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Aggiornato: 3 mesi 3 settimane fa

Jina, le donne, la libertà: da Strasburgo la denuncia contro il regime di Teheran

Mar, 12/12/2023 - 15:14

(Strasburgo) “Sei il mio cuore, la mia vita, il mio sangue. Sei l’aroma della primavera. Sei il profumo della terra dopo la pioggia… Cerco gli occhi della figlia della luce”: sono parole della mamma di Jina Mahsa Amini, 22enne curda iraniana, morta un anno fa dopo l’arresto e le violenze subite dalla polizia del regime iraniano. A Jina – arrestata a Teheran il 13 settembre 2022 per aver ignorato le leggi sull’uso del velo, morta in un ospedale della capitale tre giorni dopo a seguito di abusi fisici durante la detenzione – e al movimento di protesta iraniano “Donna, vita e libertà”, il Parlamento europeo ha assegnato il Premio Sacharov 2023 per la libertà di pensiero.

Spirito di libertà. Toccante la cerimonia svolta in emiciclo, dove Saleh Nikbakht, avvocato che rappresenta la famiglia di Jina Mahsa Amini, ha letto il poetico messaggio della madre di Jina, alla quale il regime non ha concesso di essere presente a Strasburgo. “Vorrei essere tra voi – ha scritto la madre – per rappresentare tutte le donne del mio Paese, ma sfortunatamente questa possibilità ci è stata negata in spregio a ogni regola e a ogni diritto”. La donna ha paragonato Jina a Giovanna d’Arco: “con la loro vita hanno oltrepassato le frontiere nell’anelito della libertà”. “Jina ha diffuso il senso della libertà nel nostro Paese e nel mondo intero. La sua vita è stata stroncata ingiustamente, ma dal suo sacrificio si alzerà un invincibile spirito di libertà”.

“Non siete soli”. Il Premio Sacharov è stato consegnato a due donne esponenti della resistenza al regime iraniano: Afsoon Najafi, la cui sorella Hadis è stata uccisa durante una manifestazione in onore di Jina Mahsa Amini, nel settembre 2022, e Mersedeh Shahinkar, ferita a un occhio durante una manifestazione contro il regime iraniano nell’ottobre 2022. In apertura della cerimonia di premiazione, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha dichiarato: “il premio Sacharov per la libertà di pensiero di quest’anno, assegnato a Jina Masha Amini e al movimento ‘Donna, vita, libertà’, è un omaggio a tutte le donne, gli uomini e i giovani iraniani, coraggiosi e provocatori, che nonostante le crescenti pressioni, continuano a lottare per i loro diritti e a spingere per il cambiamento. Il Parlamento europeo vi ascolta e vi sostiene. Non siete soli”.

Le violenze del regime. Il Premio Sacharov per la libertà di pensiero alla memoria di Jina Mahsa Amini e al movimento “Donna, vita e libertà” è arrivato due giorni dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la pace all’attivista iraniana Narges Mohammadi, che non ha potuto recarsi a Oslo, perché in prigione. La cerimonia del Sacharov al Parlamento europeo, e la precedente conferenza stampa, hanno rappresentato l’occasione per mettere ancora una volta in luce le violenze del regime iraniano che solo negli ultimi mesi ha ucciso centinaia di persone e numerose altre sono finite in carcere senza saperne più nulla.

“Prigionieri nel nostro Paese”. Afsoon Najafi ha ricordato “le sofferenze che subisce il popolo iraniano”, le vittime, gli arresti, le sevizie. “La Repubblica islamica toglie le libertà e combatte chi chiede libertà e difende i diritti umani. Siamo arrivati a un punto in cui la politica” internazionale “deve smettere di voltare la faccia dall’altra parte e di stringere le mani” delle autorità iraniane. “Il futuro del nostro Paese deve appartenere al popolo iraniano”. Ha quindi ricordato l’impegno e il sacrificio in particolare delle donne che chiedono libertà e uguaglianza. L’attivista Mersedeh Shahinkar ha detto: “siamo qui a nome di tutte le donne iraniane che si battono per la libertà. Siamo stanche del regime autoritario e abbiamo scelto di lottare. Siamo tutti imprigionati nel nostro Paese da ormai 44 anni, abbiamo diritto a vivere. Il regime invece ci tratta come schiavi. Abbiamo anche noi, come l’Europa, il diritto alla libertà. Restate al nostro fianco”.

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Cristiani in Pakistan. Mons. Rehmat (vescovo di Faisalabad): “La nostra comunità è ancora scioccata”

Mar, 12/12/2023 - 12:57

(da Islamabad) – “Aiutateci, parlate di noi e pregate per la nostra minoranza cristiana che deve affrontare discriminazioni e persecuzioni”. È l’appello di mons. Joseph Indrias Rehmat, vescovo di Faisalabad e vicepresidente della Conferenza episcopale del Pakistan. A Jaranwala, nella sua diocesi, il 16 agosto sono state incendiate e distrutte case e chiese cristiane, con centinaia di famiglie sfollate a causa di presunte accuse di aver offeso l’islam e violato la legge sulla blasfemia. “E’ già la terza volta che succedono episodi di questo tipo”, ricorda il vescovo: “Le persone sono ancora scioccate e faticano a superare questo tragico incidente”, nonostante gli aiuti materiali, psicologici e sociali arrivati in questi mesi da Caritas Pakistan. Su una popolazione di 224 milioni di abitanti i cristiani sono circa 2 milioni e mezzo ma le stime non sono certe e potrebbero essere più alte. L’altra grande preoccupazione del vescovo è la povertà che ancora affligge gran parte della popolazione, nonostante l’economia del Pakistan sia in continua crescita, insieme alla demografia: il tasso medio di fertilità è di tre figli ogni donna, tanto da farne il secondo Paese musulmano più popoloso al mondo, dopo l’Indonesia. La capitale Islamabad è una moderna eccezione, non sembra nemmeno una città asiatica. Grandi viali ad alto scorrimento ordinati e puliti, centri commerciali, aree blindate per ambasciate e istituzioni, niente traffico, molto verde, specchi d’acqua e aria pulita. Ma basta andare nella vicina Rawalpindi per rituffarsi nelle atmosfere povere, caotiche, affollate e inquinate tipiche dei grandi centri dell’Asia centrale e meridionale, dove la gente lavora duramente, spesso è sfruttata, e sopravvive con pochi dollari al giorno. Il salario medio pakistano è di circa 70 dollari al mese.

Joseph Indrias Rehmat, vescovo di Faisalabad e vicepresidente della Conferenza episcopale del Pakistan – (foto: Caritas Pakistan)

Com’è la situazione nella sua diocesi dopo i drammatici fatti di agosto? I cristiani hanno ancora paura?

È migliorata ma c’è ancora un po’ di tensione all’interno della comunità cristiana. Le persone sono ancora scioccate e traumatizzate e faticano a superare questo tragico incidente. Insieme a Caritas Pakistan abbiamo distribuito cibo e altri beni, avviato tre scuole dove far studiare i bambini, mandato i più grandi alla Don Bosco school, un istituto tecnico, perché possano apprendere competenze ed essere così in grado di sostenere le rispettive famiglie.

Cosa si può fare per prevenire questi episodi?

Abbiamo avuto molti incontri in questi mesi con leader musulmani e di altre religioni, con politici, per cercare di capire come prevenire questi incidenti e garantire la pace e l’armonia tra le nostre comunità. Ma è un processo molto lento, bisogna partire dalla base per arrivare fino ai livelli più alti. Bisogna sensibilizzare i leader ed educare le persone.

Cosa vuol dire essere alla guida di una diocesi dove la comunità cristiana è perseguitata?

Fa parte della nostra vita. Nella mia diocesi è la terza volta che accadono questi episodi a causa della legge sulla blasfemia. È difficile perché dobbiamo impegnarci per proteggere la nostra gente, prevenire e fare in modo che stiano in posti sicuri.

E’ molto dura ma la persecuzione è il prezzo che paghiamo per testimoniare la nostra fede.

(foto: Caiffa/SIR)

Molti cristiani fanno parte della popolazione più vulnerabile, soprattutto nei villaggi. La povertà è ancora un grande problema in Pakistan.

La povertà è in tutto il Pakistan. Molta gente non ha risorse sufficienti per far studiare i figli, per le cure mediche, per i farmaci. Anche se lavorano non hanno abbastanza soldi per una vita dignitosa per le loro famiglie.

La povertà è una grande sfida per noi perché la popolazione non ha lavori decenti.

Perciò ci impegniamo molto per dare competenze alle persone.

Di cosa ha più bisogno in questo momento il Pakistan?

Il paese ha bisogno prima di tutto di educazione a tutti i livelli.

Di rispettarsi gli uni con gli altri e di rispettare i sentimenti religiosi.

Poi c’è il terrorismo: nei giorni scorsi 9 persone sono state uccise e 25 ferite dopo un’aggressione a colpi di arma da fuoco contro un pullman, nel nord del Pakistan.

Si è ancora un grande problema. Quando c’è un attacco muoiono e soffrono persone innocenti. Per questo chiediamo pace e stabilità.

Cosa pensa dei corridoi umanitari dei rifugiati afgani che Caritas italiana porta avanti con l’aiuto di Caritas Pakistan?

E’ una buona iniziativa ed è positivo che ci sia una collaborazione tra Caritas Pakistan e Caritas italiana. Ci piacerebbe che non fosse solo per gli afgani perché anche in Pakistan molte persone sono in difficoltà, specialmente per mettere in sicurezza le vittime di attacchi.

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Carlo Casini. Caniato: “La cultura della vita per continuare ad essere voce di chi non ha voce”

Mar, 12/12/2023 - 12:53

È appena arrivato in libreria, per i tipi di Ares, il volume “La cultura della vita. Quarant’anni di pensiero per il rinnovamento della società” che raccogli gli articoli e i saggi di Carlo Casini pubblicati sulla rivista Studi cattolici. Il libro, curato dalla figlia Marina con l’arricchimento di una bibliografia selezionata, non è solo un omaggio alla memoria di un uomo di talento – magistrato, parlamentare, eurodeputato, leader, docente –, testimone del nostro tempo tra i protagonisti del cattolicesimo impegnati nella società, nella cultura e nella politica. Gli scritti di Casini, sorprendentemente attuali, sono a tutti gli effetti un faro per chi vuole attraversare la storia con lo sguardo sui più fragili e dimenticati tra gli uomini. Del volume ci parla il giornalista Riccardo Caniato, vicedirettore e dal 1996 editor di edizioni Ares.

Come è nata l’idea di raccogliere in un volume gli scritti di Carlo Casini su Studi cattolici?
Da una chiacchierata con Marina. Ci siamo resi conto che disponevamo di un autentico patrimonio: la collaborazione fra Casini e Studi cattolici si è sviluppata ininterrottamente per quasi quarant’anni, in virtù della stima reciproca fa lui e lo storico direttore Cesare Cavalleri, mancato anche lui di recente, a fine dicembre dello scorso anno. In pratica, la rivista ha raccolto il dipanarsi del pensiero di Casini, i suoi obiettivi, le battaglie, le ragioni del suo agire lungo un lasso di tempo molto significativo della sua attività pubblica. Il risultato è la continua riproposizione del valore fondamentale della vita con solidità e coerenza intellettuali fuori dal comune.

Il tutto permeato dalla speranza, che è la virtù distintiva del cristiano.

Viviamo tempi inquieti, di guerre e di molte altre forme di sopraffazione. Casini ha sempre guardato al futuro con ottimismo, indicando anche nella situazione più complicata il bicchiere mezzo pieno da cui ripartire. Mi piace qui ricordare Edmond Rostand, che lui amava e che abbiamo citato sulla quarta di copertina: “È durante la notte che è bello credere nella luce: bisogna costringere l’aurora a nascere”.

