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Aggiornato: 3 mesi 3 settimane fa

Quanti bambini vittime innocenti di tanti re Erode

Gio, 28/12/2023 - 10:41

“Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi”. È quanto leggiamo nel Vangelo di Matteo, oggi, festa dei Santi Innocenti Martiri. Tutti noi, fin da bambini, siamo stati colpiti da questa pagina evangelica, la “strage degli innocenti”. Dipinti, opere d’arte ne hanno reso ancora più forte l’impatto emotivo. Al Sacro Monte a Varallo Sesia (Vc), la cappella che evoca questa scena è una delle più famose, (sec. XVI), e gli studiosi fanno notare come i personaggi sono raffigurati non tanto con abiti dell’epoca di Cristo quanto piuttosto come uomini e donne del ‘500. Quindi già allora si voleva far accostare il visitatore non a qualcosa che è relegato nel passato, ma a qualcosa che sta avvenendo.
Siamo chiamati a farlo anche oggi, nel 2023. Quanti bambini vittime innocenti, oggi, di tanti Re Erode, che si chiamano con altri nomi, certo. Sta a noi riconoscerli, magari dietro volti e apparenze gentili. In fondo anche Erode si era dimostrato gentile e cortese con i Magi. “Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: ‘Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo'”. (Mt, 2,7). Un atteggiamento ineccepibile, il suo. Dichiaratamente e ipocritamente disposto ad ostentare il suo volere “adorare” il Bambino. Forse dobbiamo prendere le distanze da una falsa religiosità, ostentata, ma che non esita a cancellare vittime innocenti. Erode si “infuria” quando si accorge che i Magi si sono presi gioco di lui! Il potere non tollera la presa in giro. E chi è potente non si cura della vita delle persone, tantomeno degli innocenti. Anche oggi.
Erode è un mix di potere e paura. Per questo senza scrupoli ordine la strage degli innocenti. E oggi quanti martiri innocenti? Nelle varie guerre: da Gaza all’Ucraina. Come è possibile tollerare quanto succede a Gaza? E non sentirsi dentro il grido di Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata. Ma è quanto succede in ogni violenza: sulle donne, sui bambini, sugli anziani… Quanti bambini cancellati dalla faccia della terra per il capriccio di qualche Erode? Erode che progetta sempre nuovi armamenti, sempre più precisi e sofisticati, per la guerra “viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse… quante stragi armate avvengono in un silenzio assordante, all’insaputa di tanti!” (Papa Francesco, Angelus Natale 2023).
E come non ricordare i bambini soldato!
Oppure i bambini costretti a lavorare. Non basta commuoverci o scandalizzarci guardando le loro manine che scavano, nella Repubblica Democratica del Congo, per raccogliere il Coltan guadagnando meno di 1 euro al giorno se va bene, per un minerale che vale intorno ai 18.000 euro al Kg. Ma poi il nostro telefonino lo teniamo tranquillamente in mano, anche se realizzato con “minerali insanguinati”. Ecco i volti di Erode oggi! E delle tante vittime innocenti.
E come tacere davanti al Mediterraneo, diventato un grande cimitero? Quante vite innocenti in questo mare nostrum… mostrum. Rischiamo di non commuoverci neanche più. In fondo sono ‘carichi residuali’ così come le vittime delle guerre in Iraq o in Afghanistan definite ‘effetti collaterali’. Ci si abitua a tutto, anche alle stragi degli innocenti.
In fondo in fondo, Erode non è poi così cattivo. Aveva anche lui le sue ragioni. Non ci si può permettere di disobbedire al potente di turno.
Per questo la festa di oggi ci chiede di scegliere da che parte stare. Se vogliamo stare dalla parte delle vittime, non possiamo stare con Erode! Ma con i Magi, che disubbidiscono a Erode e “per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.

(*) consigliere nazionale di Pax Christi

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Nel centro medico dove si curano i soldati. Corpi giovani devastati e mutilati. Sono i “segni” della guerra

Gio, 28/12/2023 - 10:29

Ucraina, le corsie del centro medico

(da Kyiv) Le ferite sono profonde, devastanti, complesse. La prima cosa che i giovani soldati feriti dicono è da quanto tempo sono ricoverati e quanto durerà ancora la riabilitazione. 4 mesi. 6 mesi. Ma il tempo scorre lentamente ed è doloroso. Bende, aghi, cannule, flebo. Sotto le lenzuola, si scoprono braccia completamente ricostruite. Mani con le dita tagliate. Chi non ha più un piede e chi invece ha la gamba in “ricostruzione”. Tre operazioni e ancora un lungo cammino da fare. Siamo in uno dei centri medici  più importanti dell’Ucraina. Per motivi di sicurezza, chiedono di non scrivere né il nome né dove si trova. Per entrare occorre passare per il controllo documenti. L’ospedale è un labirinto di corridoi lunghi e bianchi. Nelle stanze, addobbate per Natale, i letti sono tutti occupati. E’ qui che arrivano i soldati feriti sul fronte da tutto il Paese. L’età è giovanissima: 22, 23, 27 anni. I campi di battaglia dove sono stati feriti è la geografia di questi mesi di guerra e fuoco. C’è chi è stato sul fronte a Bachmut, la città diventata famosa perché teatro di  una serie di scontri militari e atrocità tra le forze armate ucraine e le forze armate russe. Zaporizhzhia, la città dell’Ucraina meridionale dove c’è la centrale nucleare della città. Mariupol e il battaglione Azov. Ivan Yavorskyi è il direttore dell’Istituto. Sul cellulare mostra i video e le foto dei ragazzi operati. Sono corpi mutilati, teste ricucite, ragazzi con le protesi alle gambe e ai piedi.

Dottore, che tipo di ferite trattate maggiormente?

Ivan Yavorskyi nel suo ufficio (Foto Sir)

Le ferite sono molto diverse. Sono così diverse che non si possono confrontare tra loro. Sono però tutte molto gravi. C’è qualcuno, ad esempio, a cui manca metà della faccia. C’è chi ha perso la mascella e non può né mangiare né parlare. E questo genera un trauma molto grave. Ci sono persone che sono rimaste completamente senza gambe e senza braccia. C’è chi ha subito danni gravi agli organi genitali. C’è un giovane ragazzo ricoverato qui da noi a cui i medici per miracolo sono riusciti a salvare tutte e due le gambe perché all’inizio si pensava di amputarle. Può andare al bagno ma non potrà più essere un uomo. Viene a trovarlo la ragazza e lui ci supplica di aiutarlo perché spera di potersi sposare con lei e avere dei figli. Noi sappiamo che non è più possibile fare nulla per lui ma non possiamo ancora dirglielo perché non perda la speranza e si rimetta bene. Arrivano ragazzi con il torace talmente rotto che si possono vedere i polmoni. Ci sono anche traumi alla testa. Proprio oggi è arrivato un paziente con il volto completamente ricucito perché dal cervello fuoriusciva un liquido e questo è molto pericoloso perché, se continuerà a fuoriuscire, lui morirà. Ogni trauma è diverso ed è terribile.

Lei come vive tutto questo dolore?

La guerra è terribile. Quando torno in città, non vedo tutti quei giovani che vedevo prima. Se mi fermo per strada e cerco di capire chi sta guidando le automobili, non vedo ragazzi. Mi accorgo che sono tutti anziani e capisco allora che parte della nostra gioventù o è invalida, o è impegnata ancora sul fronte o è morta. C’è una grandissima percentuale di persone che sono state ferite non solo nel corpo ma anche a livello psichico. E la maggior parte di questi traumi rimarranno per tutta la vita. Questo ci fa capire che quando la guerra finirà, seguirà un periodo molto pesante dal punto di vista anche psicologico. Una grande parte di persone non potrà essere socialmente autonoma e questo può portare anche al problema dei suicidi. Ci sono alcuni ragazzi che hanno danneggiato talmente tanto il cervello che vivono in stato vegetativo. Le mamme che si prendono cura di loro li assistono con la speranza che il loro figlio possa guarire ma anche in questi casi, i danni dureranno per tutta la vita. Per me è terribile pensare al momento in cui quei genitori moriranno e questi invalidi rimarranno senza aiuto. Voglio ancora sottolineare una cosa: la guerra è una cosa terribile. E non riusciamo a capire perché nel XXI secolo una simile tragedia sia ancora possibile.

Dalle ferite che trattate, riuscite a capire come e in quali contesti di guerra se li sono procurate?

Anche qui i contesti sono diversi. La maggior parte però dei traumi è causata da esplosioni di mine. Un giovane venuto dalla Francia aveva il compito di raccogliere i feriti. Ma è passato un drone Shahed e la parte dietro del suo copro è stata tagliata. La cosa più terribile è quando i russi sparano le mine e quando queste mine esplodono. Sono traumi più terribili.

Se questa guerra sta portando via soprattutto i giovani, lei come vede il futuro?

Ci aspetta un periodo molto difficile. Di questa generazione giovane e pronta a lavorare, una parte è stata uccisa, una parte è stata ferita e una parte è traumatizzata. Il Paese dovrà assicurare una assistenza a tutti questi feriti e traumatizzati. Questo poterà sicuramente ad una crisi economica. Sarà un periodo difficile ma dobbiamo viverlo perché dobbiamo difendere la nostra indipendenza e libertà. Se non lo facessimo, e lasciassimo alla Russia lo spazio di prenderci, sarebbe molto peggio.

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Ucraina: si cercano reclute. Il paese ha bisogno di nuovi soldati. “Mamma, sono in un’unità militare”

Gio, 28/12/2023 - 10:29

(da Kyiv) Doveva essere una serata tranquilla al ristorante e invece si è trasformata in un incubo, “come fossimo stati catapultati dentro un film”. La fonte chiede l’anonimato, per motivi di sicurezza e di non scrivere dove esattamente è successo. Mentre era in un locale a cenare con un’altra persona, hanno improvvisamente spento le luci e abbassato le saracinesche. “Siamo rimasti dentro. E’ venuta la proprietaria scusandosi. Ci ha spiegato di aver ricevuto una telefonata da un locale vicino che avvisava che stavano venendo a prendere i giovani per portarli in guerra. Siamo rimasti attoniti. Abbiamo chiesto se potevamo uscire e ci ha detto di no. Per salvare i ragazzi che lavorano nel locale e che sono per lei come dei figli, ha chiuso il locale e spento le luci. Siamo rimasti così per una mezz’ora, nascosti, mentre fuori con un camioncino, facevano la retata. Prendevano dai locali tutto il personale maschile. Entravano con il volto mascherato. A volte usano la violenza per contrastare la resistenza di qualcuno che non voleva essere portato via. Quella sera avevano avuto l’ordine di prendere 100 persone”. Una volta presi, i ragazzi vengono portati in un centro territoriale di reclutamento dove una commissione valuta lo stato di idoneità e la salute delle persone. Quella sera, su 100 ragazzi presi, 10 sono stati portati via.

Nell’Ucraina che ha bisogno di altri soldati da impiegare sul fronte, succede anche questo. E’ stato il presidente Volodymyr Zelensky in persona ad annunciare nella conferenza stampa di fine anno, la necessità di mobilitare nelle forze armate fra i 450mila e i 500mila uomini. Tuttavia, le condizioni finanziarie e politiche non sono ancora state chiarite. Lo stesso presidente Zelenskyj ha definito la mobilitazione una ”questione delicata” mentre il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov ha assicurato che tutto avverrà secondo giustizia. In futuro, alle persone richiamate dovrebbe essere chiaro in anticipo come verranno addestrate ed equipaggiate, dove e quando presteranno servizio e quando finirà.

Interpellato dal Sir, un giovane avvocato non si sorprende dei casi reclutamento forzato e spiega nei dettagli come funziona il sistema dopo che dal giorno dell’invasione russa, il 24 febbraio 2022, in Ucraina è in vigore la legge marziale. Diffusi capillarmente su tutto il territorio, i centri territoriali di reclutamento sono organi di amministrazione militare che dipendono dal Ministero della difesa. Garantiscono l’attuazione della legislazione sul servizio militare, sulla mobilitazione e sull’addestramento alla mobilitazione.​ Da qui partono i mandati di comparizione che obbligano le persone a comparire davanti al centro di reclutamento. Il fatto di ricevere una citazione non significa sempre che una persona verrà immediatamente mandata al fronte. L’obiettivo principale è chiarire le credenziali e dimostrare i casi di non idoneità al servizio militare previsti dalla legge.

Ma l’Ucraina ha bisogno di nuovi soldati. Kiev ha intenzione di richiamare alle armi anche gli uomini dai 25 ai 60 anni che vivono all’estero. L’avvocato spiega: “I ragazzi impegnati da ormai due anni sul fronte, hanno bisogno di essere sostituiti da altri uomini. Non possono stare in quelle condizioni ininterrottamente”. C’è anche da dire che sul fronte, i soldati stanno morendo e vengono feriti. Il loro numero è top secret ma è evidente che “il sistema ha bisogno di nuove ‘risorse umane’”. I casi di reclutamento “forzati” avvengono soprattutto nei villaggi dove è più facile agire al di sopra della legge e dove le persone conoscono meno i loro diritti. Mettono i ragazzi su un autobus, senza documento, senza cellulare. Dopo qualche giorno, i genitori ricevono da loro una telefonata: “Mamma, sono in un’unità militare”. Sono anche i ragazzi che muoiono più velocemente perché non hanno avuto il tempo di ricevere una adeguata formazione militare e le informazioni basilari necessarie per proteggersi e sopravvivere sul fronte. “In Ucraina tutti lo sanno anche se queste notizie non appaiono sui media ufficiali. Esistono addirittura dei canali social – racconta il giovane avvocato – dove ci si scambiano le informazioni e ci si avverte dove sono in corso i reclutamenti per evitarli”. Ed è in questo clima che la corruzione trova sempre più terreno fertile. C’è un modo per arginare il sistema ma richiede molti soldi. I prezzi sono altissimi. Si può addirittura arrivare a pagare fino a 16mila dollari un documento fake che attesti l’inabilità al servizio militare e possa addirittura consentire di uscire dal Paese. È una corruzione che il governo sta cercando di arginare arrestando i responsabili. L’obiettivo finale di difendere il Paese dall’aggressore è legittimo ma – conclude l’avvocato – “non può giustificare in alcun modo questi strumenti di illegalità”.

