incontri che a Verona ha visto proprio i giovani protagonisti è stato quello con don Alberto Ravagnani durante il quale ha detto che è ora di superare la dicotomia tra reale e virtuale. I social sono uno spazio democratico? Come possono aiutare la democrazia?
Sicuramente i social pongono tutta una serie di problemi importanti, in termini di controllo della comunicazione. Il rapporto tra potere e informazione è sempre stato molto caldo anche quando c’era solo la carta stampata; i giornali erano in mano a grandi potentati industriali, a grandi famiglie e, a volte, a partiti politici.

Oggi l’informazione è più libera, meno controllata, per certi aspetti più rischiosa; però gli studi degli ultimi anni ci fanno vedere che i giovani hanno una consapevolezza nel muoversi nel mondo dei media, anche dei social media. Questo è un processo di apprendimento aperto, è ancora in corso;

per certi aspetti è più efficace di quello che le generazioni che sono arrivate ai social da adulti stanno mettendo in campo. Bisogna avere uno sguardo positivo. Certamente è importante accompagnare, dare criteri di discernimento. Però poi nella dinamica dei social i giovani sanno entrare, sanno individuare la strada giusta.

Come Settimana sociale quale approccio avrete nei confronti dei nuovi media?
Abbiamo deciso di investire su questo, creando una web app e usando tutti gli strumenti social e digitali. Perché

il digitale oggi offre una grandissima opportunità di partecipazione.

Se dovessimo tornare oggi a fare in presenza tutte le riunioni che ormai facciamo online non riusciremmo più a trovarci. Il digitale dà la possibilità di potenziare molto la nostra capacità di interagire, di condividere documenti e contenuti, di lavorare insieme in modo interattivo su un progetto comune. È questo uno dei nuovi volti della partecipazione e oggi gli strumenti digitali, se ci crediamo e se li usiamo con criterio, possono essere una grande opportunità di partecipazione.

La 50ª Settimana sociale su questo è un grande esperimento, anche da un punto di vista ecclesiale. Molte realtà si stanno muovendo in questo senso, in ambito formativo, in quello informativo e pure in quello collaborativo. Abbiamo bisogno di entrare in questo mondo; lo stiamo facendo e i frutti arriveranno.

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