A chi è principalmente rivolto il volume?
A coloro che considerano la vita, la propria e l’altrui, un dono inestimabile da accogliere, coltivare, valorizzare. A chiunque si interroghi sul senso dell’esistenza accettando il dato inequivocabile che la vita in ultima analisi non ci appartiene, dal momento che non possiamo darcela da soli. Ma se la vita è un dono che si riceve da altri, come tale è da rispettare, dal concepimento fino al suo esito naturale nella morte. A quanti, a fronte di una concezione così, desiderino farsi ancora oggi promotori, come lo è stato Casini, di quella “cultura della vita” che permea, fin dal titolo, questo libro. I testi contenuti in queste pagine – lungi dall’essere un’operazione amarcord – chiamano in causa le nuove generazioni che forse neppure hanno sentito parlare di grandi “battaglie per la vita”. Nati nel segno della legge 194 sull’aborto, i giovani d’oggi non ne conoscono l’origine e la portata ancora inespressa. Ciononostante, vivono quest’epoca complessa e travagliata, affamati di senso, cercando punti di riferimento e strumenti per smascherare bugie e contraddizioni. A loro si rivolge soprattutto il libro.

Quali elementi di attualità del pensiero di Casini emergono nel volume?
In un’epoca di individualismo marcato che promuove la sfera personale della persona sganciata dalla relazione, anche il rapporto con Dio viene meno: conta unicamente l’autoaffermazione in perenne divenire dell’io cui si tende con la proliferazione e rivendicazione di nuovi “diritti” autoreferenziali. E ciò purtroppo comporta la violazione della libertà e dei diritti degli altri. Ma anche l’impoverimento fino all’estinzione della stessa civiltà occidentale: un processo tragico che sembra ormai bene avviato nella più o meno inconsapevole indifferenza di molti.

I testi di Casini ci aiutano a recuperare il significato autentico dei diritti dell’uomo e a comprendere l’essenza del principio di uguaglianza.

Casini ci parla di un’umanità in cui l’individuo è protagonista, ma non in proprio, bensì in compartecipazione di idee, impegno, carità, dono e perfino sacrificio di sé. Un individuo inserito in una comunità, ed egli stesso parte di un tessuto sociale al cui bene comune è chiamato a contribuire e per il quale non deve rinunciare alla nobiltà della politica. I suoi scritti ci dicono anche di un uomo che crede nel valore delle istituzioni, capace di sperare un futuro dell’Italia e dell’Unione europea fedeli alla loro storia e alla loro anima. Per questo Casini si è candidato come deputato e si è sempre interfacciato con pazienza con le istituzioni, dando vigore e interlocuzione al Movimento per la vita italiano e alla Federazioni europea One of Us.

Qual è a suo avviso il messaggio più importante?
Nel riconoscere dignità a ogni singola vita umana, a ogni persona, Casini apre al suo mistero che abbraccia l’umanità e il tempo. L’uomo si riscopre portatore di vita, chiamato a dare un apporto di fecondità alla famiglia e alla società di appartenenza e, così facendo, a lasciare il proprio segno nella storia dell’umanità. Anche la visione antropologica del corpo e della sessualità acquistano in questa luce collocazioni precise e dense di significato, mentre l’autore ci esorta a non lasciar cadere le sfide sul terreno della bioetica e del biodiritto, fornendo una bussola per orientarci.

Ha conosciuto Casini ? Se sì, vuole condividerne qualche ricordo?
Ricordo bellissimi giorni vissuti insieme in un albergo di Riccione in occasione di un Meeting di Rimini. C’era Cesare Cavalleri di Ares, ma c’erano anche la mia famiglia e la famiglia di Carlo. Ho conosciuto un uomo amabile che amava ridere e scherzare in compagnia. Ma dovendo soffermarmi su un unico aspetto, fui conquistato dall’unità di vita che comunicava. Per Casini la fede determinava ogni ambito della vita, nella consapevolezza che Dio è presente in ogni istante della nostra giornata. Ma Carlo non parlava di fede, la viveva, la incarnava nel desiderio di offrire ai suoi interlocutori le ragioni buone e accessibili del suo credo. L’approccio con chi non la pensava alla sua maniera era pertanto squisitamente laico: non si appellava alla religione, non impugnava i dogmi… ricorreva piuttosto, come terreno di confronto, alle sue sconfinate conoscenze, al diritto e alle scienze, potendo contare sulla sua logica cristallina e mai prevaricatrice. Ad esempio, per difendere la salvaguardia dell’embrione da chi ne negava la dignità di persona, Carlo non evocava la sacralità della vita, che pure per lui era un caposaldo, ma faceva leva sulla giurisprudenza che tanto più nel vuoto legislativo, nel dubbio, come nel caso specifico – chi può attestare infatti, empiricamente e incontrovertibilmente, l’esatto momento in cui un embrione diventa persona? –, tutela sempre il più debole, chi non ha voce. Questo libro di Casini in ultima analisi ci chiede di

continuare dopo di lui, ancora prima con la testa che con il cuore, ad essere voce di chi non ha voce.

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Accordo Ue sull’intelligenza artificiale: avere il coraggio di regolamentare le tecnologie

Mar, 12/12/2023 - 12:43

Il 9 dicembre 2023, dopo 3 giorni di trattative, l’Europa ha raggiunto un accordo provvisorio sulla proposta di norme armonizzate sull’intelligenza artificiale (IA), conosciuta come Artificial Intelligence Act. Il progetto riguarda i sistemi di IA presenti e utilizzati in Europa, i quali dovranno rispettare e garantire i diritti e i valori europei. Si tratta di un’iniziativa legislativa pilota con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo e l’adozione di un’intelligenza artificiale sicura e affidabile.

Il criterio valutativo dei sistemi di IA si basa su un approccio “basato sul rischio” a quattro livelli: maggiore è il rischio, più severe sono le regole. L’Europa aspira a essere un punto di riferimento per altri paesi, auspicando la creazione di standard globali comuni per la regolamentazione dell’IA.

L’Artificial Intelligence Act è un documento dettagliato e articolato, risultato di un intenso lavoro di analisi, che meriterà uno studio più approfondito. Mentre è positivo aver raggiunto una convergenza nelle direttive generali di regolamentazione, ci si interroga sulla sua reale applicabilità. Per esempio si sa che c’è stata tensione tra Parlamento e Consiglio perché, mentre i parlamentari europei sono per una regolamentazione più severa, la richiesta dei governi è invece quella di non avere troppe restrizioni, soprattutto in materia di ricerca e sicurezza nazionale. Uno dei punti delicati è l’Identificazione biometrica e categorizzazione delle persone fisiche che eccezionalmente potrebbe essere richiesta dai governi per questioni di sicurezza in caso di terroristi, ma anche per monitorare flussi immigratori irregolari. Si comprende come la tentazione ad espandere l’eccezione possa scivolare in forme di discrezione nazionale basata sulla percezione del pericolo. Inoltre, la legge sull’IA non si applica ai sistemi usati per scopi militari e nei centri di ricerca.

La strada intrapresa è giusta: è importante riflettere e avere anche il coraggio di provare a regolamentare tecnologie il cui esito non è così prevedibile, l’abbiamo visto anche con Internet ora davvero difficile da regolamentare.

Stiamo andando verso la costruzione di società sempre più complesse e automatizzate e l’implementazione dell’IA necessità anche una riflessione sui concetti di democrazia, libertà, stato, privacy e bene comune. L’uso intensivo dei social media, che sono gestiti da sistemi di IA, già ha mostrato molti degli effetti positivi e negativi sulla vita dell’uomo a livello cognitivo, relazionale, sociale, politico, economico ecc.
L’IA, come il cambiamento climatico, avrà un impatto radicale sulla vita del pianeta. È essenziale avere visioni di futuro e comprendere in quali campi implementare l’uso dell’IA e in quali evitarlo anche quando il criterio di efficienza lo esigerebbe.

Abbiamo equiparato progresso tecnologico a progresso umano, ma non è così. Il vero progresso è il miglioramento della nostra convivenza su questa terra, non è l’efficienza di apparti tecnologici spesso a servizio e a favore di minoranze tecnologicamente e economicamente avanzate.

Non possiamo non ricordare che le più potenti IA sono sviluppate da aziende private il cui potere economico è superiore a molti stati nazionali. Queste aziende stanno reclutando le migliori menti e i migliori programmatori al mondo depauperando i centri di ricerca indipendenti. Le sessioni di esercitazione delle IA richiedono costi enormi e spesso i data set usati non sono trasparenti al pubblico. Non ultimo, bisogna ricordare la crescente impronta del consumo energetico di Internet e i conflitti legati all’accaparramento delle terre rare per i componenti dei microprocessori.
L’Europa deve continuare il lodevole sforzo coinvolgendo il resto del mondo, lavorando su una visione di società in cui la tecnologia sia al servizio dell’uomo. Solo così potremo sviluppare documenti basati sulla bontà della progettazione del futuro dell’umanità e non solo sulla percentuale di rischio. Si deve pensare a sistemi di IA che siano etici by design già nella loro fase progettuale e bisogna indubbiamente rivedere il nostro macro sistema economico che deve passare da competitivo a collaborativo, da accentratore a distributivo su scala mondiale se vogliamo che la nostra umanità cresca armonicamente insieme.

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I seminaristi dell’Emilia-Romagna al campo di concentramento di Fossoli, nel ricordo del Beato Odoardo Focherini

Mar, 12/12/2023 - 09:43

Un mite pomeriggio autunnale ha fatto da cornice all’incontro dei seminaristi della regione Emilia-Romagna nei giorni scorsi, presso il sito storico del campo di Fossoli di Carpi. Una sessantina i partecipanti da tutte le diocesi, accompagnati dai rispettivi formatori, con il coordinamento di don Maurizio Trevisan, rettore del seminario interdiocesano di Modena e Carpi. A loro si è aggiunto, in rappresentanza del vescovo Erio Castellucci, il vicario generale della diocesi di Carpi, monsignor Gildo Manicardi. L’iniziativa si è inserita in un ciclo di incontri che da tre anni a questa parte vede coinvolti e uniti i Seminari emiliano-romagnoli.

Nella prima parte della visita a Fossoli, i seminaristi hanno conosciuto la storia del campo e delle sue vicissitudini durante gli anni della seconda guerra mondiale, con il discrimine rappresentato dall’8 settembre 1943, data dopo la quale il sito divenne, da luogo di prigionia dei militari nemici, campo di concentramento – e poi di transito verso i lager nazisti – di ebrei e prigionieri politici. “La scelta di venire a Carpi – ha spiegato don Maurizio Trevisan – ha, fra le sue motivazioni, il contesto storico in cui ci troviamo, questo momento di conflitti e di difficoltà che il mondo sta sperimentando, e l’invito pressante, che il Papa continuamente ci rivolge, di pregare per la pace. Quindi abbiamo pensato che potesse essere significativo trovarci qui, in un luogo che parla di guerra, di distruzione, di sofferenza, di morte, ma che ci esorta ad avere un desiderio, uno spirito di pace, e ad invocare questo dono da Dio, l’unico in grado di darcelo”.

(Foto Notizie Carpi)

Il momento successivo della visita è stato guidato dalla studiosa Maria Peri, nipote del Beato Odoardo Focherini, il quale, tra il luglio e l’agosto 1944, fu internato a Fossoli per poi essere deportato in Germania e qui trovare la morte nel campo di Hersbruck. Insieme ad altre figure che transitarono per Fossoli, Focherini si adoperò strenuamente, con tutte le proprie forze sino alla fine, contro quella “disumanizzazione” a cui il nazismo voleva condannare gli internati. “Un altro motivo che ci ha guidati nella scelta del campo di Fossoli – ha commentato don Trevisan – è il fatto che, come ci ha dimostrato Odoardo Focherini, un luogo di morte possa essere un luogo di santità, un luogo in cui, nonostante la drammaticità delle condizioni di vita, si possa camminare per costruire il Regno di Dio. Ritengo che sia davvero importante coltivare questa chiamata a prendere sempre più esempio dalle figure di santi, quali appunto il Beato Odoardo, che la Chiesa di Carpi e le nostre Chiese locali hanno saputo esprimere”.