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Gesù nasce nel cuore di ogni Eccomi

Mer, 27/12/2023 - 15:57

Natale, mai dire Natale, ma diciamo che siamo diventati come il Natale, non in un presepio tradizionale ma in quello vivente fatto di persone che camminano, scappano, piangono, soffrono, e sperano. Un Natale quest’anno che corre veloce come le fibre ottiche, scorre veloce e quasi scompare, se non stai attento ad ascoltare la voce degli angeli che cantano : Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Dio ama. La bellezza del Natale è che siamo amati, cosi come siamo, e Dio ci aspetta nella greppia o in una stalla, dietro un angolo nascosto di una grande città: un senzatetto che mi chiede la carità di un sorriso e di uno sguardo proprio come i pastori, che guardano attoniti il prodigio di un Bambino povero appena nato.

E’ Natale sempre Natale quando non ti stanchi di cercare e di sperare, e di consolare qualcuno che non vuole piangere da solo.

Natale, ancora tra dramma e stupore, una ninna nanna che accarezza le mie orecchie e mi aiuta a rilassarmi, per non pensare al male e alle guerre del mondo che uccidono i bambini deposti sulle mangiatoie di presepi indesiderati e scomodi. E’ Natale per chi sta in ospedale e non sa quanto dura, ma che ti regala con un sorriso la forza e la speranza di combattere per la vita. E’ Natale per chi attende un lavoro e non si arrende perché chi persevera non perde mai le occasioni giuste. Natale in famiglia, Natale per chi non ha famiglia, per chi fa fatica a perdonare qualcuno con cui non si parla da anni.. Natale per chi non ha soldi, chi è appesantito da un benessere forzato che ci vuole tutti uguali. Diciamo che siamo a Natale per fare un passo indietro e rimetterci a camminare per andare oltre, superare i confini dei pregiudizi e scoprire Dio in ogni persona umana di qualsiasi tipo e ceto condizione e situazione. Dio è sempre li che non punta il dito sui diversi, gli irregolari e i cattivi ma dispensa perdono a chi cambia direzione, a chi con umiltà e sincerità si volge a lui come i pastori erranti dispersi nel buio di false certezze… Siamo tutti bisognosi di andare a trovarlo e di fare Natale…

Non dire Natale, ma che che ho voglia di rinascere con Lui, rinascere nella speranza e nella possibilità di poter sperimentare con un abbraccio che sei ancora vivo e non sei disabituato all’amore. E’ sempre Natale per chi non smette di vedere il bene anche dal male, per chi sa scovare la luce nelle crepe, e per chi non smette di vivere anche mentre sta per morire. E’ Natale non soffriamo più, ma offriamo come Gesù tutto ciò che abbiamo e siamo. In questo meraviglioso scambio tra Dio e l’uomo possiamo dire che è veramente Natale, auguri.

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Papa Francesco: “La superbia è l’inizio di tutti i mali, bisogna essere custodi del proprio cuore”

Mer, 27/12/2023 - 10:56

Ha iniziato un nuovo ciclo di catechesi Papa Francesco, durante l’udienza generale di questa mattina nell’Aula Paolo VI. Lo ha incentrato su “I vizi e le virtù”. Il primo passo, l'”introduzione”, è dedicata a “custodire il cuore”. E la sua riflessione è partita dalla Genesi. “Riconosci il limite, non sentirti padrone di tutto, perché la superbia è l’inizio di tutti i mali”, è stata la raccomandazione del Pontefice. Si è soffermato su un fatto preciso: “Dio pone i progenitori come signori e custodi del creato, ma vuole preservarli dalla presunzione di onnipotenza di farsi padroni del bene e del male. Questa è l’insidia più pericolosa per il cuore umano, da cui bisogna guardarsi ogni giorno!”.
Ricordando poi che “Adamo ed Eva non riuscirono ad opporsi alla tentazione del serpente”, il Papa ha evidenziato che “l’idea di un Dio non proprio buono, che voleva tenerli sottomessi, si insinuò nella loro mente: da qui il crollo di tutto”. “Ben presto i progenitori si accorgeranno che, come l’amore è premio a sé stesso, anche il male è castigo a sé stesso – ha aggiunto -. Non ci sarà bisogno delle punizioni di Dio per comprendere di aver sbagliato: saranno i loro stessi atti ad infrangere il mondo di armonia in cui fino ad allora avevano vissuto. Credevano di diventare come dèi, e invece si accorgono di essere nudi, e di avere anche tanta paura: perché, quando nel cuore è penetrata la superbia, allora nessuno può più mettersi al riparo dall’unica creatura terrena capace di concepire il male, cioè l’uomo”. E c’è un insegnamento che emerge. Papa Francesco lo ha esplicitato così:

“Con questi racconti, la Bibbia ci spiega che il male non inizia nell’uomo in modo clamoroso, quando un atto è ormai manifesto, ma molto prima, quando si comincia a intrattenersi con esso, a cullarlo nell’immaginazione e nei pensieri, finendo con l’essere irretiti dalle sue lusinghe”.

Papa Francesco è poi tornato a ribadire uno dei concetti che ha espresso più frequentemente nel suo pontificato: “Con il diavolo non si deve mai discutere”. “Egli è astuto e intelligente. Per tentare Gesù ha usato addirittura le citazioni bibliche! È capace di travestire un male sotto un’invisibile maschera di bene”, ha aggiunto. Il Pontefice ha subito dopo spiegato il “perché” si “deve stare sempre allerta, chiudendo subito il minimo spiraglio, quando cerca di penetrare in noi”. “Ci sono persone cadute in dipendenze che non sono più riusciti a vincere (droga, alcolismo, ludopatie) solo per aver sottovalutato un rischio – ha aggiunto -. Pensavano di essere forti in una battaglia da niente, e invece sono finiti preda di guerra di un nemico potentissimo. Quando il male mette radici in noi, allora prende il nome di vizio, ed è una pianta infestante difficile da estirpare. Ci si riesce solo a prezzo di sudatissime fatiche”.
Il Papa ha, poi, ricordato le posizioni espresse dai Padri del deserto, suggerendo la loro via:

“Bisogna essere custodi del proprio cuore”.

Quindi, la catechesi di Francesco si è conclusa con un’indicazione pratica da seguire di fronte alle tentazioni: “Davanti a ogni pensiero e ogni desiderio che si affaccia nella mente e nel cuore, il cristiano si comporta da saggio custode, e lo interroga per sapere da che parte sia venuto: se da Dio o dal suo Avversario. Se viene da Dio, allora lo si deve accogliere, perché è l’inizio della felicità. Ma se viene dall’Avversario, è solo zizzania, è solo inquinamento, e se anche il suo seme ci sembra piccolo, una volta attecchito scopriremo in noi le lunghe ramificazioni del vizio e dell’infelicità. Il buon esito di ogni battaglia spirituale si gioca molto nel suo inizio: nel vigilare sempre sul nostro cuore”.

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Una piccola Betlemme in una grotta carsica della Calabria

Mer, 27/12/2023 - 10:11

Una grotta carsica, di oltre venti milioni di anni, di quelle che se ne trovano tante nei paesi dell’appennino silano, nate in seguito ai movimenti tettonici, è stata trasformata in una piccola Betlemme.
Sulla strada per il Santuario diocesano di Santa Maria di Mendicino, un anfratto che era stato deposito di legname e luogo per animali è stato ripulito dai volontari della parrocchia e da alcuni soci dell’associazione di rocciatori “Erbanetta” e vi è stata collocata una natività con san Francesco d’Assisi in contemplazione. Un segno per l’ottavo centenario del presepe voluto a Greccio proprio dal poverello che desiderava “vedere con gli occhi del corpo” quanto accaduto nella piccola Betlemme.
La cittadina di Mendicino, nota per i suoi presepi artistici, e che propone annualmente un presepe artistico nella centrale chiesa di San Pietro quest’anno ha accolto un “segno stabile”, voluto dalla comunità parrocchiale e dai proprietari del terreno, che ne hanno fatto dono al Santuario diocesano.
A realizzare le sculture in pietra leccese che ben si abbina con la pietra “rosa Mendicino” le cui cave attualmente sono chiuse, Gabriele Ferrari scultore di Altilia, che ha saputo interpretare anche il desiderio maturato in comunità. Abbiamo pensato il presepe in uno stile sinodale, dice il parroco don Enzo Gabrieli, “coinvolgendo diversi volontari sia nella ideazione che nella realizzazione”.
La realizzazione delle statue in pietra ha tenuto conto del desiderio di parlare all’uomo di oggi, offrendo un messaggio di pace proprio a partire dal presepe, ma anche la ciclicità del tempo. “Anno dopo anno si rifà il presepe grazie alla tenera intuizione di san Francesco che l’abbiamo posto come personaggio del nostro presepe ma abbiamo voluto che l’artista utilizzasse lo stile del ‘non finito’ caro a Michelangelo, per indicare che il venire di Dio, il nascere in mezzo a noi è continuo, è sempre una novità di Dio. Chi si lascia coinvolgere, chi ha il coraggio di entrare fa esperienza del Natale”.
“La grotta naturale che ben si è prestata ad accogliere l’istante della natività è un messaggio di luce nel contesto di una roccia scura e di un bosco che nella notte riprendono vita così come è nella vita di ciascuno di noi se facciamo posto, apriamo la nostra vita al Signore che viene”, ha concluso don Gabrieli.

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Esattamente ottocento anni fa san Francesco “inventa” il primo presepe

Mer, 27/12/2023 - 10:09

“In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti”. Papa Francesco richiama nel suo recente “Il mio presepe” (Piemme) uno degli elementi dimenticati, eppure fondamentali, del nostro essere -non solo fare- Natale: l’origine della tradizione, a partire dal nome, che viene dal termine latino praesepium, mangiatoia. Non ricchezza d’abiti, né figure preziose, ma una semplice greppia, a ricordo di quanto scrive Luca: “Lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.
Nella simbologia medievale, che non era di esclusiva pertinenza dei saggi, ma era entrata a far parte dell’immaginario collettivo grazie anche alla Bibbia dei poveri, gli affreschi delle chiese, il contenitore del fieno divenne una parte di un tutto. Una infima, apparentemente, parte richiamava gli apocrifi asino e bue, e i pastori guidati dall’angelo, e i genitori e poi i magi e tanto altro.
Quando san Francesco visita, non per la prima volta, Greccio, confida al nobile Giovanni, nelle parole di Tommaso da Celano (racchiuse nella Vita Beati Francisci, scritta cinque anni dopo quell’evento): “vorrei fare memoria del bambino nato a Betlemme”. Vuole ricordare quello che apparentemente non c’è in quel presepio. Il Poverello tenta di comunicare la fondamentale importanza della povertà, del posto del fieno, di due animali che scaldano chi non ha nulla per ripararsi dal freddo della notte.
Giovanni Velita ubbidisce: è stato avvisato due settimane prima, e può far preparare la greppia, metterci il fieno (che assume una grande importanza sia in Tommaso da Celano che in Bonaventura da Bagnoregio, per le sue qualità miracolose), portare i due animali, in una, scrive Tommaso, “scena commovente” nella quale “risplende la semplicità evangelica”.
Un gran numero di persone arriva dalle abitazioni e dai casolari della zona, e tutti sono colpiti -e commossi- in un tripudio di ceri e fiaccole da una scena in cui Greccio, piccolo borgo delle montagne dell’alto Lazio “è divenuto una nuova Betlemme”.
La sera del venticinque dicembre del 1223, esattamente ottocento anni fa, nasce qualcosa che si è apparentemente trasformato in altro, ma che nasconde l’origine preziosa di una rinuncia, quella del santo di Assisi, a imitazione di una nascita avvenuta non nei castelli, ma in un luogo fuori dalle grandi rotte, e che pure aveva visto nascere Davide. Un re, a precorrere la nascita di un altro e diverso Re che della rinuncia alle ricchezze materiali farà il suo messaggio.
A Greccio ci fu la celebrazione dell’eucarestia, “sul presepio”, scrive Tommaso da Celano, come anche, molti anni dopo, la Legenda Maior, con Francesco rivestito dei paramenti diaconali a cantare il Vangelo. Tutte e due le fonti riportano però qualcosa che ha a che fare con lo spirito e l’immagine del nostro presepe: Nella Vita Prima un uomo virtuoso, senza altre indicazioni, ha “la mirabile visione” di un bambinello dormiente, destato dal suo profondo sonno dal santo stesso. Nelle parole di san Bonaventura è lo stesso Giovanni Velita ad aver visto dormire, anche qui sulla mangiatoia, “un bellissimo bambinello”, stretto poi al petto da san Francesco. Il Bambino è una presenza latente, fondante, visibile con gli occhi del cuore, e che però è alla base di tutto quello che qui avviene.
L’intensità di questa scena di partecipazione popolare, canti, luci, commozione -narrata anche ai bambini con suggestive illustrazioni da Fulvia degl’Innocenti e Manuela Leporesi in “Il primo presepe” (Paoline)- è chiusa dal sigillo del Bambino. Un presepe povero non è solo un presepe, ma Il Presepe, fatto con le ferite del cuore, con la speranza di poter far mangiare i figli, o con un cammino di ritorno al poco che salva.