Un altro valore da coltivare, nella grande famiglia dei seminari emiliano-romagnoli, è la fraternità, e a questa dimensione particolare è stata dedicata la seconda parte dell’incontro, con la preghiera comunitaria nella Messa celebrata in Cattedrale – ricevendo in dono alcune pubblicazioni su Focherini, molto apprezzate dai seminaristi – e, infine, la cena presso la parrocchia di Sant’Agata Cibeno.

“Sulla fraternità stiamo insistendo molto – ha sottolineato don Trevisan -. Siamo appena stati, come seminari della Regione, in pellegrinaggio in Turchia, vivendo due settimane di esercizi spirituali a settembre con un itinerario molto intenso. Crediamo che aiutare i nostri seminaristi a crescere nella comunione tra le Chiese a cui appartengono, a sentirsi parte di una realtà più ampia e, nello stesso tempo, tutti al servizio della medesima missione, ovvero l’annuncio del Vangelo, dia loro, da una parte, forza e slancio nel proseguire il cammino di formazione, e dall’altra – ha concluso – li faccia sentire veramente fratelli, che è, come discepoli di Gesù, quanto siamo chiamati a costruire nella vita”.

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Card. Eduardo Pironio. Il ricordo di mons. Carlos Malfa: “Un uomo di Dio”

Mar, 12/12/2023 - 09:42

Era il giovane segretario generale del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), quando, nel 1968, si tenne la Conferenza generale di Medellín. Era presidente del Pontificio Consiglio per i laici quando Giovanni Paolo II gli “affidò” i giovani e la nuova “creatura”, la Giornata mondiale della gioventù. Il cardinale Eduardo Pironio è senza dubbio, uno dei vescovi che ha meglio incarnato, con fedeltà al Vangelo e creatività, la stagione del post-Concilio. Grande la gioia, in Argentina, ma al tempo stesso in tutto il Continente latinoamericano, in Vaticano e pure in Friuli (i suoi genitori erano emigrati da Pavia di Udine), per la sua beatificazione. Il rito si terrà sabato 16 dicembre, nel santuario nazionale argentino, la basilica di Luján, e sarà presieduto dall’inviato papale, il cardinale Fernando Vérgez, che fu suo segretario in Vaticano.

(Foto Carlos Malfa)

Eduardo Francisco Pironio nacque il 3 dicembre 1920 a Nueve de Julio, e venne ordinato sacerdote nel 1943. vescovo ausiliare di La Plata nel 1964 e vescovo di Mar del Plata nel 1972, dal 1968 al 1975 fu dapprima segretario generale e poi presidente del Celam. Quindi, la chiamata in Vaticano, da parte di Paolo VI, come pro-prefetto e prefetto della Congregazione per gli Istituti religiosi e gli Istituti secolari; nel 1976 fu creato cardinale; nel 1984 Giovanni Paolo II lo nominò presidente del Pontificio consiglio per i laici. Morì in Vaticano il 5 febbraio 1998. Il Sir ha chiesto di presentare questa figura esemplare di cristiano e vescovo a colui che fu suo segretario personale a Mar del Plata, mons. Carlos Malfa, oggi vescovo di Chascomús, sempre in Argentina.

Lei è stato segretario personale del vescovo Pironio a Mar del Plata. Quali sono i suoi ricordi personali di lui?
Un uomo dello Spirito, profondamente umano e tutto di Dio. Chiunque abbia incontrato Mons. Pironio non ha potuto fare a meno di percepire il sereno fulgore della sua presenza, di portare con sé qualcosa di Dio. Bastava un breve contatto con lui, una parola, uno sguardo, per pacificare l’anima e far nascere dal profondo dell’anima il desiderio di essere più buoni e semplici, più umili e fraterni.

E può dirci qualcosa sul suo profilo spirituale?
Diceva che “esiste una sola spiritualità cristiana, quella della piena realizzazione del Vangelo”. La radice della sua spiritualità è il mistero pasquale di Cristo: “Essere fedeli al Vangelo implica essenzialmente vivere e comunicare la gioia profonda del mistero pasquale”. Pironio ha un modo originale di stabilire, a partire da tale mistero, il rapporto tra la Chiesa e il mondo, tra il Popolo di Dio e il genere umano, tra la storia della salvezza e la storia umana. Era un uomo di Dio, un vero conoscitore di Dio, un contemplativo nella vita quotidiana. Aveva un profondo senso di trascendenza spirituale che riconosceva in tutti gli uomini. Una dimensione spirituale di profonda interiorità e allo stesso tempo incarnata nella realtà del suo tempo, che si percepiva nella forza delle sue azioni, nella sua vicinanza a tutte le persone, nella gioia e nella speranza che trasmetteva sempre con acuta intelligenza e un sano senso dell’umorismo. Il Padre, la croce e Maria sono anche la chiave della sua spiritualità.

Aveva una forte spiritualità mariana?
Non è possibile parlare della spiritualità del cardinale Pironio senza fare riferimento a Maria. La Madonna è all’inizio della sua vita, che egli considera un miracolo della Vergine di Luján e che egli stesso trasmette in questo modo: “Quando nacque mio fratello maggiore, mia madre era molto malata, diceva sempre: ‘Come Cristo sulla croce’. Mentre era in quelle condizioni, i missionari vennero a predicare una missione a Nueve de Julio; la visitarono, dissero a mio padre di andare a Luján con il primo treno che poteva prendere e di chiedere ai Padri della Basilica del cotone idrofilo intinto nella lampada che arde davanti alla Madonna; mio padre lo fece, tornò subito e strofinò quell’olio su mia madre; lei cominciò a recuperare la salute e a stare perfettamente bene. Il medico le disse che non poteva avere altri figli perché sarebbe certamente morta. Passò monsignor Alberti, vescovo ausiliare di La Plata, e mia madre andò a confessarsi da lui e gli raccontò il caso. Monsignore le disse: ‘Signora, anche i medici possono sbagliare, abbia fiducia nel Signore; ora vado a celebrare la Messa all’altare di Nostra Signora di Luján per lei’. Mia madre ha vissuto fino a 82 anni, ha avuto 22 figli e io sono l’ultimo”.

Qual è stato il suo contributo alla Chiesa in Argentina e in tutto il continente nel periodo postconciliare?
Il suo contributo alla Chiesa in Argentina e in America Latina nella ricezione del Concilio Vaticano II è stato decisivo e significativo. La conferenza di Medellín è stata una ricezione profetica e creativa, incarnata nella realtà dei popoli latinoamericani e della Chiesa cattolica, che ha guardato alla situazione storica del continente e alla necessità di trasformazione e sviluppo. Pironio ha avuto un ruolo chiave, sia nella preparazione che nello sviluppo della Conferenza di Medellín, che ha definito un evento salvifico e una nuova Pentecoste per la Chiesa in America Latina. È stata l’incarnazione del Concilio in quel continente, sancita dalla storica presenza di San Paolo VI, che, ricevendo e approvando le conclusioni dalle mani di Mons. Pironio, ha detto che si trattava di “un vero monumento storico della Chiesa in America Latina”. Si può dire che contemplazione e azione, mistero pasquale e storia, siano stati anche la chiave della sua acuta percezione e riflessione sulla liberazione.

Padre Bergoglio conosceva direttamente il vescovo Pironio. Ricorda qualche situazione?
Pironio era vescovo di Mar del Plata e Jorge Mario Bergoglio superiore provinciale dei gesuiti. Bergoglio è stato prima vescovo ausiliare, poi coadiutore e successore del cardinale Antonio Quarracino, con il quale il neo beatificato aveva una stretta amicizia di oltre 60 anni. Il Papa stesso ricorda questo rapporto e oserei dire che si è sempre riferito a Pironio ammirando il temperamento spirituale del cardinale nelle situazioni difficili che ha vissuto nel suo ministero.

Possiamo dire che la sua visione della Chiesa è simile a quella di Papa Francesco?
La visione ecclesiale di questi due pastori è quella del Concilio Vaticano II e si concretizza in America Latina. Per il cardinale Pironio la Chiesa è sempre stata un mistero di comunione missionaria, la Chiesa che nasce dalla Pasqua e dalla Pentecoste, che si vive in comunità celebrative ed evangelizzatrici, “oranti, fraterne, missionarie” e che sanno leggere e discernere i segni dei tempi. Papa Francesco condivide questa visione e la attualizza nell’Evangelii Gaudium, e nelle immagini di un “ospedale da campo”, di una Chiesa “in uscita”, cioè missionaria. Li accomuna “la dolce e confortante gioia di evangelizzare” di san Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi.

Nell’ultima parte della sua vita ha lavorato in Vaticano, vicino al Papa. In particolare, è considerato il “padre” della Gmg… Qual è stata l’importanza di questo servizio?
Nel 1984 Giovanni Paolo II lo nominò presidente del Pontificio Consiglio per i Laici e gli disse: “Si ricordi, eminenza, che le affido la parte più grande e più sana della Chiesa”. L’intuizione profetica di San Giovanni Paolo II nel creare le Giornate mondiali della gioventù ha trovato il suo architetto nel cardinale Pironio. La sua vicinanza ai giovani è stata evidente fin dall’inizio della sua vita sacerdotale. I giovani percepivano la trasparenza del messaggio evangelico e la forza della sua testimonianza, sentivano la sua paternità e l’amore che aveva per loro. Ha armonizzato sensibilità, stili, linguaggi, sempre con la centralità di Gesù Cristo e la presenza del Santo Padre. È stato un amico di Dio per i giovani, un profeta e un testimone gioioso della speranza.

(*) giornalista de “La Vita del popolo”

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Marcia Perugia-Assisi: in cammino per condannare tutto ciò che è violenza e guerra

Lun, 11/12/2023 - 14:40

È un impegno che va oltre l’ordinario quello che il popolo della pace della marcia Perugia-Assisi mette in campo in un momento drammatico e – per molti versi – anche catastrofico a causa dei conflitti attivi nel mondo, specie quelli russo-ucraino e israelo-palestinese.
Nella data che ricorda il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti umani – era il 10 dicembre 1948 -, la Fondazione PerugiAssisi e la coalizione “Assisi Pace Giusta” hanno organizzato l’incontro nazionale dei costruttori e delle costruttrici di pace, alla Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli, accanto alla Porziuncola assisana. Apre la mattinata l’intervento di Flavio Lotti, uno dei promotori della giornata. Il suo pensiero va al 1989 e al ricordo dell’iniziativa Time for Peace che aveva portato a Gerusalemme circa
1.400 europei, italiani e americani per realizzare una grande catena umana con 30 mila israeliani e palestinesi che, tutti insieme, si sono dati la mano lungo le mura della città santa.

“Quelli che stiamo vivendo ora sono giorni davvero tristi – ha detto Lotti con la voce rotta dalle lacrime -, giornate spaventose e terrificanti. Lavorare per la pace è sempre stato difficile, ma oggi lo è ancora di più in questo stato di guerra e di forte polarizzazione.
Nessuno spazio di riflessione, solo grida, urla, scontri, censure, attacchi alle iniziative non violente, e poi nascondimento, sequestro, deformazione e falsificazione della realtà. Noi oggi siamo qui perché non vogliamo perdere la speranza e non vogliamo permettere che uccidano anche quella che ancora ci rimane”.
Sono tanti gli interventi che si avvicendano l’un l’altro, a cominciare dal collegamento da Gerusalemme con Andrea De Domenico, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari umanitari nei territori palestinesi occupati. Dopo la sua ricostruzione della situazione attuale a Gaza e in Cisgiordania, prendono il via racconti, pareri, opinioni e slogan: tutti nella direzione del sostegno alla pace e degli appelli per fermare guerre e violenze. Decine di volti, di testimonianze e di storie dal mondo delle associazioni, delle organizzazioni non governative, della politica e del sindacato, degli enti locali e della Chiesa, come don Luigi Ciotti, padre Alex Zanotelli e in collegamento dal Kenya, padre Renato “Kizito” Sesana.