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Tra la gioia del Natale e il dolore per la guerra vogliamo continuare a sperare

Mer, 27/12/2023 - 09:59

La Luce del Natale a Betlemme e in Terra Santa è offuscata dalla preoccupazione di un futuro che la guerra ha reso buio e lontano. Domenica 24 dicembre, Vigilia del Santo Natale, abbiamo avuto l’ingresso, secondo lo Statu Quo, del Patriarca, cardinale Pierbattista Pizzaballa, accompagnato dall’inviato del Papa, cardinale Konrad Krajewski che ha portato il saluto e la vicinanza paterna di Sua Santità alla Terra Santa. Questa stessa giornata negli anni scorsi, era un’occasione speciale per tutti gli abitanti di Betlemme e per i pellegrini che arrivavano numerosi da tutto il mondo. Per queste festività riuscivamo a fare arrivare anche alcuni cristiani da Gaza, che dista solo 70 km da Betlemme. Non c’era nessuna distinzione di razza o di religione: tutti sapevano di essere nati a Betlemme, città della Pace. È stato un Santo Natale senza le luminarie ma con la Luce più intensa del Salvatore. La chiesa di Santa Caterina e la Grotta nella Basilica della Natività hanno visto la numerosa presenza di cristiani locali, che di solito lasciavano il loro posto ai pellegrini che arrivavano a Betlemme da tutto il mondo per la Santa Messa di mezzanotte.

Mi sono emozionato a vedere tantissime persone che insieme pregavano per la Pace e piangevano per la sofferenza provocata dalla guerra. Non posso pensare alla Terra Santa senza cristiani locali. I Luoghi Santi, senza la presenza della preghiera e delle celebrazioni di chi qui è nato e si è formato alla fede cristiana, rischiano di diventare solo un patrimonio artistico. Dopo 30 anni ho potuto celebrare nella Grotta nella notte Santa, perché quest’anno il rigido protocollo non mi ha molto impegnato per l’assenza del presidente Abu Mazen alla celebrazione di mezzanotte.

Gesù Bambino nacque povero, umile, indifeso fra l’indifferenza della gente. Solo i semplici e gli ultimi seguirono la Stella per trovare il Principe della Pace. Dobbiamo fare come quei pastori, dobbiamo seguire con fiducia la Stella che porta alla Pace. Gesù Bambino allora conobbe la povertà, il freddo, la fame, la mancanza di una casa, la paura e la fuga come oggi accade ai Gesù Bambino della Terra Santa di oggi. Dobbiamo sentire forte la volontà di continuare a sperare e la necessità di guardare in alto perché “nulla è impossibile a Dio”. La fragilità di un Bambino appena nato, che ha portato la salvezza, è la forza per arrivare alla Pace.

Oggi e sempre Gesù Bambino insegna al mondo il rispetto per la vita, l’Amore per il prossimo, per tutta l’umanità.

Anche quest’anno nel giorno di Santo Stefano, i frati si sono riuniti nell’infermeria del Convento di San Salvatore per una Santa Messa presieduta dal padre custode, Francesco Patton, per essere vicini e per pregare insieme ai confratelli anziani e ammalati.
Nel pomeriggio siamo andati in pellegrinaggio, come è tradizione, intonando i vespri nel luogo del martirio del primo martire Santo Stefano.
Sono giorni intensi e divisi fra la gioia del Natale e il dolore per la tragedia della guerra ma dobbiamo sentire forte la volontà di continuare a sperare. La situazione in Terra Santa è molto grave: siamo sconvolti dalla violenza che distrugge e dall’odio che divide. Sono convinto che come 2023 anni fa Gesù Bambino è nato ancora per portare salvezza e vita nuova a questa umanità ferita. Domenica scorsa Papa Francesco ci ha chiesto di amare il prossimo come Dio ama noi: accogliendo, proteggendo e rispettando gli altri, con la stessa gentilezza che Dio usa con noi.
Spesso mi chiedono come si può aiutare la Terra Santa. Rispondo che la Terra Santa ha bisogno di essere ricordata soprattutto nella preghiera per tutti coloro che qui vivono e soffrono questa terribile situazione. Si possono sostenere opere e progetti che cercano di offrire la dignità del lavoro, un supporto in ambiti importanti come l’istruzione e la sanità e sarà sempre importante impegnarsi a continuare a lavorare per la Pace
Da Betlemme vi giunga la Luce del Salvatore, che porta Pace e serenità a tutta l’umanità!

(*) vicario della Custodia di Terra Santa

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Natale a Gaza. Suor Saleh: ” Una preghiera incessante di pace e doni ai bambini”

Mar, 26/12/2023 - 11:47

“Pregate per noi e per la fine della guerra a Gaza”: è stata questa la preghiera, “incessante”, che si è levata dalla parrocchia cattolica della Sacra Famiglia della Striscia di Gaza, nella Messa del 24 dicembre e della Mattina di Natale, celebrate dal vicario parrocchiale padre Youssef Asaad. Sotto l’altare della piccola chiesa, usata di notte da molti sfollati come ricovero dai raid israeliani, alla fine è apparso un piccolo presepe, e davanti a questo una mangiatoia con il Bambino deposto sopra. Non ci sono macerie e fili spinati a fare da sfondo al Bambino, “da queste ne siamo circondati” dice al Sir suor Nabila Saleh, delle Suore del Rosario di Gerusalemme, sfollata in parrocchia insieme ad altri 600 cristiani. Il bambino è poggiato su un telo ricamato ad indicarne la regalità in mezzo a tanta distruzione. “Abbiamo celebrato la Messa del 24 dicembre alle 4 del pomeriggio – spiega la religiosa – c’erano molti fedeli”.

Gaza (Foto N. Saleh)

“Padre Youssef ci ha invitato a guardare a Gesù Bambino come il Salvatore che viene a donare luce a questo momento di tenebra. Abbiamo cantato e pregato per il dono della pace e per la fine della violenza”.

Negli scorsi anni, proprio di questi giorni, la piccola comunità di Gaza era solita ritrovarsi intorno al patriarca latino in visita, card. Pierbattista Pizzaballa, per celebrare il Natale e scambiare doni e vivere momenti di festa. “Quest’anno – continua suor Nabila – ci sono giunte le sue parole dalla Messa di Mezzanotte a Betlemme. La sua vicinanza e quella di Papa Francesco, che ci chiama ogni giorno, per noi è fonte di gioia e di sollievo”. L’augurio del cardinale per i cristiani di Gaza è significativo: “Nasca Cristo anche nella nostra piccola comunità di Gaza. Ero solito passare qualche giorno con voi, carissimi, prima di Natale. Quest’anno non è stato possibile, ma non vi abbandoniamo. Siete nel nostro cuore e tutta la comunità cristiana di Terra Santa e nel mondo si stringe intorno a voi, che sentiate per quanto possibile il calore della nostra vicinanza e del nostro affetto”.

Doni ai bambini. Anche se circondati da macerie i bambini della parrocchia hanno potuto gioire grazie a dei piccoli doni, “soprattutto dolcetti” che, rivela suor Nabila, “abbiamo confezionato per loro. Siamo riusciti a strappare loro un sorriso dopo tante lacrime e sofferenze. La Provvidenza non ci ha mai abbandonato, così è accaduto che il 21 dicembre scorso abbiamo ricevuto, non so da dove, del carburante. Abbiamo riavviato il generatore. Abbiamo cucinato, preso acqua e energia elettrica. Ancora doni e aiuti umanitari ci sono arrivati anche il 24 dicembre dal Regno di Giordania”. Altri aiuti sono stati consegnati anche agli sfollati ospitati all’interno della chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, situata a poca distanza dalla parrocchia cattolica, nel quartiere di Zeitoun. Si tratta del settimo carico di aiuti voluti per i cristiani di Gaza dal Re Abdullah II di Giordania.

Padre Youssef (a sx) e padre Silas (Foto parrocchia latina)

Una visita gradita. Ieri mattina, dopo la Messa di Natale, nella chiesa cattolica è arrivata una piccola delegazione greco-ortodossa guidata dal parroco, padre Silas. Un incontro “fortemente voluto”, nonostante i pericoli di spostamento, dal parroco greco-ortodosso per rispettare il tradizionale rito dello scambio di auguri. La Chiesa ortodossa celebrerà il Natale il prossimo 7 Gennaio 2024, a tre mesi esatti dallo scoppio della guerra. Nel frattempo non si fermano i combattimenti. La notte tra il 24 e il 25 dicembre è stata una delle più sanguinose: colpite da Israele Khan Younis e Rafah, al confine con l’Egitto. “Continuano tutti a sparare e a combattere – conferma suor Nabila – ma noi continueremo a pregare per la fine della guerra e per la pace”.

 

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I cattolici del Nicaragua e l’oppressione del potere

Mar, 26/12/2023 - 10:39

Secondo il dizionario, la parola “martire” deriva dal termine greco che significa “testimone”. Se c’è una cosa che posso affermare categoricamente oggi, è che la Chiesa del Nicaragua sta dando una straordinaria testimonianza di fede incarnata, nella realtà di un popolo sottomesso a un giogo totalitario, che pretende falsamente di essere “cristiano”, mentre non rispetta tutte le libertà dei suoi cittadini.
Dall’inizio della grave crisi socio-politica che affligge il Paese centroamericano, a partire dall’aprile 2018, i cattolici nicaraguensi hanno dovuto affrontare 667 attacchi perpetrati dallo Stato e da civili simpatizzanti del regime di Daniel Ortega, secondo il rapporto “Nicaragua, una Chiesa perseguitata?” curato dall’attivista e avvocata Martha Patricia Molina.
Nello stesso periodo di cinque anni (2018-2023), 151 sacerdoti e 76 suore sono stati espulsi dal Paese dal regime nicaraguense, secondo un rapporto del collettivo per i diritti umani “Nicaragua nunca +” (“Nicaragua mai più”). Alla luce di questi dati, ci troviamo di fronte a quella che potrebbe essere una delle più dure persecuzioni mai commesse da un Governo latinoamericano contro la fede cattolica.

Le ragioni di questo attacco sistematico alla fede sono semplici. La Chiesa si è schierata dalla parte di coloro che chiedevano il ritorno alla democrazia dopo tre decenni di un Governo che non ammette alcun dissenso, che ha chiuso tutti i canali istituzionali per arrivare a un cambiamento e che ha commesso crimini contro l’umanità nei confronti dei suoi cittadini, come certificato dalla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) e dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr).

In Nicaragua, le parole di Papa Francesco, che vede la Chiesa come un ospedale da campo, sono diventate realtà. Quando civili armati simpatizzanti del regime e la polizia hanno attaccato i manifestanti pro-democrazia, le porte delle parrocchie erano aperte, affinché la popolazione potesse ripararsi dai proiettili ed essere assistita fisicamente e spiritualmente. Il regime di Ortega non lo ha mai perdonato.
Parallelamente, i vescovi hanno agito come mediatori e testimoni in un dialogo nazionale tra Ortega e l’opposizione. La Chiesa è stata molto lungimirante, e ha proposto al Paese elezioni anticipate e un avvicendamento delle persone alla guida delle varie Istituzioni statali, per incanalare le richieste della popolazione attraverso metodi civili e costituzionali. Non hanno chiesto nulla per sé o per l’episcopato. In quel processo, hanno lavorato con la migliore disposizione d’animo per dimostrare che noi nicaraguensi potevamo risolvere le nostre dispute politiche senza violenza.

La risposta di Ortega e di sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo, è stata un attacco verbale ai vescovi, ai sacerdoti e ai religiosi, che ha suscitato una retorica anticlericale mai vista prima in Nicaragua. Assieme a queste parole, il regime di Managua giustifica la detenzione dei sacerdoti, l’assedio alle chiese, l’organizzazione di feste religiose parallele a quelle gestite dalla Chiesa, e persino l’espulsione delle suore che praticano la carità verso i più poveri.

Ciò che sta accadendo oggi in Nicaragua, può essere riassunto con nomi e cognomi. In particolare, mons. Rolando José Álvarez Lagos, vescovo di Matagalpa, trascorrerà il suo secondo Natale in una cella del penitenziario “Jorge Navarro”, per un’ingiusta condanna a 26 anni di carcere per il reato di “tradimento”.
Mons. Rolando, vescovo esemplare e cittadino coerente, ha avuto l’opportunità di andare in esilio in almeno due occasioni, e in entrambi i casi ha preferito correre il rischio di rimanere in cella all’ergastolo piuttosto che abbandonare i suoi fedeli. È, senza dubbio, un testimone della fede nel XXI secolo.
La testimonianza profetica della Chiesa del Nicaragua, incarnata oggi nella figura del vescovo imprigionato di Matagalpa, rappresenta l’amore, la speranza, la dignità e la lotta pacifica di un intero Paese. di fronte a una tirannia crudele e immorale.
I cattolici del Nicaragua, come i primi cristiani perseguitati durante l’Impero romano, pregano e resistono in silenzio, di fronte a un autoritarismo che vuole schiacciarli. E come quei primi testimoni di Gesù, sanno che il martirio e la croce sono semi di fede.
Il popolo nicaraguense e la sua Chiesa impegnata nella difesa dei diritti umani sono, oggi, crocifissi da un potere temporale oppressivo, ma sono certi che un giorno risorgeranno a nuova vita nella libertà dei figli e delle figlie di Dio.

(*) Giornalista nicaraguense, esiliato dal 2019 in Spagna

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Betlemme, Messa di Mezzanotte. Card. Pizzaballa: “Cristo rinasca nel cuore dei governanti e dei responsabili delle nazioni”

Lun, 25/12/2023 - 11:23

“Siamo tutti presi, da troppi giorni, dalla dolorosa, triste sensazione che non ci sia posto, quest’anno, per quella gioia e quella pace che in questa notte santa, proprio a pochi metri da qui, gli angeli annunciarono ai pastori di Betlemme”.

(Foto patriarcato latino)

Così il patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa ha dato voce al “sentimento profondo” con il quale la comunità cristiana di Terra Santa sta vivendo questo Natale. Da una Betlemme senza luminarie, priva dell’albero di Natale e vuota di pellegrini, il patriarca latino ha riletto il passo del Vangelo di Luca proclamato poco prima, “perché non c’era posto per loro”, agganciandolo alla cronaca di questi giorni, alla guerra a Gaza: “In questo momento non possiamo non pensare a tutti quelli che in questa guerra sono rimasti senza nulla, sfollati, soli, colpiti nei loro affetti più cari, paralizzati dal loro dolore”.

 

“Il mio pensiero va a tutti, senza distinzione, palestinesi e israeliani, a tutti quelli colpiti da questa guerra, a quanti sono nel lutto e nel pianto e attendono un segno di vicinanza e di calore”.

(Foto Patriarcato Latino)

Il pensiero del porporato, in particolare, è andato a Gaza e ai suoi due milioni di abitanti, “la cui sofferenza non cessa di gridare al mondo intero. Non sembra esserci posto per loro non solo fisicamente, ma nemmeno nella mente di coloro che decidono le sorti dei popoli”. “È la situazione in cui da troppo tempo vive il popolo palestinese – ha sottolineato Pizzaballa – che pur vivendo nella propria terra, si sente dire continuamente: ‘non c’è posto per loro’, e attende da decenni che la comunità internazionale trovi soluzioni per porre fine all’occupazione, sotto la quale è costretta a vivere, e alle sue conseguenze. Mi sembra che oggi ciascuno sia chiuso nel suo dolore. Odio, rancore e spirito di vendetta occupano tutto lo spazio del cuore, e non lasciano posto alla presenza dell’altro. Eppure, l’altro ci è necessario. Perché il Natale è proprio questo, è Dio che si fa umanamente presente, e che apre il nostro cuore ad un nuovo modo di guardare il mondo”.

Dov’è il Natale? Lecito, per il patriarca latino, chiedersi “dove è il Natale quest’anno? Quale è oggi il luogo del Natale?” La risposta: “Luogo del Natale è innanzitutto Dio. Il Natale di Cristo avviene in principio nel Cuore misericordioso del Padre. Nelle attuali circostanze, noi, la Chiesa tutta, deve tornare a Dio se vuole ritrovare la gioia vera del Natale. Prima e oltre ogni spiegazione sociale e politica, la violenza e la sopraffazione dell’altro trovano la loro ultima radice nell’aver dimenticato Dio, contraffatto il Suo Volto, usato in modo strumentale e falso il rapporto religioso con Lui, come in questa nostra Terra Santa avviene troppo spesso.

Non può chiamare Dio ‘Padre’ chi non sa chiamare ‘fratello’ il suo simile”.

Anche il ‘sì’ di Maria e di Giuseppe è però “il luogo del Natale. La loro obbedienza e fedeltà è la casa in cui il Figlio è venuto ad abitare. Dovunque qualcuno è disponibile a mettere la propria vita a servizio della Pace che viene dall’Alto e non soltanto a badare ai propri interessi, lì nasce e rinasce il Figlio”.

(Foto Patriarcato latino)

Moltiplicare i gesti di pace. “Se vogliamo che sia Natale, anche in tempo di guerra, occorre che tutti moltiplichiamo i gesti di fraternità, di pace, di accoglienza, di perdono, di riconciliazione”. A partire, ha affermato Pizzaballa, “da me e da chi, come me, ha responsabilità di guida e di orientamento sociale, politico e religioso, a creare una ‘mentalità del sì’ contro la “strategia del no’. Dire sì al bene, sì alla pace, sì al dialogo, sì all’altro non deve essere solo retorica ma impegno responsabile, disposto a fare spazio, non a occuparlo, a trovare un posto per l’altro e non a negarlo. Non sarà diversamente per la Giustizia e la Pace: non ci sarà giustizia, non verrà la pace senza lo spazio aperto dal nostro ‘sì’ disponibile e generoso”. Per il patriarca, poi,

“non sarebbe Natale senza i Pastori, i primi a trovare il Bambino. Gente sveglia, abituati all’essenziale, capaci di azione, disponibili al nuovo, senza troppi calcoli o ragionamenti e perciò pronti al Natale”.

“In un tempo segnato da rassegnazione, odio, rabbia, depressione, abbiamo bisogno di cristiani così perché ci sia ancora posto per il Natale! Noi siamo qui e intendiamo continuare a essere i pastori del Natale”.

L’appello. Chiudendo la sua omelia Pizzaballa si è rivolto a tutte le Chiese nel mondo: “fatevi latori presso i vostri popoli e i loro governanti del ‘si’ a Dio, del desiderio di bene per questi nostri popoli, per la cessazione delle ostilità, perché tutti possano ritrovare davvero casa e pace. Prego che

Cristo rinasca nel cuore dei governanti e dei responsabili delle nazioni,

perché si adoperino sul serio per fermare questa guerra, ma soprattutto perché riprendano le fila di un dialogo che porti finalmente a trovare soluzioni giuste, dignitose e definitive per i nostri popoli. La tragedia di questo momento, infatti, ci dice che non è più tempo per tattiche di corto respiro, di rimandi ad un futuro teorico, ma che

è tempo di dire, qui e ora, una parola di verità, chiara, definitiva, che risolva alla radice il conflitto in corso,

ne rimuova le cause profonde e apra nuovi orizzonti di serenità e di giustizia per tutti, per la Terra Santa ma anche per tutta la nostra regione, segnata anch’essa da questo conflitto. Le parole come occupazione e sicurezza e le tante altre parole simili che da troppo tempo dominano i nostri rispettivi discorsi, devono essere rafforzate da fiducia e rispetto, perché questo è ciò che vogliamo che sia il futuro per questa terra e solo questo garantirà stabilità e pace vere. Rinasca allora Cristo in questa terra, Sua e nostra, e riparta da qui il cammino del Vangelo della pace per tutto il mondo!”

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Natale. Affinati: “Bombe e macerie sono il triste scenario di oggi, ma noi siamo chiamati a scegliere tra il bene e il male”

Lun, 25/12/2023 - 10:11

Gesù Bambino e la nuova strage degli innocenti: dei bambini che stanno pagando senza colpa la brutale follia di nuovi spietati Erodi, e proprio nella terra del Principe della pace: piccoli israeliani ostaggi di Hamas e bimbi palestinesi morti o gravemente feriti sotto le bombe, privati di tutto e costretti ad una vita di stenti. Ma anche dei piccoli ucraini sotto la tempesta scatenata dai russi, e di tutti i bambini che vivono negli infiniti teatri di guerra del pianeta. Come annunciare la speranza e la luce del Natale di fronte al male assoluto e a tanta sofferenza innocente? Lo abbiamo chiesto a Eraldo Affinati, scrittore e insegnante romano, fondatore 15 anni fa con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati, oggi quasi 60 realtà su tutto il territorio nazionale.

Un Natale insanguinato. Se Gesù nascesse oggi, nascerebbe sotto le bombe e tra le macerie di Gaza?
Gesù è nato nel mondo così com’è sempre stato, non come vorremmo che fosse: questo è il grande tema della libertà. Noi esseri umani dobbiamo poter scegliere fra bene e male, altrimenti non saremmo persone vere, ma soltanto fantocci.

Le bombe e le macerie di Gaza sono il triste scenario dei nostri tempi, eppure nel fondo niente è cambiato rispetto a 2023 anni fa.

L’uomo resta potenzialmente malvagio e noi siamo sempre chiamati a prendere posizione di fronte alla violenza che scaturisce dalla brama di potere dei nostri simili: non possiamo restare indifferenti. Dobbiamo entrare in azione, anche rischiando di sbagliare: dopodiché il credente si rimette alla misericordia di Dio.

Foto SIR

Fino a che punto le guerre alle porte dell’Europa ci coinvolgono?
Nessun uomo dovrebbe tracciare un confine divisorio assoluto fra sé e il mondo. “Non chiedere mai per chi suona la campana, essa suona per te”, scrisse il John Donne citato da Ernest Hemingway. Se riuscissimo a sentirci parte della medesima avventura esistenziale, avremmo interpretato anche il senso profondo del Natale inteso come rinascita della natura dopo la massima oscurità. I ragazzi, lo sappiamo, possiedono spesso più degli adulti questa coscienza ecologica planetaria dalla quale potremmo ripartire per sviluppare in loro il bene comune.

Come annunciare la speranza e la luce del Natale di fronte al male assoluto e alla sofferenza innocente di tanti bambini?
Dobbiamo ripartire sempre dalla persona che abbiamo di fronte, prima ancora che da un’idea astratta del bene. I bambini che ho la fortuna di vedere io sono quelli sopravvissuti alle stragi: il piccolo Ibrahim che gira scomposto fra i banchi della Penny Wirton giocando con il lego, curiosissimo e sempre in movimento; la neonata africana, in braccio alla volontaria, che mi stringe forte il dito, dopo aver viaggiato sul barcone nella pancia di sua madre,  alla quale hanno dato un nome emblematico: Miracle!; Andrej, proveniente da Černivci, in Ucraina, una città dove io sono stato quest’estate. Non posso dimenticare Mascia, otto anni, di Karkiv, costretta a studiare nel bunker, come i suoi coetanei che da più di quattro anni (due di pandemia, due di guerra) non possono andare a scuola normalmente. Devono collegarsi da remoto.

Insegnare l’italiano a questi bambini per noi è un privilegio: sono loro la nostra luce nelle tenebre.

Maria, la donna e la madre che con coraggio e sapienza si fida di Dio, fugge profuga in Egitto per mettere in salvo il suo bambino e custodisce nel cuore emozioni e pensieri su quel figlio così speciale. Che cosa ci insegna? E come parla alle tante donne che oggi affrontano il mare, il deserto, i campi di detenzione, sopportano fame, sete e abusi per salvare i propri figli e tentare di dare loro una vita migliore?
Maria, anche se all’inizio, nell’incontro con l’angelo dell’Annunciazione, non comprende appieno ciò che le sta accadendo, decide ugualmente di sottomettersi alla volontà imperscrutabile di Dio. E’ un gesto emozionante perché va oltre la logica, chiama in causa il fondo oscuro del sentimento: se la fede non è questo, rischia di ridursi a un povero costrutto mentale.

Maria ci insegna il valore del sì alla vita. La sua fiducia sconfinata, illimitata, potente, umile e lungimirante, mi fa pensare alle tante donne che arrivano in Italia coi figli senza padre.

Magari questi piccoli sono il frutto di una violenza, non lo sappiamo, ma lo sguardo amoroso che ora ricevono dalle loro madri potranno, se lo vorranno, restituirlo ad altri quando saranno grandi. La maternità è in questo senso la massima propulsione vitale della specie a cui apparteniamo.

Giuseppe, l’uomo e il padre. Forte e al tempo stesso delicato verso Maria, un potente archetipo maschile per la nostra società di uomini spesso fragili e talvolta violenti. Un modello di paternità autorevole e controcorrente – nell’attuale società “senza padri” – silenzioso ma determinato nel proteggere la propria famiglia seguendo la volontà del Signore rivelatagli in sogno dagli angeli. Che cosa ci dice la sua figura?
Giuseppe rappresenta la dimensione universale della paternità: mentre la condizione biologica del padre è naturale, quella putativa va conquistata. Contano molto la famiglia e la scuola, i modelli sociali di riferimento, la cultura, i costumi. Dovremmo maturare la consapevolezza che

i figli non sono soltanto dei genitori che li fanno nascere e li allevano, ma dovrebbero essere anche della comunità in cui crescono:

i veri insegnanti vivono sulla propria pelle questa sensazione ogni volta che entrano in classe. Il discorso che il padre della povera Giulia Cecchettin ha tenuto al funerale di sua figlia è stato significativo perché ci ha fatto capire che una tragedia come quella da lui vissuta non andrebbe confinata in una sfera unicamente privata. Dovremmo condividerla tutti noi. E’ questo, a ben riflettere, il senso del carisma giuseppino.

Gesù ha scelto di nascere fragile, povero, escluso – “non c’era posto per loro” – profugo, insomma al di fuori di ogni schema prestabilito. Quale provocazione rappresenta ancora oggi la sua nascita?
Prima del cristianesimo Dio era spesso stato immaginato come un giudice severo al cui cospetto noi dovevamo soltanto inchinarci reverenti e timorosi. Lo scandalo di un Dio che si fa uomo, assumendo su di sé il peso del mondo e che s’incarna in un essere indifeso destinato alla sconfitta e al fallimento terreno ha cambiato la Storia, anche se troppe volte chi dice di credere dimentica la potenza che intimamente ognuno di noi custodisce in seno.

Gesù, nello scardinamento delle categorie di spazio e tempo, continua a tornare nella persona bisognosa in cerca di aiuto: nel momento in cui noi andiamo incontro alla sua richiesta, insieme al profugo accogliamo anche Lui.