In collegamento da Dubai, dove sta seguendo la conferenza sulla crisi climatica Cop 28, interviene la sindaca di Assisi, Stefania Proietti, per ribadire ancora una volta che guerre, clima e migrazioni sono connesse fra loro. “Stiamo vivendo – dice – una tragedia dell’unica famiglia umana. Non ci sono differenze tra i bambini uccisi e decapitati dai terroristi o morti sotto le bombe e le macerie. Dobbiamo indignarci, alzarci in piedi e marciare. Insieme a Papa Francesco, condanniamo tutto ciò che è violenza e guerra. Oggi per parlare di pace ci vuole coraggio, come quello che avete tutti voi che siete oggi ad Assisi”.
Il giornalista, già direttore di Avvenire, Marco Tarquinio torna sul campo della comunicazione su guerra e pace. “C’è un problema informativo in questo Paese, specie su questi temi. La pace si costruisce sul riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina. La nostra Italia ha una storia precisa e preziosa sulla questione mediorientale ma oggi l’Italia si astiene. E allora, c’è da ricostruire un pensiero, perché è stato picconato e distrutto, a cominciare dalle informazioni che facciano crescere una consapevolezza collettiva su ciò che sta accadendo sulla terra. Russia-Ucraina e Israele-Palestina sono due facce dello stesso problema, quello di dividere il mondo in due blocchi. Quando uno accetta la guerra, alla fine si adegua a essa e vincono le ragioni irrazionali e irragionevoli della guerra, come accade quando non si vota all’Onu il cessate il fuoco. Sulla terra noi abbiamo globalizzato il mercato, ma non i diritti dei popoli e delle persone”.
Chiusa la conferenza partecipativa del mattino, il popolo della pace si mette in cammino di nuovo, a poco più di sei mesi dalla marcia Perugia-Assisi del maggio scorso. Stavolta i passi dei costruttori di pace e fraternità coprono solo la distanza tra la basilica della Porziuncola e quella del Sacro Convento sulla tomba di san Francesco.
Lungo la salita della “mattonata” e nell’ultimo tratto verso il centro di Assisi, la fatica e il fiatone di chi cammina sembrano l’“icona”
della sofferenza di chi trova muri insormontabili sulla via del cessate il fuoco, in Ucraina, a Gaza e in decine di altri angoli del mondo. Alla “bandiera arcobaleno” che traccia il percorso si affiancano e seguono decine e decine di cartelli: tanti sono neri come la guerra e la distruzione e riportano la scritta “cessate il fuoco”. Sia alla partenza sia all’arrivo del corteo, si susseguono gli appelli perché le armi possano fermarsi. Tra questi, ci sono anche le parole accorate di padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia francescana di Terra Santa. Da settimane ripete, a ogni occasione, che il momento attuale è il più drammatico negli ultimi decenni, peggiore pure dell’assedio alla basilica della Natività del 2002, che lui ha vissuto in prima persona.
La marcia assisana del 10 dicembre si chiude con la messa nella chiesa inferiore della basilica di San Francesco. “Giustizia è assicurare – sottolinea nella sua omelia fra Marco Moroni, custode del Sacro Convento
– che ogni fratello e sorella nel mondo abbia il necessario per una vita dignitosa e sicura, che possa accedere alle risorse, alle cure, all’istruzione, alla possibilità di lavorare e di riceverne un salario equo per mantenere se stessi e la propria famiglia. Nel mondo odierno l’esistenza dei poveri non si può considerare una fatalità, ma è piuttosto una responsabilità di tutti. Finché vi saranno uomini e donne considerati degli scarti, rifiutati, non accolti, non vi sarà giustizia e sarà impossibile la pace”.

 

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Missionari. P. Albanese: “Valore aggiunto della società italiana, ma è necessario un sussulto di missionarietà”

Lun, 11/12/2023 - 11:43

Sono chiamati a rimboccarsi le maniche per servire la persona nei luoghi più impervi. Ai missionari italiani, presenti in ogni angolo del mondo, è stata dedicata una conferenza presso il Ministero degli esteri e della cooperazione internazionale, intitolata “La persona al centro”. Tante le testimonianze portate da parte di coloro che ogni giorno toccano con mano i bisogni delle popolazioni. “Il carisma che ci ha dato don Orione è dare la carità dove c’è bisogno”, racconta al Sir suor Mabelle Spagnolo, superiora generale delle Piccole Suore Missionarie della Carità e vice presidente dell’Unione superiore maggiori d’Italia. Le opere della congregazione sono diffuse in venti nazioni, in quattro continenti. “L’ultima – dice – è stata aperta in Indonesia, in un posto dove nessuno voleva andare. Ci dedichiamo alle scuole, ai servizi per i disabili, alla promozione della donna, agli ospedali e ai dispensari in Africa. Ovunque, dove c’è bisogno. In Africa, in particolare, si deve partire dalle cose elementari per vivere”. Per suor Mabelle, nata in Argentina da una famiglia di emigrati calabresi, ma da 25 anni in Italia, l’essere missionari è cambiato, certamente oggi è più diretto alla umanizzazione: “Il Vangelo è umanizzazione, è dare dignità alle persone”.

Anche per il segretario generale della Pontificia Unione, padre Dinh Anh Nhue Nguyen, lo spirito che muove oggi i missionari è volto a far “crescere nei battezzati locali la loro stessa responsabilità missionaria. Insieme a loro conduciamo la missione di evangelizzazione”. Le quattro opere pontificie cercano di rispondere ai bisogni di tutte le età:

“Siamo chiamati – spiega – a promuovere la responsabilità missionaria di ogni battezzato nella Chiesa, anche per il sostegno delle Chiese particolari. Le nostre attività si concentrano sull’animazione, la formazione e l’informazione missionaria. Cento anni fa, le opere hanno fondato l’agenzia di notizie Fides che segue tutti i missionari nel mondo”.

Della sua esperienza decennale come religioso e medico, parla frate Lorenzo Priuli dell’ordine del Fatebenefratelli, in videocollegamento dal Benin. “Da 25 anni lavoro nello stesso ospedale a Nord del Paese. Quello che ho fatto fino ad oggi è meraviglioso perché è stato un dono per la povera gente”, afferma. “L’ospedale quando è stato inaugurato contava 80 letti, mentre oggi 450. Ci sono stati incontri miracolosi, mi sono state presentate delle opportunità. Nel 1979 – ricorda – abbiamo avuto un’epidemia di morbillo che ha ucciso in quattro mesi 5mila bambini. Abbiamo perciò aperto la pediatria, fino ad allora inutile perché la gran parte dei bambini era curata dai guaritori locali. Non esisteva nemmeno la maternità, mentre oggi ci sono quattro postazioni per il parto e 60 posti letto”. Il religioso riconosce come in più di 50 anni di lavoro il rapporto con la popolazione sia mutato: “all’inizio ci aspettavamo che il malato arrivasse mentre ora andiamo incontro alla persona”. Nonostante gli sforzi, la mortalità post partum nel Paese resta alta, infatti, lo scorso anno sono morte 40 donne. Fra Lorenzo, a questo proposito, ricorda un progetto avviato da poco che consente a coloro che stanno per partorire di essere trasportate in ospedale con un contribuito economico minimo.

Il futuro dei centri sanitari in Benin è ancora incerto: “Si fa fatica a pagare gli stipendi e le fatture più urgenti dei farmaci. Lo Stato locale ci dà un pochino, l’Italia non è stata molto presente, mentre abbiamo ricevuto aiuti dalla Francia. Quando sono arrivato in Africa, eravamo in sette. Oggi siamo solo due italiani ma ci sono 54 frati africani, impiegati nel campo medico a tutti i livelli. Il futuro è nelle loro mani. Contiamo 350 collaboratori fra i quali ci sono 6 medici specializzati. Oltre all’ospedale abbiamo promosso 26 centri che hanno fatto diminuire la mortalità anche se accade ancora che le donne arrivino con i bambini sulla schiena già morti”.

Del calo dei missionari parla anche padre Giulio Albanese, sacerdote, giornalista, missionario comboniano e direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi di Roma. “Il missionario rappresenta il valore aggiunto della società italiana, non solo della Chiesa”, afferma ricordando che fino agli anni novanta i missionari italiani fossero circa 24mila mentre oggi sono 6mila. “C’è però la crescita del laicato – osserva -. I laici che appartengono alle associazioni sono circa 2000, mentre nel ‘90 erano circa 800. È evidente che c’è una costante decrescita che riguarda gli ordini. È necessario un sussulto di missionarietà. Lo dico guardando le nostre comunità ecclesiali ma anche perché se oggi c’è qualcosa che viene apprezzato nel nostro Paese è la testimonianza dei nostri missionari. Alcuni di loro sono caduti. Molti di loro non sono morti per un odio nei confronti della loro fede, ma sono stati uccisi perché hanno fatto la scelta di stare dalla parte degli ultimi”.

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“Jesolo Sand Nativity”, la XXI edizione del presepe di sabbia più famoso al mondo sulle orme di Francesco

Lun, 11/12/2023 - 11:42

A ottocento anni dal presepio di San Francesco a Greccio torna “Jesolo Sand Nativity”, la XXI edizione del presepe di sabbia più famoso al mondo sulle orme di Francesco D’Assisi. Dal 2002, infatti, la città di Jesolo ospita il Sand Nativity, una maestosa esposizione di sculture in sabbia realizzate dai migliori artisti provenienti da tutto il mondo. L’importanza della manifestazione e l’apprezzamento da parte del pubblico l’ha portata ad essere uno dei presepi più famosi in Italia e all’estero, tanto da essere ospitato in piazza San Pietro nel Natale 2018. Papa Francesco si emozionò e disse: “Che meraviglia!”. Quello che caratterizza la mostra artistica è la tematica che ogni anno viene conferita all’evento, che arricchisce la tradizionale rappresentazione della Natività. Dopo le edizioni dedicate alle opere di misericordia, agli Esodi nella Bibbia (con riferimento al fenomeno delle migrazioni contemporanee), e al tema della Pace, quest’anno il Sand Nativity ha scelto di celebrare gli 800 anni dal primo presepe rappresentato da San Francesco a Greccio.

“La tradizione popolare cristiana – si legge nella nota di presentazione – considera quello di Greccio il primo presepio, nel 1223. È dunque alla grandezza di questo Santo (anche Patrono d’Italia) che Jesolo dedica il suo presepio di sabbia 2023. Lo fa in modo straordinario: sia a Jesolo con sculture che ricordano gli episodi più significativi della vita di Francesco. Sia ad Assisi, il luogo dove nacque e dove riposano le sue spoglie, nella piazza antistante la basilica inferiore, con una Natività monumentale che omaggia l’ispirazione di Francesco a Greccio. Le sculture sono realizzate con la sabbia dorata del litorale veneto e saranno scolpite da artisti provenienti da diverse parti del mondo”.

L’iniziativa è stata resa possibile grazie all’intesa tra l’amministrazione comunale e i frati del Sacro Convento di Assisi. L’accordo è stato pubblicamente sancito il 24 giugno, in occasione della Festa patronale di Jesolo.