Ma il Natale parla ancora ai giovani di oggi?
Purtroppo non sempre come vorremmo. La gran parte di loro, ammettiamolo, lo vive solo come una festa mondana.

E noi cosa possiamo fare?
Dobbiamo rinnovare il linguaggio religioso affiancando alle parole tradizionali, che non vanno abbandonate, nuove forme espressive, legate all’esperienza contemporanea. Solo così potremo far entrare gli adolescenti nella grotta di Betlemme.

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Papa Francesco: “Il nostro cuore stasera è a Betlemme”

Dom, 24/12/2023 - 21:06

“Il nostro cuore stasera è a Betlemme, dove ancora il Principe della pace viene rifiutato dalla logica perdente della guerra, con il ruggire delle armi che anche oggi gli impedisce di trovare alloggio nel mondo”. Il primo pensiero di Papa Francesco, nell’omelia della Messa della notte di Natale presieduta nella basilica di San Pietro, è per la tragica attualità. Citando il censimento ai tempi di Gesù, Francesco ha fatto notare che “manifesta da una parte la trama troppo umana che attraversa la storia: quella di un mondo che cerca il potere e la potenza, la fama e la gloria, dove tutto si misura coi successi e i risultati, con le cifre e con i numeri. È l’ossessione della prestazione”. Ma nello stesso tempo, “nel censimento risalta la via di Gesù, che viene a cercarci attraverso l’incarnazione”: “Non è il dio della prestazione, ma il Dio dell’incarnazione. Non sovverte le ingiustizie dall’alto con forza, ma dal basso con amore; non irrompe con un potere senza limiti, ma si cala nei nostri limiti; non evita le nostre fragilità, ma le assume”.

“Stanotte possiamo chiederci: noi in che Dio crediamo? Nel Dio dell’incarnazione o in quello della prestazione?”,

si è chiesto il Papa, mettendo in guardia dal “rischio di vivere il Natale avendo in testa un’idea pagana di Dio, come se fosse un padrone potente che sta in cielo; un dio che si sposa con il potere, con il successo mondano e con l’idolatria del consumismo”. “Sempre torna l’immagine falsa di un dio distaccato e permaloso, che si comporta bene coi buoni e si adira coi cattivi; di un dio fatto a nostra immagine, utile solo a risolverci i problemi e a toglierci i mali”, il monito di Francesco:

“Lui, invece, non usa la bacchetta magica, non è il dio commerciale del ‘tutto e subito’;

non ci salva premendo un bottone, ma si fa vicino per cambiare la realtà dal di dentro. Eppure, quanto è radicata in noi l’idea mondana di un dio distante e controllore, rigido e potente, che aiuta i suoi a prevalere contro altri! Ma non è così: lui è nato per tutti, durante il censimento di tutta la terra”. “Guardiamo dunque al Dio vivo e vero”, l’invito per Natale: “a lui, che sta al di là di ogni calcolo umano eppure si lascia censire dai nostri conteggi; a lui, che rivoluziona la storia abitandola; a lui, che ci rispetta al punto da permetterci di rifiutarlo; a lui, che cancella il peccato facendosene carico, che non toglie il dolore ma lo trasforma, che non ci leva i problemi dalla vita, ma dà alle nostre vite una speranza più grande dei problemi. Desidera così tanto abbracciare le nostre esistenze che, infinito, per noi si fa finito; grande, si fa piccolo; giusto, abita le nostre ingiustizie.

Ecco lo stupore del Natale: non un miscuglio di affetti sdolcinati e di conforti mondani, ma l’inaudita tenerezza di Dio che salva il mondo incarnandosi.

Dio si è fatto carne, “è entrato fino in fondo nella nostra condizione umana perché gli interessa tutto di noi, perché ci ama al punto da ritenerci più preziosi di ogni altra cosa”, la sintesi del mistero dell’incarnazione. “Fratello, sorella, per Dio che ha cambiato la storia durante il censimento

tu non sei un numero, ma un volto; il tuo nome è scritto nel suo cuore”,

l’appello rivolto a ciascuno di noi: “Ma tu, guardando al tuo cuore, alle tue prestazioni non all’altezza, al mondo che giudica e non perdona, forse vivi male questo Natale, pensando di non andare bene, covando un senso di inadeguatezza e di insoddisfazione per le tue fragilità, per le tue cadute e i tuoi problemi. Ma oggi, per favore, lascia l’iniziativa a Gesù, che ti dice: ‘Per te mi sono fatto carne, per te mi sono fatto come te’. Perché rimani nella prigione delle tue tristezze? Come i pastori, che hanno lasciato le loro greggi, lascia il recinto delle tue malinconie e abbraccia la tenerezza di Dio bambino. Senza maschere e senza corazze getta in lui i tuoi affanni ed egli si prenderà cura di te: lui, che si è fatto carne, non attende le tue prestazioni di successo, ma il tuo cuore aperto e confidente. E tu in lui riscoprirai chi sei: un figlio amato di Dio, una figlia amata da Dio. Ora puoi crederlo, perché stanotte il Signore è venuto alla luce per illuminare la tua vita e i suoi occhi brillano d’amore per te”.

“Cristo non guarda ai numeri, ma ai volti. Chi, però, guarda a Lui, tra le tante cose e le folli corse di un mondo sempre indaffarato e indifferente?”,

la domanda esigente del Papa. “A Betlemme, mentre molta gente, presa dall’ebbrezza del censimento, andava e veniva, riempiva gli alloggi e le locande parlando del più e del meno, alcuni sono stati vicini a Gesù: sono Maria e Giuseppe, i pastori, poi i magi”, ha ricordato Francesco: “Impariamo da loro. Stanno con lo sguardo fisso su Gesù, con il cuore rivolto a lui. Non parlano, ma adorano. L’adorazione è la via per accogliere l’incarnazione. Perché è nel silenzio che Gesù, Parola del Padre, si fa carne nelle nostre vite”. “Facciamo anche noi come a Betlemme, che significa ‘casa del pane’”, l’esortazione del Papa: “stiamo davanti a lui, Pane di vita.

Riscopriamo l’adorazione, perché adorare non è perdere tempo,

ma permettere a Dio di abitare il nostro tempo. È far fiorire in noi il seme dell’incarnazione, è collaborare all’opera del Signore, che come lievito cambia il mondo. È intercedere, riparare, consentire a Dio di raddrizzare la storia”. Poi la citazione di Tolkien, “un grande narratore di imprese epiche”, che scrisse a suo figlio: “Ti offro l’unica cosa grande da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento. Lì troverai fascino, gloria, onore, fedeltà e la vera via di tutti i tuoi amori sulla terra”. “Stanotte l’amore cambia la storia. Fa’ che crediamo, o Signore, nel potere del tuo amore, così diverso dal potere del mondo”, la preghiera finale.

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Natale in Siria. Mons. Mourad (Homs): “è la pratica della gioia”

Dom, 24/12/2023 - 09:18

“Non si parla più della Siria perché oggi ci sono altre guerre che occupano spazio. Questa è la realtà, triste delle guerre. Purtroppo la politica e i media seguono questa, chiamiamola così, ‘moda’. Ma in Siria la guerra non può dirsi del tutto finita, viste le condizioni in cui versa il Paese intero”.

Padre Jacques Mourad, arcivescovo di Homs (Siria)

Mancano pochi giorni al Natale e mons. Jacques Mourad, arcivescovo siro-cattolico di Homs, non dimentica il suo Paese, la Siria, segnata dalla guerra scoppiata nel 2011, e la sofferenza del suo popolo. Mons. Mourad fu rapito il 21 maggio del 2015 dai jihadisti nel monastero di Mar Elian, a Qaryatayn, dove era parroco, e tenuto prigioniero per cinque mesi. Da questa esperienza, raccontata nel libro “Un monaco in ostaggio. La lotta per la pace di un prigioniero dei jihadisti”, il presule ha tratto ulteriore consapevolezza che “il dialogo è l’unica via per uscire dal caos attuale” che sta affliggendo la Siria, e, in particolare dal 7 ottobre scorso, anche la Palestina, Israele e la Striscia di Gaza.

Dialogo, unica via. Nei giorni scorsi in Italia per una serie di appuntamenti, mons. Mourad è stato ricevuto in udienza privata da Papa Francesco e ha incontrato anche il segretario della Cei, mons. Giuseppe Baturi. Al centro dei colloqui la situazione in Siria. “Ho ringraziato mons. Baturi per il suo coraggio mostrato nel venire in Siria subito dopo il terremoto del 6 febbraio scorso – dice al Sir l’arcivescovo siro-cattolico -. Gli ho detto che

Homs, foto SIR/Marco Calvarese

l’unica luce, l’unica stella per i cristiani e anche per i musulmani, oggi in Siria è la Chiesa.

È un punto di riferimento dove tutti trovano consolazione e risposte ai bisogni perché le sue porte sono sempre aperte a tutti. Questa è la nostra missione e la nostra testimonianza di fede in mezzo ai fratelli musulmani” dice mons. Mourad che ribadisce: “Il dialogo, unica via per uscire da questo caos di violenza, per noi è un atto di fede, spirituale puro, non solo umano. Siamo chiamati da Dio, come si legge nel Vangelo di Matteo, ad amare tutti senza distinzioni”. Un insegnamento che riporta la mente a padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano fondatore della Comunità di Mar Mousa, rapito a Raqqa e del quale non si hanno notizie dal 2013. Oggi, dopo 12 anni di guerra e un terremoto disastroso, “i siriani vivono in condizioni di grave povertà materiale e soffrono molto. Non si trovano acqua, carburante, medicine. La mancanza di denaro – spiega il presule – impedisce di acquistare il cibo necessario a vivere. I salari sono così bassi che a malapena bastano per coprire tre o quattro giorni. Conosco famiglie che mangiano poco e una volta sola al giorno. I più fortunati mangiano carne una volta al mese e quella volta è una vera festa”.

Ma la cosa più grave, aggiunge mons. Mourad, è “la corruzione che domina ogni settore della vita sociale. I siriani sono così prostrati che quasi non si sentono più degni di vivere e per questo cercano una via di fuga all’estero, sognando un futuro migliore”.

Parlare di ricostruzione, poi, è inutile, “perché non se ne vede traccia, è triste dirlo, ma è la realtà. E la decisione di cambiare questa realtà – dichiara l’arcivescovo – è nelle mani della cosiddetta comunità internazionale”.

Natale, gioia da donare. Allora che Natale sarà il prossimo tra i siriani? La risposta di mons. Mourad non si fa attendere: “La venuta di Gesù ci ricorda che Dio si è incarnato per la salvezza dell’umanità. Facendo del bene possiamo dare aiuto”. È con questo spirito che la comunità cristiana di Homs si accinge a trascorrere il Natale. “Nelle nostre condizioni accendere luci o mettere decorazioni non ci aiuta a vivere il Natale. Dobbiamo donare gioia a chi soffre, aiutare chi deve portare un peso troppo grande a causa delle situazioni in cui si trova a vivere. La Chiesa – ammette – non può fare tutto ma non può rinunciare a questa sua missione.

Il Natale è la pratica della gioia, è gioia da donare, e in questo momento è essenziale.

La stella che annuncia la nascita di Gesù tra di noi non può essere oscurata dal male”. In Siria come a Gaza, in Israele, in Palestina e in tante altre zone del mondo.

Preghiera di Natale. “A Natale eleveremo ancora più forte la nostra preghiera per la pace in Terra Santa – dichiara mons. Mourad – quasi a rompere il silenzio del mondo davanti a tanta violenza e a tanto odio. Gesù nasce in tutti i bambini che soffrono. Nell’incarnazione è significativa la solidarietà di Dio con i più deboli del nostro mondo e i più deboli di oggi sono i bambini. Essi sono innocenti.

La pace – conclude il presule – non è un atto magico, ma è solidarietà umana, internazionale. Il mondo alzi la voce contro il commercio di armi. Per la pace abbiamo tutti una responsabilità diretta.

Alziamo la nostra preghiera e uniamo il nostro grido a quello di Papa Francesco che, instancabile, è l’unico che continua a credere nella pace e nella giustizia”.

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Natale in Terra Santa. Card. Pizzaballa: “Davanti a tanto odio ripartire da Betlemme”

Dom, 24/12/2023 - 08:50

“Abbiamo bisogno di costruire percorsi di fiducia e di pace, specialmente adesso che siamo immersi in un mare di odio e di tensione che sta provocando disastri impressionanti” a Gaza, in Israele e nei Territori Palestinesi. È un Natale difficile quello che attende i cristiani di Terra Santa ma il messaggio che porta la nascita di Gesù è l’antidoto all’odio: “non possiamo stare senza l’Altro. Altro che è venuto a noi. Credo che sia ciò di cui abbiamo tutti bisogno adesso”. Ne è convinto il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme che, in un’intervista al Sir, vede nelle parole “fiducia e pace” la strategia politica e sociale di uscita da questa guerra scoppiata il 7 ottobre, dopo l’attacco terroristico di Hamas ad Israele.

Patriarca Pizzaballa a Gaza (Foto Patriarcato Latino – repertorio)

Eminenza, tradizionalmente nella Terza domenica di Avvento (quest’anno il 17 dicembre, ndr.) il Patriarca latino di Gerusalemme è solito visitare la parrocchia cattolica di Gaza per celebrarvi il Natale. Sarebbe stata la sua prima visita da cardinale. Quest’anno purtroppo non è stato così e ci troviamo a commentare qualcosa di terribile. Avrebbe mai immaginato una situazione del genere?
Nessuno, fino a due mesi fa, immaginava dove saremmo sprofondati in questa terra. Dobbiamo fare i conti con una tragedia immane, tra le peggiori, se non la peggiore, degli ultimi decenni dal punto di vista della violenza, del rancore, dell’odio.