 

Gli artisti sono complessivamente 14, scultori professionisti che rappresentano gli episodi più significativi della vita di Francesco D’Assisi. Inoltre, la mostra di sculture di sabbia “è ulteriormente impreziosita da una imponente scultura lignea, opera dell’artista Marco Martalar. L’opera, intitolata ‘Il Grido’ e realizzata nel 2021, incarna il grido dei boschi martoriati dalle raffiche di vento della tempesta Vaia che ha colpito l’altopiano di Asiago nel 2018. Realizzata con scarti boschivi di abete rosso e sfridi di faggio rappresenta una mano protesa verso l’alto nel tentativo di personificare il valore dei materiali che la compongono, già naturalmente protesi a riacquistare nuove forme e proseguire il ciclo naturale dell’esistenza”. La manifestazione dal 2004 è associata anche a diversi progetti benefici. La generosità dei visitatori fa raccogliere ogni anno risorse che vengono devolute ad associazioni con fini umanitari; fino ad oggi sono stati raccolti e devoluti più di 900 mila euro in progetti umanitari in tutto il mondo. L’inaugurazione di Jesolo Sand Nativity è avvenuta sabato 2 dicembre, mentre quella di Assisi l’8 dicembre.

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Società, i giovani meritano un’Italia migliore e solo con loro l’Italia può migliorare per tutti

Lun, 11/12/2023 - 10:19

L’Italia negli ultimi decenni sembra aver, di fatto, disinvestito dal punto di vista quantitativo e quantitativo sulle nuove generazioni.

La combinazione tra basso peso demografico (ed elettorale) e difficoltà a farli percepire soggetti attivi nella società e nel mondo del lavoro spiega perché nell’indagine del Rapporto Censis 2023 risultano soprattutto i giovani a sentire più incertezza nei confronti del futuro (65,3% nella fascia 18-34 anni contro 52,3% per chi ha 65 anni e oltre), ma anche di contare poco nel presente (rispettivamente nelle due fasce d’età: 61,4% e 49,8%).

I due aspetti sono fortemente interdipendenti e strettamente legati agli squilibri generazionali (aggravati dall’enorme debito pubblico). Questi squilibri, da un lato, frenano anche la possibilità di diventare autonomi dalla famiglia di origine e, dall’altro, spingono ad andare lontano, a cercare opportunità in altri Paesi. Una situazione ancora più accentuata nel Mezzogiorno come evidenziato nell’ultimo Rapporto Svimez.

Il rischio è che l’Italia diventi un Paese in cui si rinuncia ad avere figli o ci si ferma al figlio unico con la prospettiva di aiutarlo a trovare un futuro altrove, magari facendolo già studiare all’estero per le famiglie più benestanti. Mentre chi ha meno risorse socio-culturali e incautamente ha figli si troverà con meccanismi di mobilità sociale sempre più arrugginiti.

Alcuni segnali positivi per sperare che questa profezia negativa non si autoadempia ci sono: uno sull’investimento del Paese per il potenziamento del ruolo dei giovani, l’altro sull’intraprendenza dei giovani nei processi di miglioramento del Paese.

Il primo è costituito dal fondo Next generation Eu che, come promette il nome, dovrebbe essere orientato a rafforzare soprattutto la condizione dei giovani. Il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) che utilizza tali fondi deve dimostrare di mettere le basi di una fase nuova che metta al centro le competenze delle nuove generazioni per la transizione verde e digitale, migliorando nel contempo tutti gli snodi della transizione scuola-lavoro e della transizione alla vita adulta.

Il secondo è l’aumento della consapevolezza dei giovani della necessità di agire collettivamente per migliorare ciò che non funziona anziché adattarsi al ribasso. Lo dimostra la voglia di farsi sentire e l’impegno verso i grandi temi del proprio tempo, come quello del riscaldamento globale. Ma anche su temi più specifici, come la protesta sul costo degli affitti partita da una studentessa (con una tenda piantata davanti al Politecnico di Milano) diventata poi collettiva. Se fino a qualche anno fa la reazione era quella individuale di pesare ancor più sui genitori o rinunciare a studiare, questo episodio sposta la questione sul piano generale. La convinzione che muove la protesta è che, per gli squilibri in cui si trova, l’Italia dovrebbe ancor più e meglio degli altri Paesi garantire le condizioni di alta formazione e di autonomia alle nuove generazioni. Coerente con questo approccio è anche il caso ancor più recente del ragazzo di 17 anni che guida la protesta contro i ritardi sistematici dei treni locali, alla cui base sta la non rassegnazione a trovarsi costretto dalle inefficienze di sistema ad arrivare continuamente in ritardo a scuola pur alzandosi presto la mattina.

Questi giovani meritano un’Italia migliore e solo con loro l’Italia può migliorare per tutti.

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Parlamento europeo, sei mesi al voto. La parola torna ai cittadini

Lun, 11/12/2023 - 10:19

La legislatura dell’Europarlamento, iniziata nel 2019 e che volge al tramonto, è stata segnata da Brexit, Covid e, ora, la guerra in Ucraina. Nella prossima, che prenderà avvio dopo le elezioni del giugno 2024, rimarranno alcune questioni ereditate dal passato e mai efficacemente affrontate (fra cui le migrazioni), mentre diverranno ancora più urgenti tematiche come il cambiamento climatico, la sicurezza energetica, l’attuazione di NextGenerationEu, la difesa del welfare e dei diritti dei cittadini, le instabilità geopolitiche, la rivoluzione digitale, l’impatto dell’intelligenza artificiale. Anche per queste ragioni, il voto popolare per il rinnovo dell’Euroassemblea assumerà una valenza ancora maggiore rispetto al passato, auspicando che l’Ue possa essere una grande democrazia, finalmente protagonista sulla scena mondiale. Se ne è parlato martedì 5 dicembre a Bruxelles, durante una conferenza stampa a sei mesi dal voto per il rinnovo dell’emiciclo comunitario.

(Foto SIR)

Lo slogan. “Go to vote”: sarà questo lo slogan della campagna di informazione, che decollerà a gennaio, predisposta dallo stesso Parlamento europeo per invitare oltre 400 milioni di cittadini a recarsi alle urne, tra il 6 e il 9 giugno, per rinnovare l’Assemblea di Strasburgo, che nella prossima legislatura conterà su 720 seggi, 15 in più degli attuali. Lo ha riferito Jaume Duch (nella foto), responsabile della comunicazione dell’istituzione comunitaria, illustrando gli strumenti e le azioni che saranno predisposte per invogliare gli europei a recarsi ai seggi ed evitare un’eccessiva astensione. Duch ha asserito che “sta crescendo l’interesse” per le elezioni europee, che si terranno in un anno elettorale “mondiale”: nei prossimi 12 mesi, infatti, si voterà in una trentina di Paesi nei cinque continenti, fra cui India e Stati Uniti.

Sistemi elettorali. I cittadini dell’Unione che avranno diritto al voto per l’elezione del nuovo Parlamento europeo saranno appunto 400 milioni circa. Si tratterà “di 27 elezioni nazionali”, nel senso che ciascun Paese, entro un quadro normativo minimo, potrà scegliere il sistema elettorale, fissare i collegi elettorali, definire oppure no una percentuale minima affinché un partito possa accedere alla ripartizione dei seggi nazionali. In 13 Stati si potrà votare anche per posta; in 5 (Germania, Belgio, Grecia, Austria, Malta) si potrà esprimere la propria preferenza già all’età di 16 anni.

Legislatura intensa. Prima delle elezioni europee del 6-9 giugno (in Italia si voterà nella sola giornata di domenica 9) sono previste 5 sessioni plenarie dell’Europarlamento a Strasburgo più una a Bruxelles. Jaume Duch ha ricordato che nel corso di questa legislatura sono stati approvati 236 dossier legislativi, mentre altri 150 sono in itinere e attendono una conclusione. “È stata una legislatura intensa – ha dichiarato Duch –. Il Parlamento europeo, nel frattempo, ha aumentato la sua visibilità, e la sua credibilità”, generando inoltre “un aumento delle aspettative fra i cittadini europei”. Anche per questa ragione non si esclude che l’affluenza alle urne nel 2024 possa essere più elevata rispetto a quella del 2019, specialmente nei Paesi dell’Europa centro-orientale e in Grecia.

Dopo il voto. La campagna di informazione predisposta dal Parlamento per invitare al voto si concentrerà sulla spiegazione di ciò che ha fatto l’Assemblea nella legislatura che si va chiudendo (normative approvate, risoluzioni, decisioni utili per i cittadini…) e sul suo profilo istituzionale (composizione, competenze…); inoltre se ne sottolineerà il contributo alla costruzione e difesa della democrazia nel continente. Saranno messi a disposizione dei cittadini diversi materiali (web, cartellonistica, gadgets, incontri pubblici…) Dopo il voto, a risultati acquisiti, il Parlamento europeo si ricostituirà tra giugno e luglio e la prima sessione plenaria, a Strasburgo, sarà tra il 16 e il 19 luglio quando verrà eletto il nuovo presidente dell’Assemblea. Probabilmente nella sessione di settembre, dopo un dialogo politico con il Consiglio europeo (riunione dei capi di Stato e di governo dei Paesi Ue), potrebbe essere votato il nuovo presidente della Commissione Ue.

 

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Svegliare i sonnambuli

Sab, 09/12/2023 - 11:00

Ci è sempre stato detto che svegliare i sonnambuli può essere cosa pericolosa. Eppure potrebbe essere proprio questa la vocazione della Chiesa in questi nostri giorni. Attenzione, però, non diamo prima di tutto per scontato di essere svegli noi stessi. Secondo il rapporto Censis 2023 che, pubblicato la scorsa settimana, fotografa il nostro Paese nei tratti e negli indicatori che caratterizzano il vissuto sociale, culturale ed economico degli italiani, saremmo infatti una “società di sonnambuli”, individui che vagano addormentati alla ricerca di un po’ di felicità nelle piccole cose quotidiane, abitati da “desideri minori, a bassa intensità”. Persone che più non osano sognare in grande, né credere in un futuro migliore che giustifichi impegno, fatica o sacrificio per degli ideali.

Di buono sembra esserci finalmente il frantumarsi dell’illusione consumistica, quell’idea secondo cui la felicità risiederebbe nel comprare e nel consumare, che per tanto tempo ci ha tenuto in ostaggio e contro cui invano i buoni parroci hanno tuonato, inascoltati, dai pulpiti. Gli italiani sembrano oramai per la maggior parte essersi fatti convinti che non si può vivere per lavorare, guadagnare, comprare e consumare, tornando poi a lavorare per ancora guadagnare e comprare, in un ciclo senza fine, simile a quello dello sventurato Sisifo incatenato alla sua pietra. Cresce il numero di coloro che desiderano liberare tempo per le relazioni e per i propri interessi e passioni personali, rinunciando a posizioni lavorative apicali, accontentandosi magari di un reddito minore, pur di ridurre lo stress, l’ansia e le preoccupazioni. Quasi il 75% dei lavoratori ha dichiarato esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più. Il lavoro sembra, inoltre, aver perso anche il suo significato più profondo di costruttore dell’identità personale e perno della vita sociale. Per la quasi totalità degli intervistati la scelta di fare del lavoro il centro della propria vita e il principale fattore di definizione della propria identità sarebbe un errore: meglio trovare il proprio benessere e la propria realizzazione nelle piccole cose quotidiane, nell’intimità delle relazioni più strette, nelle passioni individuali, rispetto alle quali il tempo dedicato al lavoro risulterebbe solo una sorta di pedaggio da pagare.  Ma se “accontentarsi” può essere certo una virtù quando è riferita ai beni materiali (il “pauca vescor” della temperanza), questo atteggiamento di retroguardia rischia di portare, quando riguarda invece i valori, gli ideali e l’impegno sociale, ad un pericoloso ripiegamento sul privato, ad un piccolo cabotaggio ottuso, ad una rassegnazione tutt’altro che cristiana. Si spengono i desideri, non si crede più nella forza dei sogni, spariscono le visioni del futuro, limitandosi a rispondere nell’oggi ad alcuni bisogni elementari e ad inseguire qualche rara e fuggevole briciola di felicità.  Il Censis afferma che dopo il tramonto del modello consumistico, la pandemia e nell’insicurezza dettata dalla paura per un possibile conflitto globale, sarebbe dunque in atto tra gli italiani un “ripensamento diffuso del senso della vita e delle cose importanti a cui dedicare le proprie energie”. E allora, pur nella consapevolezza dell’ambiguità di tale fenomeno, vien spontaneo chiedersi se non potrebbe essere in realtà questo anche un terreno fecondo per la rinascita della fede e della pratica religiosa tra gli uomini e le donne di oggi. Certo molto dipenderà dalla qualità della risposta che la Chiesa nel suo insieme e che ogni singolo cristiano saranno in grado di dare, soprattutto nei termini di una concreta, convinta e credibile testimonianza di vita.

(*) direttore de “La Voce dei Berici”

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Il discorso del papà di Giulia, un monito alto per tutti

Sab, 09/12/2023 - 10:54

Dalla basilica di Santa Giustina a Padova, che ha ospitato i funerali di Giulia Cecchettin, è arrivata una lezione di vita e di umanità. La voce composta del padre della giovane assassinata dall’ex fidanzato resta nel cuore. Il ministro dell’Istruzione ha inviato una circolare a tutti i presidi – dopo la proposta avanzata dal presidente della Regione Veneto Luca Zaia – chiedendo che il testo dell’intervento venga letto nelle scuole di tutta Italia e che i docenti ne discutano con gli studenti. Nel discorso di papà Gino nessuna condanna. Da un lato, invece, una confessione sulla «pioggia di dolore» che ha travolto la famiglia in queste settimane e sul ritratto della figlia, definita «una combattente»; dall’altro – ed è la parte più corposa del suo intervento – una parola alta sul femminicidio e sulle responsabilità legate al fenomeno sempre crescente.

È un appello innanzitutto agli uomini, come di rado se ne sentono; a non minimizzare la violenza. Perché, è vero, in queste settimane abbiamo sentito di tutto, che a volte mancano i segnali, che ci troviamo di fronte a “bravi ragazzi”, ma quando al contrario i segnali esistono, c’è il rischio di ignorarli. A volte, il demone della violenza è in agguato già da adolescenti, di fronte a quelle che si tende a liquidare come “cose da ragazzi”, perché la dimensione educativa naufraga spesso nello stereotipo, nell’approccio a modelli lontani da una sana relazione con gli altri, nell’incapacità di accettare le fragilità.

Gino, il papà di Giulia, arriva al cuore del problema – «risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne» – e delle persone. Parla di valori che sembrano ormai calpestati quotidianamente, come il rispetto della sacralità di ogni persona, una sessualità libera da ogni possesso, l’amore vero che cerca solo il bene dell’altro. È toccato nel profondo da questa «pioggia di dolore ma porta nel cuore la saggezza antica di chi crede nella possibilità di riscatto dell’uomo, in «una spinta per il cambiamento». Sapendo però che occorre sentirsi «tutti coinvolti, anche quando sarebbe facile sentirsi assolti» (e qui viene alla mente la celebre canzone di Fabrizio De André).

Davvero tutti. I padri innanzitutto, «non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi», durante un episodio a scuola o in una serata tra amici: non è più tempo di autoassoluzioni frettolose e di ambigue tendenze a ridimensionare. La scuola, appunto, perché la prevenzione della violenza contro le donne inizia sì in famiglia, ma prosegue in quelle aule dove la relazione umana è il pane quotidiano per docenti e studenti.

I media, perché operino con responsabilità, in un panorama dove purtroppo domina il sensazionalismo e la ricerca del morboso, e basta sintonizzarsi su qualche programma televisivo del pomeriggio o della sera per rendersene conto. La tecnologia, grande opportunità per connetterci ma che spesso, ha detto il papà di Giulia, «ci isola e ci priva del contatto umano reale», e per questo è necessario ritrovare la capacità di ascoltare l’altro e di essere ascoltati. Le istituzioni politiche, perché affrontino «unitariamente il flagello della violenza di genere», senza dividersi su un tema così prioritario.

La figura del padre, custode e testimone autorevole, si staglia così in modo limpido. Il monito è alto per tutti coloro che abbiano la capacità di ascoltare e di interrogarsi sul proprio registro educativo. Il pensiero del papà di Giulia è qui, in questa consapevolezza piena del significato di una “vita buona” e in quella speranza feconda che – come seme del sacrificio della figlia – ha indicato alle migliaia di presenti alla celebrazione. Il “rumore” delle chiavi e dei campanelli all’uscita del feretro è già un segnale. Dopo l’esempio di questo padre, niente più silenzi.

(*) direttore di Roma Sette

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Il Presepio e la genuinità della fede

Sab, 09/12/2023 - 10:16

In Avvento, ha un significato unico e profondo e dà forma tangibile alla nostra attesa del Natale la preparazione del Presepio. Una tradizione che proprio quest’anno festeggia un anniversario importante: sono, infatti, trascorsi esattamente 800 anni da quel Natale del 1223, in cui Francesco d’Assisi, reduce dalla Terra Santa, vide nelle grotte del paesino laziale di Greccio una somiglianza con Betlemme e manifestò il geniale desiderio di rievocare tangibilmente in quel luogo la nascita di Gesù.

Già il 1° dicembre 2019, Papa Francesco, in occasione della sua visita al Santuario di Greccio, ci ha donato una breve quanto intensa lettera apostolica (Admirabile signum), in cui incoraggia i nonni, i genitori e tutte le famiglie a tenere vivo questo “esercizio di fantasia creativa” che è allestire il presepe: Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta a immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali. In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. (cfr. n.3).

In molti borghi e presso non poche parrocchie si usa ancora organizzare presepi viventi secondo l’intuizione francescana e così “vedere con gli occhi del corpo i disagi” (questa l’espressione dell’assisiate) in cui si è trovato Gesù appena nato, ma è con lo stesso spirito che milioni di famiglie nel mondo in questi giorni preparano il loro presepe che inevitabilmente sarà diverso da ogni altro presepe eppure rievoca lo stesso evento di salvezza di un Dio che si fa uomo in un bambino avvolto in fasce, in una mangiatoia. In latino “mangiatoia” si dice proprio presepio e ciò richiama, oltre che al mistero dell’Incarnazione a quello strettamente connesso dell’Eucarestia. Già a Betlemme, la “casa del pane”, scorgiamo la volontà di Dio che il Figlio si doni a noi con il suo corpo: quanta profondità di mistero! Eppure la rappresentazione plastica del presepio si affianca a questa verità teologica attraverso la bellezza e lo stupore, vie privilegiate per i cuori e le menti più semplici. In ogni casa in cui ci siano dei figli ancora piccoli, o degli adulti che si ricordino di essere stati bambini, tutti sanno dov’è riposto l’occorrente per l’allestimento messo via con cura un anno prima. Possono essere antichi e monumentali, dal grande valore artistico o moderni e simbolici… Si differenziano i materiali, gli sfondi, le scenografie, i modi di riprodurre il cielo stellato; le statuine mutano di foggia a seconda delle città e delle nazioni, sono tante o poche, rappresentano la sacra famiglia, gli angeli, i pastori, ma anche tanti uomini e donne intenti nelle più diverse attività quotidiane…

Attraverso il presepe, di generazione in generazione si trasmette la genuinità della fede in quell’evento di salvezza sempre nuova: Gesù viene nelle nostre case, così come noi andiamo da lui, immedesimandoci chi in uno, chi in un altro dei tanti personaggi che nella nostra rappresentazione si avvicinano a quel bambino appena nato. Tutte le case in cui un presepe, con le sue piccole luci, attrae l’attenzione di chi entra, divengono davvero chiese domestiche ed è bello fermarsi per almeno qualche secondo di contemplazione. Quel manufatto è il frutto della collaborazione di tutti e anche chi dispone una pecorella in ultima fila dà un contributo che ha il suo valore! Il presepio ci comunica la verità di un Dio che nel nascondimento, senza clamore, continua a tessere i fili della storia e infonde fiducia anche nell’uomo più scoraggiato. Avvicinandosi a quel bambino nella mangiatoia, con le parole poetiche di don Angelo Casati “è come se il buio non fosse più buio”.

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I numeri della preoccupazione sui cambiamenti climatici

Sab, 09/12/2023 - 10:08

A Dubai, il vertice mondiale sui cambiamenti climatici tira le somme sull’attuazione degli impegni presi a Parigi nel 2015. I risultati sono pressoché scontati: si sono fatti dei progressi, ma non abbastanza da scongiurare il pericolo di un ulteriore innalzamento delle temperature – entro sei anni – superiore a 1,5°C (obiettivo concordato dagli stati partecipanti al vertice). Rimane in atto il pressante allarme degli scienziati: se il riscaldamento superasse i 2°C, il mondo andrebbe incontro a cambiamenti catastrofici, tra cui estremi di caldo pericolosi per la vita, peggioramento delle tempeste e degli incendi, fallimenti dei raccolti, accelerazione dell’innalzamento del livello del mare e minacce esistenziali per alcune comunità costiere e piccole nazioni insulari.
La posta in gioco, con tutta evidenza davvero alta, può essere riassunta in una sorta di “istantanea”: dieci numeri che delineano l’attuale stato di salute del nostro pianeta (e degli sforzi globali per il clima).

1) 1,3°C: riscaldamento globale dall’era preindustriale
Questo primo e significativo innalzamento delle temperature è l’effetto della rivoluzione industriale e della diffusa e massiccia combustione dei combustibili fossili, iniziate già nel XIX secolo (a partire dagli anni ’70). A detta degli esperti, si tratta dell’aumento più rapido di temperature globali da almeno 2000 anni.

2) 4300 miliardi di dollari: l’ammontare delle perdite economiche globali dovute a disastri climatici dal 1970
L’aumento delle temperature provoca disastri ambientali ad esso collegati. Le ondate di calore si intensificano, i cicloni tropicali si rafforzano, le inondazioni e la siccità diventano sempre più gravi e gli incendi selvaggi aumentano. I danni conseguenti generano un costo economico enorme, oltre alla perdita di vite umane (negli ultimi 50 anni, migliaia di miliardi di dollari e la morte di più di 2 milioni di persone).

3) 4,4 millimetri: il tasso annuo di innalzamento del livello del mare
Lo scioglimento delle calotte glaciali e del riscaldamento ed espansione degli oceani stanno provocando un innalzamento del livello globale dei mari. Le stime degli scienziati parlano di circa 4,4 millimetri all’anno, ma il tasso sta accelerando, aumentando di circa 1 millimetro ogni decennio. Sembrano numeri piccoli, ma non lo sono. La tendenza che essi delineano, infatti, è sufficiente a far prevedere entro la fine di questo secolo il rischio che molte comunità costiere rimangano sommerse, insieme ad alcune piccole nazioni insulari, oltre a costituire una minaccia per le riserve di acqua dolce.

4) 6 anni: entro questo tempo, il mondo potrebbe superare la soglia di 1,5°C
Il tempo a disposizione per raggiungere l’obiettivo climatico internazionale del mantenimento del riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C sta scadendo. Secondo gli scienziati, l’umanità può emettere solo altri 250 miliardi di tonnellate di anidride carbonica per mantenere almeno pari le probabilità di raggiungere l’obiettivo.

5) 43%: di tanto devono diminuire, entro il 2030, le emissioni di gas serra per centrare l’obiettivo di temperatura
Per raggiungere questa meta, il mondo dovrebbe subire una profonda trasformazione nel corso di questo decennio. Le emissioni globali di gas serra dovrebbero diminuire del 43% entro il 2030 e del 60% per cento entro il 2035, prima di raggiungere lo zero netto entro la metà del secolo. Ma di fatto, in base agli impegni climatici assunti finora dai paesi, le emissioni di gas serra dovrebbero diminuire solo del 2% per cento in questo decennio!