Betlemme chiusa (Foto sr. F. Ayad)

Quanto sta avvenendo ci fa volgere lo sguardo più a Gaza che a Betlemme…
Certamente. Gaza assorbe tutte le nostre energie e non possiamo non parlare di Gaza, questo è evidente. Ma, al tempo stesso, non possiamo non allargare lo sguardo anche ai Territori Palestinesi e a Betlemme.

Oggi Betlemme è una città morta, sigillata.

I check point sono quasi tutti chiusi. È morta perché i pellegrini non ci sono e non c’è lavoro.

Che Natale sarà allora?
Sarà un Natale molto più semplice, più povero, modesto, meno eclatante. Come già annunciato non sono previsti eventi pubblici. Natale sarà l’occasione per restare di più in famiglia, una festa da vivere nella sua dimensione più spirituale in stretta solidarietà con chi soffre.

Davanti a tanto odio non dobbiamo dimenticare la nascita di Gesù e per questo siamo chiamati a ripartire dall’evento di Betlemme.

Guai a noi se non lo facessimo. La fede in Gesù ci deve rendere capaci di guardare oltre quello che stiamo vivendo, altrimenti saremmo schiacciati dai fatti.

Natale è anche un’invocazione di pace. In questo mare di odio c’è bisogno di ricostruire dalle macerie morali, spirituali e materiali: come?
C’è da riedificare innanzitutto la fiducia. E non sarà facile. Ci vorrà tanto tempo.

Abbiamo bisogno di parole di fiducia e di volti nuovi, di nuove leadership politiche e religiose, capaci di aprire orizzonti e non di chiuderli.

C’è bisogno di gesti concreti che nel territorio comincino a riportare un po’ di fiducia, che facciano vedere che un cambiamento è possibile, che si può cambiare pagina nelle relazioni umane, nel dialogo interreligioso e soprattutto nella leadership politica.

Insomma, servono operatori di pace. Ma ci sono tra israeliani e palestinesi? E poi, quali sono queste parole di fiducia cui fa riferimento?
Gli operatori di pace ci sono e in tutti gli ambiti. Ma come tutti gli operatori di pace non fanno chiasso. Il chiasso, adesso, lo producono le armi e la violenza. Naturalmente avremo bisogno di loro quando ci sarà da ricostruire. Serviranno persone dotate di visione e di coraggio. I costruttori di pace, dotati di ragionevolezza e di donazione, sono persone coraggiose. Le parole? Sono giustizia, verità, riconciliazione, fiducia, diritto. Queste sono le basi da cui ripartire.

La soluzione Due Popoli Due Stati potrebbe dare sostanza a queste parole? La ritiene una soluzione ancora praticabile?
Credo che sia una soluzione tecnicamente non praticabile ma è anche l’unica possibile. Ciò che questa guerra sta mostrando è che israeliani e palestinesi, in questo momento, non possono vivere insieme. Forse in futuro. Però resteranno qui e dovranno trovare dei modi creativi – non so quali- chiamiamoli anche Due Popoli Due Stati, che diano a ciascuno i suoi spazi, la sua casa e la solidarietà. Ora siamo oppressi da questa situazione e il cambiamento richiederà tempi lunghi. Ci vorrà bisogno di una nuova leadership che prima o poi arriverà. Non bisogna mai disperare. La comunità internazionale dovrà aiutare ma senza sostituirsi ai rispettivi leader.

Ogni Natale che passa vede sempre meno cristiani restare in Terra Santa. L’esodo, a causa delle guerre e delle crisi economiche, sembra inarrestabile. Come invertire la tendenza?
L’esodo riguarda un po’ tutti, non solo i cristiani. Purtroppo il nostro piccolo numero rende l’emigrazione cristiana un fenomeno preoccupante. Per fronteggiarlo, come dicevo prima, servono gesti concreti e parole di fiducia che facciano capire ai nostri fedeli che restare è possibile.

Gesti concreti sono anche gli appelli di Papa Francesco per la pace, per il cessate il fuoco, e le telefonate quotidiane alla parrocchia di Gaza, colpita lo scorso 16 dicembre quando sono state uccise, “a sangue freddo” da un cecchino israeliano, una madre e sua figlia.
Sono gesti molto importanti perché in questo momento è evidente che non possiamo fare molto per cambiare questa situazione. Ricevere parole di vicinanza, sentire gesti di empatia e di solidarietà è importante come l’aria che respiriamo.

Qual è il suo auspicio per questo Natale?
Viviamo un tempo in cui ognuno è chiuso in se stesso, nel suo dolore e nella sua prospettiva. Invece

il Natale ci dice che non possiamo stare senza l’Altro.

Altro che è venuto a noi. Credo che sia ciò di cui abbiamo tutti bisogno adesso.

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Il Magnificat di Beatrice Fazi a Corviale

Sab, 23/12/2023 - 10:29

Vivere il Natale con il Verbo che si fa carne oggi, per ognuno di noi, ogni giorno, benedicendo le nostre vite e la vita dei nostri fratelli aiutando chi è in difficoltà senza giudicare, nella semplicità e nell’amore condiviso: questo e molto altro è stato il senso della testimonianza di Beatrice Fazi a Corviale.
Un incontro che si è svolto dentro il palazzo lungo un chilometro, nel luogo che è anche cuore pulsante della comunità dell’edificio: la Fraternità dell’Incarnazione, al primo lotto, dove ogni giorno si sperimenta la prossimità e l’ascolto attraverso la preghiera e l’accoglienza. Nel giorno in cui – come ogni anno – il presepe viene allestito davanti agli ascensori, luogo di passaggio, di incontro e di silenzi.
Raccolte intorno a Beatrice Fazi, tante donne e uomini hanno ascoltato con attenzione il suo racconto di vita, una testimonianza vera, la recita di un monologo di vita vissuta. I sogni e le speranze di una ragazza di provincia che ambiva a diventare qualcuno o semplicemente ad affermare la propria esistenza, a voler dimostrare che la propria vita era preziosa e che sarebbe riuscita a fare qualcosa di importante.

La storia di una passione, quella della recitazione, che salva ma poi condanna perché si trasforma in qualcosa che “divora la vita”: l’arte che diventa idolo, il successo che inebria e non aiuta a riempire un vuoto che cresceva sempre più.

E poi la grande ferita dell’aborto subita nella solitudine ma anche la gioia della redenzione che passa attraverso lo sguardo misericordioso di una Chiesa capace di accogliere senza giudicare. La testimonianza di una vita che rinnova sempre la stessa domanda, una domanda che tutti ci poniamo fin dagli inizi del mondo: perché siamo qui? Qual è il senso della vita, dell’incontro con le persone?
E non basta più il successo perché ti accorgi di non essere felice. Basta un niente e quelli che facevano a gara a starti vicino, non si ricordano più neanche il tuo nome, ti scansano non appena cadi in disgrazia o sei semplicemente messo da parte.

Chi è che davvero ti vuole bene per quello che sei?

Il primo passo – secondo Beatrice Fazi – è guardarsi dentro, dentro il proprio cuore e cominciare a rendersi conto che la prima maschera dobbiamo togliercela noi: perché gli altri si dovrebbero comportare con me diversamente da come mi comporto io con loro?
Il secondo passo è guardare fuori e scoprire negli altri una luce nuova, una gioia della quale non puoi più fare a meno. Partire da un incontro che ti faccia alzare in piedi e cominciare a camminare, che ti aiuti a scoprire che ognuno di noi è chiamato alla santità.
È quello il momento in cui ti chiedi – ha detto Beatrice Fazi – non in maniera incredula, ma come Maria: come è possibile che io sia chiamata alla santità? Con il desiderio dunque di concorrere a questa grazia. Nessuno è escluso nel momento in cui incontra gli occhi misericordiosi di Cristo.
Quello è il momento in cui ognuno di noi può cominciare a recitare, guidato da Maria, il suo Magnificat.

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In sala il cartoon “Wish” e il dramma “One Life”. Su Netflix il biopic “Maestro”

Sab, 23/12/2023 - 10:22

A Natale ricca è l’offerta di cinema: dalla fantasia colorata di “Wonka” al dramma adrenalinico “Ferrari”, alla favola esistenziale “Foglie al vento”. Due poi le novità in arrivo dal 21 dicembre: “Wish”, il cartoon della Disney nell’anno del suo centenario, un’animazione diretta dal Premio Oscar Chris Buck e Fawn Veerasunthorn. Una splendida storia che valorizza il sogno, la speranza e l’amicizia. Le voci italiane sono di Gaia, Michele Riondino e Amadeus. In sala con Eagle Pictures il dramma storico “One Life” diretto da James Hawes con il Premio Oscar Anthony Hopkins: la storia vera di Sir Nicholas Winton che nel 1938 salvò a Praga 669 bambini ebrei. Un gesto eroico rimasto sconosciuto ai più sino alla fine degli anni ’80, quando una trasmissione della BBC portò alla luce la vicenda. Infine, su Netflix il biopic “Maestro”, la seconda regia di Bradley Cooper, un intenso ed elegante ritratto del compositore Leonard Bernstein tra podio e famiglia. A condividere la scena con Cooper una magnifica Carey Mulligan. Il film corre per quattro premi di peso ai prossimi Golden Globe. Il punto Cnvf-Sir.

“Wish” (Cinema, 21.12)
La Disney si presenta all’appuntamento del Natale con “Wish”, un film animato splendido, capace di parlare al nuovo pubblico ma anche alle generazioni passate. Un’opera che condensa la nostalgia dolce per i titoli “classici” della casa di Topolino e i cult contemporanei alla “Frozen”. A dirigere “Wish” è il Premio Oscar Chris Buck insieme a Fawn Veerasunthorn, a firmare la sceneggiatura sono Jennifer Lee (“Frozen. Il regno di ghiaccio”; “Frozen 2. Il Segreto di Arendelle”) e Allison Moore. Le voci dei personaggi nella versione originale sono Ariana DeBose (Asha) e Chris Pine (re Magnifico), mentre in quella italiana della cantante Gaia, di Michele Riondino e Amadeus.

La storia. Il regno magico di Rosas, su un’isola nel Mediterraneo, è governato da re Magnifico, che ha il potere di esaudire desideri e sogni del suo popolo. A Rosas vive la diciassettenne Asha, che vorrebbe diventare apprendista del re, anche per poter esaudire il sogno del nonno centenario. Una sera Asha si imbatte in una piccola stella, Star, che accorre al suo richiamo per aiutarla…

EVERYONE HAS A WISH – In Walt Disney Animation Studios’ “Wish,” Asha’s pet goat, Valentino, is among the first to experience the magic of Star, a little ball of boundless energy inadvertently summoned by Asha. Featuring the voices of Academy Award®-winning actress Ariana DeBose as Asha and Alan Tudyk as Valentino, the epic animated musical “Wish” hits the big screen on Nov. 22, 2023. © 2023 Disney. All Rights Reserved.

A conquistare di “Wish” è anzitutto la dimensione visiva, l’incontro tra il disegno tradizionale e la computer grafica. È la Disney di ieri che dialoga con quella di oggi. Una delizia le citazioni e i rimandi all’universo narrativo del passato: qua e là ci sono “Peter Pan”, “La bella addormentata nel bosco”, “Mary Poppins”, ecc. Insomma, c’è la magia!

Soffermandoci poi sull’impianto narrativo, in “Wish” troviamo tutto il mix di elementi che compongono un classico cartoon Disney: una giovane eroina, Asha, animali parlanti e numeri musicali trascinanti (le canzoni originali sono della cantautrice Julia Michaels, mentre la colonna sonora è composta da Dave Metzger), compresa una lotta a viso aperto contro il male. A livello tematico, infatti, il racconto valorizza il coraggio della protagonista Asha, che con generosità e caparbietà sfida il sovrano quando scopre che si approfitta dei sogni innocenti dei suoi cittadini, non avendo alcuna intenzione di esaudirli. Aiutata dalla stella magica Star, dal capretto Valentino e da un granitico gruppo di amici, Asha si mette in gioco per salvare i sogni della sua comunità, affinché tutti possano essere liberi di immaginare un domani diverso, possibile, e lottare per esso.
Il film “Wish” convince e conquista per le atmosfere sognanti, la struttura della storia e le performance musicali, e in particolare per come sottolinea l’impegno nel custodire la speranza e la libertà. Consigliabile, poetico, adatto per dibattiti.

“One Life” (Cinema, 21.12)
Il film “One Life” esce a ridosso di due ricorrenze sul tema cinema e Shoah: i trent’anni di “Schindler’s List” (1993) di Steven Spielberg, racconto del coraggio dell’industriale Oskar Schindler, e i vent’anni della miniserie Rai “Perlasca. Un eroe italiano” (2002) di Alberto Negrin, che ha reso nota la straordinaria impresa di Giorgio Perlasca. “One Life”, diretto da James Hawes, racconta l’eroismo del londinese Sir Nicholas Winton che nel 1938 organizzò dei treni della speranza da Praga a Londra, salvando dalla ferocia nazista 669 bambini ebrei. L’opera prende le mosse dal romanzo di Barbara Winton, figlia di Nicholas, che sullo schermo è interpretato in maniera struggente dal Premio Oscar Anthony Hopkins. Tra i comprimari Johnny Flynn, Helena Bonham Carter, Lena Olin, Jonathan Pryce e Romola Garai.

La storia. Londra 1938, Nicholas Winton è un giovane broker in ascesa che decide di recarsi a Praga su richiesta di alcuni amici. Lì trova una situazione drammatica dal punto di vista umanitario: bambini e famiglie di ebrei in condizioni di estrema povertà e precarietà, a rischio della violenza nazista. Con il supporto della madre e di altri amici a Londra, Nicholas decide di organizzare dei treni speciali che portino i bambini ebrei in Inghilterra per un affido temporaneo…

“One Life” è un’opera che va dritta al cuore. Una storia vera, raccontata su un doppio binario temporale – con continui flashback – tra la Londra del 1938-39 e quella del 1988, dove troviamo un anziano Nicholas Winton alle prese con i ricordi di gioventù; un uomo che si è speso con eroismo, ma di cui nessuno sa nulla. Quando il diario di Nicholas finisce nelle mani della redazione del popolare programma di intrattenimento “That’s Life” sulla Bbc, i riflettori all’improvviso si accendono e affiora una storia edificante. A livello narrativo, la sceneggiatura risulta abbastanza lineare, quasi prevedibile, ma a dare senso, densità e coinvolgimento al film sono di certo la vicenda raccontata, di grande umanità e solidarietà, e gli interpreti in campo. È in particolare Anthony Hopkins a sorreggere il film con un’interpretazione acuta e raffinata (magnifico!), abitando un uomo che sul crinale della vita riavvolge il nastro dei ricordi e si confronta con il buio della Storia. Un film dalle vibranti emozioni, da vedere e valorizzare in contesti educativi. Consigliabile, poetico, per dibattiti.

“Maestro” (Netflix, 20.12)
Su Netflix dal 20 dicembre è disponibile il biopic “Maestro” di e con Bradley Cooper, alla prova della seconda regia dopo “A Star is Born” (2018). Con lui in scena un’eccellente Carey Mulligan nel racconto della carriera e della vita familiare del compositore Leonard Bernstein e di sua moglie, l’attrice Felicia Montealegre Cohn. Ne abbiamo già parlato durante Venezia80, dove il film era in Concorso. “Maestro” è un dramma elegante, raffinato e intenso, che corre ai prossimi Golden Globe con 4 candidature.

La storia. New York anni ’40, il giovane Leonard Bernstein viene chiamato a sostituire il direttore della Carnegie Hall. Si fa subito notare per professionalità e talento. Poco dopo conosce a una festa l’attrice teatrale Felicia Montealegre Cohn, che sposa all’inizio degli anni ’50. Il loro è un legame intenso, complice, tra palcoscenico e vita coniugale. Ben presto arrivano tre figli, intervallati da successi sempre più eclatanti del compositore. La loro serenità inizia a traballare quanto Felicia si accorge che il marito è affascinato da un giovane artista…

Maestro. (L to R) Bradley Cooper as Leonard Bernstein (Director/Writer/Producer) and Carey Mulligan as Felicia Montealegre in Maestro. Cr. Jason McDonald/Netflix © 2023.

Cooper conferma di avere indubbie capacità nel governare la macchina da presa, nella costruzione di un ritratto in chiave biopic percorrendo traiettorie “originali” e mantenendo uno stile visivo teso a omaggiare la Hollywood classica. Nel raccontare la carriera di Bernstein, il regista si concentra sul rapporto con la moglie Felicia, suo perno esistenziale e familiare. Cooper è bravo nel tratteggiare le fasi del loro amore, segnate qua e là da fratture e stanchezze, legate a una bisessualità non dichiarata dell’artista. La bellezza del film “Maestro” risiede proprio nel modo in cui racconta queste tempeste interiori e coniugali, non cedendo mai a toni urlati o scandalistici. Leonard e Felicia si amano, si stimano, si proteggono, si perdonano. Soprattutto la donna dimostra grande resilienza e capacità di controllo delle emozioni, custodendo l’immagine pubblica del marito artista e quella di padre nei confronti dei tre figli. E se Bradley Cooper sorprende per l’evidente somiglianza con il compositore, andando a lavorare con attenzione anche sulla gestualità nella direzione d’orchestra, a spiazzare positivamente è la raffinatezza interpretativa dell’attrice britannica Carey Mulligan, che con la sua espressività, gli sguardi e i silenzi, rende tutta la complessità del mondo interiore di Felicia. È una grande storia d’amore, quella tra Leonard e Felicia, sopravvissuta ai diversi tradimenti e a un’improvvisa malattia. “Maestro” è un film complesso, problematico, per dibattiti.



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Sanità. Mons. Cozzoli: “Rivoluzionare l’idea della medicina e della cura”

Sab, 23/12/2023 - 10:19

Rivoluzionare l’idea della medicina e della cura, e stimolare una riflessione che porti i decisori politici ad imprimere un cambiamento nell’impostazione della sanità del futuro che dovrà essere centrata sulla persona, finalizzata a curare il malato e non solo la malattia. E’, in estrema sintesi, l’obiettivo di “Dignitas curae. Manifesto per la sanità del futuro”, che verrà presentato ufficialmente il prossimo 25 gennaio a Roma, alla Camera dei deputati. Ad illustrare il documento al Sir è mons. Mauro Cozzoli, già docente di teologia morale all’Università Lateranense e oggi consultore del Dicastero per la dottrina della fede. Un testo scritto a quattro mani dal teologo e dal professor Massimo Massetti, responsabile Area cardiovascolare e cardiochirurgica del Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs, con il quale da una decina d’anni Cozzoli condivide l’impegno di una medicina solidale a favore dei più poveri, avviata attraverso le “Domeniche del cuore” dall’allora Onlus “Dona la vita con il cuore” guidata da Massetti, divenuta oggi “Fondazione Dignitas curae”.

Mons. Mauro Cozzoli – foto editoriali SIR

In questi anni, spiega Cozzoli, si è sviluppata una riflessione mirante alla ri-umanizzazione delle cure:

“Da tempo si avvertiva il bisogno di nuovi paradigmi incentrati sulla persona del paziente”.

Di qui “l’idea di un manifesto che raccogliesse queste istanze proponendo delle soluzioni”. Il documento – inviato in corso d’opera a professionisti del mondo medico, del giornalismo e della bioetica per averne il contributo – ha conosciuto sei redazioni prima di arrivare alla stesura definitiva, presentata in anteprima da Cozzoli e Massetti a Papa Francesco che lo ha sottoscritto per primo. Successivamente, prosegue Cozzoli, “abbiamo coinvolto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, secondo firmatario. Poi il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, il ministro della Salute Orazio Schillaci, il presidente del Comitato nazionale di bioetica Angelo Vescovi, ed Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del consiglio dei ministri. Con Schillaci abbiamo deciso di presentare ufficialmente il Manifesto il prossimo 25 gennaio alla Camera dei deputati, con l’auspicio che non rimanga una mera dichiarazione di principi, ma che sviluppi delle mediazioni per un cambiamento della cultura della cura”.

Il progresso della ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica in campo biomedico hanno portato a traguardi considerevoli in termini di guarigione, qualità e aspettative di vita, mentre i sistemi sanitari sono evoluti, sotto la spinta dell’efficientamento economico, “verso un’organizzazione centrata sull’ospedale e non sul paziente, che si trova a vivere un percorso di cura frammentato e senza riferimenti chiari”, si legge nel Manifesto. Una situazione resa ancora più critica dal fragile equilibrio tra qualità e sostenibilità delle cure. Di qui, spiega Cozzoli, l’importanza di

“coniugare medical technologies con medical humanities per una medicina che ponga la persona al centro dei percorsi di cura”.

La persona in tutte le sue componenti: fisica, emotiva, spirituale, sociale e relazionale, perché una medicina empatica valorizza le relazioni medico-paziente, anch’esse tempo di cura.

Nel Manifesto vengono indicati alcuni principi di riferimento. Anzitutto la “dignitas personae”. “Ogni malato, in quanto persona, merita riconoscimento e rispetto e quindi le cure a lui dovute. Non esistono malati ‘diversi’ per età, sesso, appartenenza, ceto sociale, credo religioso, grado di cultura, infermità, regime di cura (privato o pubblico). Tutti, senza alcuna distinzione, hanno parità di accesso alle cure in rapporto ad uguali bisogni”. Pari dignità anche degli operatori e delle strutture di cura. “Al malato – si legge ancora nel Manifesto – dev’essere garantito il rispetto dell’autonomia decisionale, tenuto conto delle effettive capacità di metterla in atto e fatte salve legittime esigenze di bene comune”.

Secondo il documento, una sanità realmente incentrata sulla persona comporta, fra l’altro, “il concorso organico di tutti gli attori” nell’attivare una medicina personalizzata, calibrata sulle caratteristiche individuali dei pazienti; nell’impostare il percorso di cura sul paziente; nel promuovere percorsi diagnostici e terapeutici multidisciplinari e condivisi; “nell’assicurare, nell’iter curativo, un continuum tra diagnosi, terapia e riabilitazione”. Il Manifesto invita inoltre a considerare tempo di cura anche il supporto psicologico e spirituale, ad aprire alla collaborazione della famiglia, ad anteporre nelle programmazioni politico-amministrative il dovere di tutela della salute dei cittadini, a mirare alla collaborazione, nei rispettivi ambiti di competenze, tra i livelli di governo della sanità: Stato, Regioni, Aziende e Comuni, per

assicurare condizioni e garanzie di salute uniformi su tutto il territorio nazionale e livelli di prestazioni sanitarie appropriate per tutti i cittadini.

Importante, infine, integrare l’assistenza sanitaria con quella sociale potenziando il welfare socio- sanitario, in particolare per le persone più fragili, e incentivare una medicina solidale a supporto delle povertà sanitarie, “a cominciare dai detentori di brevetti e privative mediche, consapevoli che le invenzioni e acquisizioni sanitarie, fatti salvi i giusti diritti di ricerca e produzione, devono diventare opportunità per tutti”.

 

 

 

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Sanità. Massetti (Gemelli): “Dal curare la malattia al prendersi cura della persona”

Sab, 23/12/2023 - 10:18

Una medicina dal volto umano, efficiente e al tempo stesso inclusiva per non lasciare indietro nessuno. E con uno sguardo attento ai più vulnerabili e disagiati che vengono addirittura raggiunti letteralmente sulla strada. È la mission portata avanti da una decina d’anni nelle periferie urbane ed esistenziali dall’associazione “Dona la vita con il cuore”, guidata da Massimo Massetti, responsabile Area cardiovascolare e cardiochirurgica del Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs. Da questa lunga esperienza, ci racconta il professore, è nata l’idea del Manifesto per la sanità del futuro “Dignitas curae”, scritto a quattro mani da Massetti e da mons. Mauro Cozzoli, già docente di teologia morale all’Università Lateranense e oggi consultore del Dicastero per la dottrina della fede. Il documento, già approvato e sottoscritto da Papa Francesco (primo firmatario), dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e dal ministro della Salute Orazio Schillaci, verrà presentato il prossimo 25 gennaio alla Camera dei deputati.

Foto Associazione “Dona la vita con il cuore”

“Lo scenario all’interno del quale nasce il Manifesto – esordisce Massetti – è l’ambiente della cura. Una decina d’anni fa anni fa, io e alcuni colleghi del Gemelli abbiamo dato vita all’associazione onlus ‘Dona la vita con il cuore’, che in questi anni ha realizzato – lo fa tuttora e continuerà a farlo – iniziative solidali a carattere sanitario. Tramite le ‘Domeniche del cuore’, ci siamo recati nelle periferie disagiate con il ‘Camion del cuore’, benedetto nel 2016 da Papa Francesco, un ospedale cardiologico ambulante a tutti gli effetti, per offrire visite specialistiche gratuite di secondo livello ai bisognosi”. In questi anni, prosegue, “ci siamo resi conto che con l’evoluzione della società i bisogni di salute sono cresciuti, mentre la progressiva riduzione delle risorse destinate alla sanità pubblica ha progressivamente portato ad una perdita dell’offerta di cura. Nel frattempo, all’interno degli ospedali e sul territorio la situazione stava diventando sempre più difficile, sia per i pazienti sia per i curanti”. Di qui l’idea di “cercare soluzioni per migliorare, nonostante i problemi economici, l’accesso alle cure, la loro qualità e la presa in carico dei pazienti. Su questo stiamo già lavorando da alcuni anni nel nostro dipartimento, di cui sono responsabile, per tentare di modificare il paradigma di cura:

dal curare la malattia, al prendersi cura del malato,

che non è uno slogan ma si traduce in un’organizzazione ben precisa”. Così è nato anche un progetto, “già finanziato, che condurrà alla costruzione dell’‘ospedale del futuro’ centrato sulla persona del paziente e non sulle prestazioni”.

Professor Massetti, quale, allora, l’obiettivo del Manifesto “Dignitas curae”?

Con il nostro Manifesto – nato dal basso: da pazienti, medici, infermieri e tutte le figure che ruotano intorno all’universo della cura – abbiamo inteso creare uno strumento di comunicazione e aggregazione di volontà, ribadire i principi cardine della cura e offrire indicazioni concrete e operative per immaginare quella che dovrebbe essere

una sanità sostenibile e di qualità, al servizio del malato come persona.

Un’iniziativa ambiziosa, che ha riscosso apprezzamento e incoraggiamento a proseguire da parte delle principali istituzioni civili e della Chiesa, e che impegnerà tutti noi e spero moltissimi altri nei prossimi anni. In questa logica abbiamo trasformato l’associazione in fondazione, dandole lo stesso nome del Manifesto, “Dignitas curae”. Con il lancio ufficiale del 25 gennaio intendiamo renderlo pubblico alla presenza del card. Parolin e del ministro Schillaci.