6) 1000 miliardi di dollari all’anno: è il fabbisogno di fondi per il clima dei paesi in via di sviluppo
Abbiamo già evidenziato come ridurre l’inquinamento da carbonio delle industrie, proteggere le comunità da condizioni climatiche estreme, ricostruire dopo i disastri climatici e altre azioni di salvaguardia ambientale richiedano un enorme costo in denaro. Ma i paesi, in particola quelli in via di sviluppo, non ne hanno abbastanza. Pertanto, cresce la pressione sulle nazioni più ricche, come gli Stati Uniti (che hanno prodotto la maggior parte delle emissioni che riscaldano il pianeta), affinché aiutino i paesi in via di sviluppo a ridurre il proprio inquinamento e ad adattarsi a un mondo più caldo. A ciò si aggiungono le crescenti richieste di pagare per la distruzione causata dal cambiamento climatico, nota come “perdita e danno” (loss and damage) nel linguaggio delle Nazioni Unite. Purtroppo, i fatti dimostrano che il flusso di denaro dai paesi ricchi a quelli poveri sta in realtà rallentando.

7) 7000 miliardi di dollari: è l’ammontare delle sovvenzioni mondiali ai combustibili fossili nel 2022
In netto contrasto con lo stillicidio dei finanziamenti per il clima, i sussidi ai combustibili fossili sono aumentati negli ultimi anni. Nel 2022, la spesa totale per i sussidi a petrolio, gas naturale e carbone raggiungerà la cifra record di 7000 miliardi di dollari, secondo quanto dichiarato dal Fondo monetario internazionale in agosto. Si tratta di 2000 miliardi di dollari in più rispetto al 2020.

8) 66.000 Kmq: la quantità di deforestazione lorda nel mondo nel 2022
A tanto ammonta la valutazione annuale della Dichiarazione sulle foreste, prodotta da un insieme di organizzazioni di ricerca e della società civile. La maggior parte di questa perdita è avvenuta nelle foreste tropicali. Eppure, al vertice sul clima COP26 di due anni fa a Glasgow, in Scozia, le nazioni si sono impegnate a fermare la deforestazione globale entro il 2030. Un totale di 145 paesi aveva firmato la Dichiarazione sulle foreste di Glasgow, rappresentando oltre il 90% della copertura forestale globale. Un altro obiettivo “mancato”!

9) 1 miliardo di tonnellate: è il gap annuale di rimozione di anidride carbonica
La rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera costituisce un approccio integrativo, reso necessario – a detta degli scienziati – alla lentezza con cui il mondo sta riducendo l’inquinamento da gas serra. Ma la tecnologia per realizzarlo è ancora sperimentale e, di certo, non sarà economica.
Attualmente vengono rimossi circa 2 miliardi di tonnellate all’anno, ma ciò avviene in gran parte grazie alla capacità di assorbimento naturale delle foreste. Per rimuovere una quantità ancora maggiore di carbonio, i paesi dovranno aumentare in modo massiccio le tecnologie di rimozione del carbonio, data la limitata capacità delle foreste di assorbire altra anidride carbonica.

10) 1000 gigawatt: di tanto dovrebbe crescere annualmente la capacità di energia rinnovabile per mantenere 1,5°C di temperatura
E’ ancora troppo lenta la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili, perché siano raggiunti gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Infatti, l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA) stima che il mondo debba aggiungere 1000 gigawatt di capacità energetica rinnovabile ogni anno fino al 2030. Ma l’anno scorso – secondo l’ultimo World Energy Transitions Outlook dell’agenzia, pubblicato a giugno -, i paesi sono riusciti ad aggiungere appena 300 gigawatt!

Il quadro globale è abbastanza chiaro e preoccupante. Un po’ meno chiara, purtroppo, la volontà fattiva di uscirne tutti insieme.

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La bellezza salverà il mondo?

Sab, 09/12/2023 - 09:53

I recenti fatti di cronaca, e in particolare l’omicidio della giovane Giulia Cecchettin, uccisa dell’ex fidanzato hanno provocato una forte emozione dell’opinione pubblica e soprattutto una rinnovata attenzione al tema della violenza sulle donne. Un tema ricorrente, in una società come la nostra che pur ispirata ai valori della dignità di ogni persona umana, della parità di genere, continua a trovare nei suoi anfratti più profondi, zone buie, pensieri e comportamenti inaccettabile, non di rado capaci di sfociare in tragedie.
Pensieri e comportamenti che sono sempre esistiti, in verità (il che naturalmente non giustifica che vi siano ancora). Il recente, bellissimo film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”, successo straordinario al botteghino, ha ad esempio messo in luce, con una delicatezza ammirevole, proprio il tema della violenza e della sopraffazione, ambientato nella società e in una famiglia nella nostra Italia del dopoguerra. Nello stesso tempo ha sottolineato la capacità di reagire, di far fronte a una cultura oppressiva non fuggendo, ma proponendo valori positivi alla ricerca di libertà e di affermazione. Un vero e forte messaggio civile e politico per il quale, credo, si debba dire grazie ad un’artista di livello e in generale all’arte, capace di arrivare con la forza dei linguaggi propri, al cuore e alla mente delle persone, più di qualsiasi discorso.
La bellezza salverà il mondo. E’ un monito che può essere fortemente attuale. E dove trovare questa bellezza? Al di là dell’arte, è nei luoghi delle relazioni dove si può concretizzare il “bello” del rapporto tra le persone, il “bello” del rispetto, dell’amicizia, della cooperazione, della condivisione.
La famiglia, certo, può essere un luogo del genere. Ma non bisogna illudersi sul fatto che basti evocare il termine “famiglia” per realizzare ambienti sani e “belli”. In realtà la cronaca ci dice che proprio le famiglie sono spesso il luogo privilegiato delle violenze e dei rapporti malati. Per mille motivi che non possiamo indagare qui.
La scuola, piuttosto, ha le possibilità di costruire quel “bello” capace di realizzare una cultura – pensieri e atteggiamenti – rispettosa delle persone. La scuola, dove le relazioni sono vissute e sperimentate con intensità, nelle più giovani età, e guidate da professionisti – gli insegnanti – che hanno precise competenze e comunque devono essere formati in modo adeguato.
Quanto ha fatto la scuola, nella nostra Italia, per costruire mentalità aperte, sensibilità ai valori, un tessuto sociale migliore che in passato. Non va dimenticato, pur senza chiudere gli occhi sulle criticità esistenti oggi come ieri. Siamo all’interno di un percorso mai finito e sempre da migliorare. In questa direzione va la determinazione del ministro Valditara, con il nuovo progetto “Educare alle relazioni”, per il quale sono state stanziate apposite risorse ed è già stata emanata una direttiva alle scuole. Un passo avanti, che avrà certo bisogno di concretizzarsi al meglio, con azioni fattive nei nostri istituti. Ma ha ragione il ministro quando afferma che “dobbiamo partire proprio dalla scuola, dalla cultura, dalla formazione dei nostri giovani” per sradicare una cultura “maschilista”, ma più in generale violenta e irrispettosa delle dignità di ogni persona umana.
La scuola può e deve fare molto. Mettendo a tema le relazioni, che non sono teorie, ma pratiche da vivere in modo virtuoso quotidianamente nelle aule dei nostri istituti. Coltivando la passione e la cura per la cultura, l’arte, il sapere e, soprattutto, la sua condivisione. Perché l’uomo e la donna di oggi non siano più quelli “della pietra e della fionda”, ma al contrario capaci di lasciare a terra le potenzialità offensive, meravigliandosi delle straordinarie risorse di ciascuno che, insieme e non “contro”, fanno brillare la bellezza.

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Papa Francesco: “Il nostro destino non è la guerra ma la pace”

Ven, 08/12/2023 - 17:22

Il cuore “diviso tra speranza e angoscia”, lo sguardo al mondo insanguinato dalle guerre e alle donne vittime di violenza. Papa Francesco sosta in preghiera davanti alla statua della Vergine, in piazza di Spagna, ed eleva una supplica per la pace. Si è conclusa così la solennità dell’Immacolata, scandita quest’anno da tre momenti: l’Angelus in piazza San Pietro, dalla finestra dello studio del Palazzo apostolico, dove è tornato ad affacciarsi dopo due settimane a causa dell’infezione polmonare che l’ha colpito; la sosta in preghiera silenziosa a Santa Maria Maggiore, davanti all’icona della Madonna Salus Populi Roma alla quale ha reso omaggio con il dono della Rosa d’Oro, e infine il tradizionale omaggio all’Immacolata, per ribadire che “il male non ha la prima né l’ultima parola”.

“Prima di tutto vogliamo ringraziarti, perché in silenzio, come è nel tuo stile, tu vegli su questa città, che oggi ti avvolge di fiori per dirti il suo amore”,

l’inizio della preghiera risuonata nel cuore della Capitale, gremita di fedeli e turisti: “In silenzio, giorno e notte, vegli su di noi: sulle famiglie, con le gioie e le preoccupazioni – tu lo sai bene –; sui luoghi di studio e di lavoro; sulle istituzioni e gli uffici pubblici; sugli ospedali e le case di cura; sulle carceri; su chi vive per strada; sulle parrocchie e tutte le comunità della Chiesa di Roma. Grazie per la tua presenza discreta e costante, che ci dà conforto e speranza”.

“Il nostro destino non è la morte ma la vita, non è l’odio ma la fraternità, non è il conflitto ma l’armonia, non è la guerra ma la pace”,

scandisce Francesco: “Guardando a te, ci sentiamo confermati in questa fede che gli avvenimenti a volte mettono a dura prova”. “E tu, Madre,

rivolgi i tuoi occhi di misericordia su tutti i popoli oppressi dall’ingiustizia e dalla povertà, provati dalla guerra; guarda al martoriato popolo ucraino, al popolo palestinese e al popolo israeliano, ripiombati nella spirale della violenza”,

la preghiera per il tragico scenario attuale: “Oggi, Madre santa, portiamo qui, sotto il tuo sguardo, tante madri che, come è successo a te, sono addolorate. Le madri che piangono i figli uccisi dalla guerra e dal terrorismo. Le madri che li vedono partire per viaggi di disperata speranza. E anche le madri che cercano di scioglierli dai lacci delle dipendenze, e quelle che li vegliano in una malattia lunga e dura”.

“Oggi, Maria, abbiamo bisogno di te come donna, per affidarti tutte le donne che hanno sofferto violenza e quelle che ancora ne sono vittime, in questa città, in Italia e in ogni parte del mondo”,

la parte della preghiera dedicata all’universo femminile: “Tu le conosci ad una ad una, conosci i loro volti”, ha proseguito Francesco: “Asciuga, ti preghiamo, le loro lacrime e quelle dei loro cari. E aiuta noi a fare un cammino di educazione e di purificazione, riconoscendo e contrastando la violenza annidata nei nostri cuori e nelle nostre menti e chiedendo a Dio che ce ne liberi”. “Mostraci ancora, o Madre, la via della conversione, perché non c’è pace senza perdono e non c’è perdono senza pentimento”, l’itinerario affidato a tutti, uomini e donne di buona volontà:

“Il mondo cambia se i cuori cambiano; e ognuno deve dire: a partire dal mio.

Ma il cuore umano solo Dio lo può cambiare con la sua grazia: quella in cui tu, Maria, sei immersa fin dal primo istante. La grazia di Gesù Cristo, nostro Signore, che tu hai generato nella carne, che per noi è morto e risorto, e che tu sempre ci indichi. Lui è la salvezza, per ogni uomo e per il mondo. Vieni, Signore Gesù! Venga il tuo regno d’amore, di giustizia e di pace!”.