Tra i punti in evidenza nel testo, l’importanza dell’integrazione tra sistema sanitario e sistema sociale, oggi affievolita

Come la tutela della salute e dell’ambiente sono due valori universali e concatenati, così

non si può immaginare il tema della salute se non ci si occupa anche della tutela sociale delle persone.

L’impoverimento della società ha aumentato in maniera esponenziale la percentuale delle patologie – ad esempio quelle cardiovascolari di cui noi ci occupiamo – perché un cattivo stile alimentare e la mancanza di prevenzione sono condizioni che accendono e accelerano le malattie, in particolare nelle categorie più fragili. All’inizio incontravamo persone realmente ai margini della società; oggi vediamo soggetti del ceto medio sviluppare patologie cardiovascolari in giovane età perché non si curano o non hanno seguito un programma di prevenzione. Molti, inoltre, non vanno più dal dentista, esponendosi al rischio di contrarre endocarditi batteriche, gravi infezioni dei tessuti cardiaci.

Incentivare la medicina solidale a sostegno della povertà sanitaria, che peraltro fa parte da una decina d’anni della vostra mission, è un ulteriore punto del Manifesto…

Il Terzo settore è stato per anni a supporto di una medicina ispirata al principio dell’universalità e gratuità garantito dal Ssn, che oggi conosce gravi problemi di sostenibilità. Per questo, il Terzo settore che opera con iniziative di solidarietà a carattere sanitario deve oggi ricoprire un ruolo, non solo di supporto, ma di vero e proprio partner del “pubblico”. Se si potessero canalizzare queste attività, organizzarle e renderle coerenti con quelle del Sistema sanitario nazionale, in questa fase di grande bisogno potremmo sopperire ad alcune mancanze e, in pratica, salvare molte vite in più.

La medicina solidale è oggi ancora più attuale e necessaria che in passato, ma ha bisogno di essere coordinata, riconosciuta, strutturata ed anche incentivata.

Foto Associazione “Dona la vita con il cuore”

Come e con quale frequenza si svolgono le “Domeniche del cuore”?

Ne abbiamo sempre organizzato almeno una al mese, a volta anche due, in collaborazione con strutture radicate sul territorio come Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Croce Rossa, Cavalieri di Malta, ma anche parrocchie. Ci muoviamo sulla scorta di segnalazioni e, insieme a queste associazioni che conoscono le persone in difficoltà, creiamo un filtro di quelli più a rischio per patologie cardiovascolari, ne selezioniamo un certo numero e nella domenica prestabilita portiamo lì un vero ospedale cardiologico. Grazie ad ecografi ed elettrocardiografi riusciamo a fare accurate visite di secondo livello. Quando individuiamo patologie, e nel 10% dei casi si tratta di malattie gravi, forniamo indicazioni su come prenderle in carico. Qualora si rendano necessari ricoveri o interventi chirurgici, se i pazienti non se li possono permettere li richiamiamo al Gemelli e li curiamo gratuitamente.

Dal punto di vista logistico, qual è il vostro raggio d’azione?

Lavoriamo molto nelle periferie di Roma e sul territorio del Lazio, ma non abbiamo confini: abbiamo organizzato iniziative anche in Calabria, Umbria, Toscana e Marche. Siamo stati anche nelle carceri. Un appuntamento importante è quello con la colonia penale dell’isola di Pianosa dove vivono ex ergastolani in condizioni di isolamento. Una volta l’anno ci rechiamo lì per uno screening cardiologico ai carcerati e al personale che se ne occupa.

Dove ci chiamano, ci organizziamo e andiamo, e continueremo a farlo.

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Salute e bene comune. Balduzzi (ex ministro): “Tutelare e proteggere il Sistema sanitario nazionale, è prezioso e non va stravolto”

Sab, 23/12/2023 - 09:49

“Per chi è convinto che la salute sia un bene comune e che il Servizio sanitario nazionale sia la struttura di protezione di questo bene comune, ricordare i 45 anni della legge 833 è importante”. Ne è convinto Renato Balduzzi, costituzionalista ed ex ministro della Salute nel Governo Monti, che, nell’anniversario dell’approvazione del provvedimento che istituì il Servizio sanitario nazionale, con il Sir fa il punto su attualità, sostenibilità e priorità del sistema partendo dall’assunto che, come ha scritto Papa Francesco nel Messaggio per la XXIX Giornata mondiale del malato, “la salute è un bene comune primario”.

Professore, 45 anni fa veniva istituito il Servizio sanitario nazionale, basato sui principi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità oltre a quelli della centralità della persona e della responsabilità pubblica per la tutela del diritto alla salute, sancito dalla Costituzione. In che modo quella scelta contribuì e contribuisce al bene comune?
La 833 è davvero una delle grandi leggi della Repubblica e, non a caso, non ce ne sono tante per le quali si ricorda in modo continuo l’anniversario. Come ebbe a dire cinque anni fa nel discorso di Capodanno il Presidente Mattarella, essa è un vanto del sistema Italia; non mancano difetti e disparità da colmare, ma si tratta di un patrimonio da preservare e da potenziare. D’altra parte, che ci sia tutta questa attenzione agli anniversari della 833 è anche dovuto alla circostanza che la legge ha avuto sempre, fin dall’inizio, degli oppositori: cambiano le parole, le casacche, i contesti, ma gli oppositori della 833 ci sono ancora adesso. Anche perché

questa legge è una grande scommessa: la salute non può essere affidata, come qualunque altro interesse, al mercato e soltanto ad esso. La salute, proprio perché è un bene comune, deve essere oggetto di una vigile e costante attenzione da parte di tutti;

le regole che la governano non possono essere quelle tout court del mercato, anzi la salute – c’è scritto anche nella nostra Costituzione – è un limite al mercato stesso, all’iniziativa privata. Dunque, una grande legge della Repubblica sempre ostacolata e sempre avversata perché il mondo degli interessi che fanno capo alla sanità e alla salute sovente vede nel modello universalistico della 833 non un momento importante per il bene comune ma un ostacolo per il raggiungimento di finalità particolari.

Rispetto a 45 anni fa, la situazione è cambiata e, per certi versi, sembra si stiano facendo passi indietro rispetto al sistema di strutture e servizi concretizzatosi con la legge 833. Secondo Lei quella riforma è inadeguata all’oggi o in questi anni sono state fatte scelte che hanno scardinato l’impianto originale provocando – e sono parole del Papa – l’attuale “nuova fase di criticità che sembra diventare strutturale”?
Le parole del Papa vanno lette correttamente, la sua non è una critica all’impianto – che, anzi, più volte ha avuto modo di apprezzare – ma a come lo si vorrebbe stravolgere. La legge 833 è stata oggetto di tante riforme, la prima delle quali nel ‘92, per fortuna emendata subito nel ‘93, che voleva appunto scardinarne l’impianto, rompendo l’universalismo e la globalità delle prestazioni, e il principio secondo cui la sanità viene finanziata dalla fiscalità generale, cioè progressiva ed equa, introducendo il cosiddetto “secondo pilastro”, quello assicurativo. Era un modo diverso di concepire la sanità pubblica, molto lontano dallo spirito della 833 che poi nell’anno successivo venne recuperato ritornando all’originale. Le successive riforme del ‘99 e del 2012 hanno confermato l’impianto del Servizio sanitario nazionale che, possiamo dire, ha retto anche alla pandemia. Per quanto riguarda la sostenibilità del Ssn, sono 40 anni che ci viene raccontato che non lo sarebbe più. Va ricordato che non c’è una sostenibilità astratta ma, come hanno scritto i canadesi circa 20 anni fa, la sostenibilità è ciò che noi vogliamo sia.

Se noi vogliamo la sostenibilità di un sistema universalistico, globale e fondato sulla fiscalità generale, allora dobbiamo essere conseguenti: ci vuole un Ssn ancora più forte e più governato, sia a Roma sia nei capoluoghi regionali, lasciando alle Aziende sanitarie la responsabilità che hanno. Questo è un equilibrio da mantenere, se lo si stravolge attraverso forme di privatizzazione strisciante oppure introducendo un secondo pilastro attraverso il regionalismo differenziato allora si agisce per distruggere il Servizio sanitario nazionale.

Invece

serve tutelare e proteggere il Ssn, difendendolo come un bene prezioso.

E correggendo alcune decisioni che sono state messe in atto per reggere l’urto della pandemia e che in questo momento stanno fortemente indebolendo il sistema.

A che cosa si riferisce?
Innanzitutto va chiarito che

il sistema non è indebolito perché è regionalizzato.

Altrimenti non si capirebbe perché, rispetto agli altri sistemi italiani – giustizia, istruzione e università, trasporti, pubblica amministrazione – quello sanitario è comunque il servizio pubblico che nelle graduatorie internazionali sta meglio di tutti. Non si può pensare che questo avvenga nonostante le Regioni: 75 anni fa i nostri costituenti guardarono lontano riconoscendo che il livello ottimale per programmare e gestire i servizi sanitari è quello regionale; ma

è necessario un Servizio sanitario nazionale che faccia da collante e nel quale ciascuno si prenda le proprie responsabilità, a cominciare dal centro, dal Governo nazionale.

Fatta questa premessa, se durante la pandemia, per necessità, abbiamo dovuto specialmente nei Pronto soccorso fare ricorso a medici gettonisti delle cooperative e questi hanno una retribuzione sproporzionata rispetto alle mansioni e alle responsabilità affidategli creando un problema nei confronti dei colleghi, è evidente che adesso che la pandemia è diventata endemia, o quasi, si dovranno cambiare le regole, perché altrimenti si scombussola il sistema.

La pandemia da Covid-19 ha fortemente stressato strutture, servizi e operatori sanitari. Forse ci siamo dimenticati troppo in fretta della dedizione e della generosità del personale, così come dell’impegno ad investire nelle diverse articolazioni del sistema sanitario. Quali sono, secondo Lei, le priorità da cui partire per rafforzare il sistema sanitario?
Il problema della mancanza di infermieri è molto serio; ci si deve preoccupare di aumentare la loro reputazione e di esigere equilibrio e discrezione da parte di altre categorie sanitarie nei confronti degli infermieri, perché noi abbiamo bisogno di rendere quella infermieristica una professione ambita dai nostri giovani. Altrimenti non li troveremo mai nel numero di cui abbiamo bisogno. Poi, si è finalmente deciso che la sanità territoriale deve essere all’altezza di quella ospedaliera: vanno fatte le case della comunità, bisogna metterci dentro medici di famiglia, specialisti ambulatoriali, infermieri di famiglia e comunità, che vanno subito cercati e formati. Ma questo richiede una volontà politica forte; le risorse ci sono, l’Europa ce le ha date, ma bisogna volerle spendere bene e bisogna anche piegare i corporativismi.
Un terzo ambito riguarda l’integrazione socio-sanitaria, perché

il bisogno sanitario è sempre più strettamente connesso, soprattutto per le categorie più fragili e per i malati cronici, col bisogno sociale; questa sfida finora l’abbiamo colta nelle leggi, nei regolamenti, negli standard dell’attività ospedaliera e territoriale, ma facciamo fatica a farla vivere.

Perché? Bisogna coinvolgere tutti gli attori, spiegare che l’integrazione tra diverse professioni è il modo migliore per vivere la propria specifica professione. Bisogna dire alle Regioni che devono coinvolgere i Comuni, perché senza di loro non si può dare integrazione socio-sanitaria, bisogna aprire al Terzo settore, al volontariato, non in modo utilitaristico o corporativistico ma facendo sì che le tante risorse ed energie possano essere messe dentro al sistema. Infine, un’altra grande cosa di cui preoccuparci è l’“One Health”, perché ormai la sanità umana, quella ambientale e quella animale sono strettamente collegate. La salute ambientale, come Papa Francesco coraggiosamente ricorda almeno settimanalmente a tutti, ha a che fare con tutta la vita, e in particolare con la salute umana e quella animale. Ma facciamo fatica a spiegarlo ai governanti, basta vedere le difficoltà dei giorni scorsi a Dubai per trovare un’intesa. Facciamo fatica a ricordarci di questo quando andiamo a votare, perché dovremmo scegliere a partire da questi temi – salute, ambiente… – non dalle simpatie. Quindi c’è un problema per ciascuno di noi, non dimenticandoci che bisogna andare a votare perché

senza democrazie salute e ambiente non si proteggono.

Tant’è vero che i luoghi più disastrati sono quelli dove non c’è democrazia.

Ciclicamente viene riproposta la questione della natura pubblica della sanità e dell’universalità del servizio. Come far sì che la salute non smetta di essere considerato da ogni singolo cittadino un diritto e un bene comune della collettività, per il quale avere premura e interessarsi non solo nel momento del bisogno?
Innanzitutto prendendosi cura della propria salute, non in modo feticistico o secondo la cultura del fitness o degli integratori, ma seriamente, cominciando dalla prevenzione primaria, dagli stili di vita: ridurre il fumo, l’alcol, i cibi che danneggiano la salute, le occasioni di dipendenza che sono un elemento che indebolisce la salute.

Ognuno è responsabile della propria salute.

E, poi, non è secondaria la partecipazione politica: ad esempio il livello regionale, che è quello che si occupa di salute, deve essere premiato o punito sulla base di quello che è riuscito a fare o no in sanità. Su questo non mi pare ci sia consapevolezza sufficiente. E se questa manca non possiamo pensare di dare gambe e braccia alla 833, perché

quella legge è proprio una sfida per ciascuno di noi non soltanto quando andiamo in ospedale o dal medico di famiglia, ma nella vita di tutti i giorni e in tutte le dimensioni della vita: quella familiare, scolastica, lavorativa, politica.

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