“Lo stupore per le opere di Dio e la fedeltà nelle cose semplici”, i due atteggiamenti di Maria indicati come stella polare da piazza San Pietro: “Per accogliere i grandi doni di Dio è decisivo saper fare tesoro di quelli più quotidiani e meno appariscenti”. “Io credo che l’importante, nelle situazioni di ogni giorno come nel cammino spirituale, è la fedeltà a Dio? E, se ci credo, trovo il tempo per leggere il Vangelo, per pregare, partecipare all’Eucaristia e ricevere il perdono sacramentale, per fare qualche gesto concreto di servizio gratuito? Sono quelle piccole scelte di ogni giorno, scelte decisive per accogliere la presenza del Signore”. Poi un annuncio a sorpresa:

“il 25 e 26 maggio del prossimo maggio del prossimo anno celebreremo a Roma la prima Giornata mondiale dei bambini”.

E l’invito alla pace, all’inizio come alla fine della solennità dell’Immacolata: “La pace in Ucraina, la pace in Palestina e in Israele e in tutte le terre ferite dalla guerra”. “Chiediamo pace. Che i cuori si pacifichino e che ci sia la pace”.

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Quell’incessante preghiera alla Signora. Maria nella letteratura: guida nei momenti in cui tutto sembra perduto

Ven, 08/12/2023 - 09:00

La solennità dell’Immacolata Concezione è anche l’occasione per valutare l’importanza della figura mariana nella letteratura di tutti i tempi e luoghi. Anche quando non è lei ad essere direttamente protagonista, come accade nei Promessi sposi.

Qui è Lucia a diventare figura mariana, a partire dal cognome Mondella, che allude alla purificazione del mondo, e non è una notazione peregrina in un universo culturale come quello di Manzoni: lo scrittore aveva nella sua biblioteca il Cratilo di Platone dove Socrate sostiene che il nome deve essere simile alla cosa. Ed è per questo che alcuni hanno fatto notare come il nome della sposa promessa non sia una scelta casuale, ma una allusione alla Vergine come Stella del mattino, portatrice di luce spirituale: il che avviene fin dalla descrizione fisica di Lucia, che, come ha fatto notare uno studioso manzoniano, Angelo L. Pupino, ricorda molto la Sposa del Cantico, anche per il colore nero dei capelli annodati in una treccia. Senza dimenticare la descrizione manzoniana della fanciulla, con quegli spilli d’argento “che si dividevano all’intorno, quasi a guisa dei raggi di un’aureola”.

Lucia appare quindi come una sorta di immagine della Vergine, calata nella cruda realtà di una storia in cui la violenza, anche quella verso le donne, era parte integrante del sistema neo-feudale delle terre in cui si svolge il racconto manzoniano. Durante la prigionia nel castello dell’Innominato, in attesa di essere consegnata a don Rodrigo, Lucia si abbandona ad una preghiera alla Vergine, e il romanzo si conclude con l’annuncio della nascita di una bambina, alla quale, “potete credere” scrive l’autore rivolgendosi con modestia ai suoi venticinque lettori, “che le fu messo nome Maria”.

Maria nei Promessi sposi è una presenza che potremmo chiamare ostensiva, vale a dire sempre operante anche quando non viene nominata, e non è solo nel capolavoro manzoniano che questo accade.

Basti pensare a Dante che richiama la pietà mariana fin dall’inizio della sua Commedia, quando nel secondo canto dell’Inferno Virgilio racconta di essere stato interpellato da Beatrice per aiutare Dante a ritrovare la “diritta via”. La Vergine si era rivolta prima, e qui torniamo al discorso di Manzoni, a santa Lucia, che poi chiederà a Beatrice di soccorrere dal peccato “quei che t’amò tanto”. Ancora una volta una Lucia mediatrice tra la Vergine e luce nel buio del cammino degli uomini.  Per arrivare poi alla assoluta celebrazione di Maria come guida dell’umanità minacciata dai suoi stessi errori e di Dante medesimo che deve affrontare una grande prova: resistere all’urto inumano della visione divina, che ancora una volta avviene attraverso la mediazione di un personaggio, in questo caso san Bernardo, che intona una preghiera all’Immacolata.

Sono parole celebri, che qui ci aiutano a cogliere l’immagine che gli scrittori hanno di una Signora mediatrice delle preghiere del cuore, quelle che vengono dagli abissi umani, che addirittura non attende la richiesta di grazia, ma “molte fiate liberamente al domandar precorre”.

Concezione che passa attraverso i secoli seminando testimonianze poetiche e narrative in Petrarca, perfino Lorenzo il Magnifico, fino al ritorno alla fede di uno dei grandi del Novecento, quell’Eliot che aveva documentato nella sua “Terra desolata” la perdita di senso dell’uomo novecentesco, e che aveva ritrovato nell’immagine mariana la nuova strada.

Ora la voce che aveva gridato la grande crisi può cantare una nuova immagine femminile, come in passato in parte donna, in parte angelo, infine riflesso dell’Intoccata, la “Signora dei silenzi/ quieta e affranta (…) La Rosa unica”, sorella e madre, cui va l’antico omaggio dell’uomo nuovo che ha finalmente ritrovato una strada, e un senso.

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Immacolata Concezione: la “senza macchia” destinata a portare in grembo il Figlio di Dio

Ven, 08/12/2023 - 09:00

Tota pulchra es Maria, il canto gregoriano risuona nelle assemblee liturgiche all’avvicinarsi dell’8 dicembre. Le parole riportano alla memoria il testo biblico del Cantico dei Cantici: “Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia” che, nel testo liturgico cristiano, suona: “Tutta bella sei, Maria, e il peccato originale non è in te”.

La cantillazione ebraica trapassò nelle prime liturgie cristiane e già dal IV secolo rimbalza, in ondate oranti, fino al nostro secolo.

Giovanni Paolo II, nel 150 anniversario del dogma dell’Immacolata Concezione, scrisse che “…ci introduce nel cuore del mistero della Creazione e della Redenzione. Dio ha voluto donare all’umana creatura la vita in abbondanza, condizionando, tuttavia, questa sua iniziativa ad una risposta libera e amorevole”.

Questo mistero contiene una potenzialità che scaturirà nello scorrere degli anni e ci donerà la chiave per la sua comprensione: “L’Immacolata Concezione prelude all’intreccio armonioso tra il “sì” di Dio e il “sì” che Maria pronuncerà con totale abbandono […]. Questo suo “sì”, a nome dell’umanità, riapre al mondo le porte del Paradiso, grazie all’incarnazione del Verbo di Dio nel suo seno ad opera dello Spirito Santo. L’originario progetto della creazione viene così restaurato e potenziato in Cristo, e in tale progetto trova posto anche lei, la Vergine Madre”.

Tocchiamo il più profondo abisso o, se si preferisce, il vertice assoluto: “Sta qui la chiave di volta della storia: con l’Immacolata Concezione di Maria ha avuto inizio la grande opera della Redenzione, che si è attuata nel sangue prezioso di Cristo. In Lui ogni persona è chiamata a realizzarsi in pienezza fino alla perfezione della santità. L’Immacolata Concezione è, pertanto, l’alba promettente del giorno radioso di Cristo, il quale con la sua morte e risurrezione ristabilirà la piena armonia fra Dio e l’umanità”.

La Vergine Immacolata è fondata sull’alleanza che l’Altissimo ha tagliato con il popolo d’Israele e viene lanciata nella storia in cui il Suo progetto, l’Immanuel, El con noi, Dio con noi, prende carne umana.

Il dono supremo, la novità che si inserisce nella nostra umanità ci fa comprendere anche la novità dell’Immacolata.

L’Altissimo desiderava togliere ogni peccato, ogni macchia da tutto il popolo e da tutti i suoi membri, scelse quindi di donarci la Sposa tutta bella, quella Cantico dei Cantici e Maria di Nazareth si ritrovò ad essere l’arca dell’alleanza, la Figlia di Sion che portava nel grembo il Figlio dell’Altissimo.

Quel “mistero taciuto per secoli eterni” è stato rivelato in Cristo Gesù (Rom 16,25-26).

Fra le festività solenni della Chiesa nei primi secoli si festeggiavano Gioacchino e Anna quando ricevettero il dono della immacolata Madre di Dio e poi la nascita della Figlia.

Charles Péguy oggi ci presta la sua voce:

Vi sono giorni in cui santi e patroni non bastano più…
Bisogna prendere allora il coraggio a due mani
e volgersi direttamente a Colei che è al di sopra di tutto. Essere arditi…
Sempre qualcosa manca alle creature,
e non soltanto di non essere Creatore.
Alle carnali, sappiamo, manca d’esser pure; alle pure, dobbiamo saperlo, d’esser carnali.
Una sola è pura pur essendo carnale; una sola è carnale pur essendo pura.
Ecco perché la Vergine non è solo
la più grande benedizione discesa su tutto il creato;
non solamente la prima fra tutte le donne
“benedetta fra tutte le donne”;
non solamente la prima fra tutte le creature;
ma l’unica, l’infinitamente unica
infinitamente rara creatura.

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Giulia Cecchettin: scegliamo di sperare per squarciare le tenebre dell’orrore

Gio, 07/12/2023 - 14:55

Lo ripetiamo con la convinzione certa che non esista una classifica della sofferenza, il dolore della morte e della violenza non sono più o meno forti a seconda del riscontro mediatico. Ma ciò a cui abbiamo partecipato in questi giorni con la morte di Giulia Cecchettin è stato un vero atto terroristico al cuore della nostra civiltà.
È per questo che tutti sono intervenuti, che il tema ha investito politica, istituzioni, piazze e teatri. Non perché un femminicidio sia più doloroso di un altro, l’interruzione della vita da parte di una persona verso un’altra porta con sé sempre la stessa gravità. Non è stato nemmeno un desiderio voyeuristico di partecipazione ad un evento di massa, ma è tutti in massa che ci siamo immedesimati in Giulia. E così “da questo tipo di violenza solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti”.

La morte di Giulia è riuscita a non far sentire escluso proprio nessuno, ma è proprio quando un tema riguarda tutti, che facilmente rischia di essere distorto o strumentalizzato.

Che facilmente rischia di essere risposta armata, fuoco che brucia in una irrefrenabile escalation di dolore.
In quella chiesa gremita in cui tutta l’Italia è stata Padova per un’ora, abbiamo assistito al miracolo dell’universalità della comunicazione. In una babele di voci, tra giustizialismo e lotte di genere, uomini in cerca di perdono solo nella colpevolizzazione del maschile, occasioni rottura dell’alleanza uomo-donna, accuse politiche chirurgicamente volte a colpire e soprattutto di fronte alla ricerca di capri espiatori di breve durata, hanno trionfato le parole di un padre che lascia una figlia in un saluto composto e fermo pronunciato da una barca sbattuta dalla tempesta. Parole laiche, universali e umili pronunciate durante il rito con cui la Chiesa celebra il passaggio alla vita eterna. Una scelta consapevole e sostanziata dai gesti e dagli abbracci promessi ai genitori del proprio aguzzino. Parole di un padre che non trionfa di potenza mascolina ma umana, di un uomo capace di amare ancora una volta oltre la morte. Parole di un maschio uomo. Parole che diventano di tutti e liberano qualsiasi orrore compiuto o futuro.Parole che parlano della capacità profonda del genere umano: in grado di superare lo sgomento del male profondo di cui esso stesso è capace, in un paese veneto come fosse una strada di Gaza.

Parole che volano verso la consapevolezza di poter scegliere: “Io voglio sperare”.

La speranza poteva essere declinata come l’ultima delle possibilità a cui ancorarsi e così non è stato. La speranza si è sostanziata nello sguardo serio, nella pacatezza di una voce maschile, nell’abbraccio sostenuto di una sorella straziata, nella consapevolezza urlata sottovoce di una condizione che è conseguenza del male, ma non per questo smette di auto definirsi per volontà e non per rassegnazione!
La scelta che contraddistingue ogni essere quella stessa scelta, quello stesso libero arbitrio che in un assurdo non senso porta anche a scegliere deliberatamente di uccidere.
È la scelta di sperare.
Che ha squarciato le tenebre dell’orrore.

Che ha acceso la scintilla che non brucia tutto ma illumina tutto!

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