Abbonamento a feed RSS Agensir
Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 3 mesi 3 settimane fa

Nel 2021 l’evasione fiscale “costa” 83,6 miliardi

Gio, 04/01/2024 - 10:20

Gli evasori fiscali e contributivi hanno privato la cassa comune degli italiani di una somma pari a 83,6 miliardi: 73,2 miliardi di mancate entrate tributarie e 10,4 miliardi di contributi evasi. È quanto emerge da un aggiornamento della Relazione annuale sull’evasione fiscale e sull’economia non osservata, pubblicato in questi giorni sul sito del Dipartimento delle finanze e relativo al 2021, anno di cui si dispongono i dati più aggiornati.

Una somma enorme: basti pensare che l’intera manovra economica per il 2024, comprensiva di legge di bilancio e decreto in materia fiscale, ammonta a circa 28 miliardi, e per vararla si è fatto ricorso a nuovo deficit che andrà a gravare ulteriormente sui conti pubblici.

Tornano alla mente le parole del Capo dello Stato nel discorso di fine anno, quando ha detto che partecipare alla vita della Repubblica “significa contribuire, anche fiscalmente” e che “l’evasione riduce, in grande misura, le risorse per la comune sicurezza sociale e ritarda la rimozione del debito pubblico, che ostacola il nostro sviluppo”.
È bene avere piena contezza della portata del fenomeno e delle sue perduranti conseguenze prima di sottolineare il dato positivo di quest’ultima rilevazione: la mole delle somme evase continua scendere. Rispetto al 2020 il tax gap (lo scarto tra quanto doveva essere versato e quello che è stato versato effettivamente) è diminuito di 2,7 miliardi, con un recupero di 2,2 miliardi di imposte e di 0,5 miliardi di contributi. In cinque anni, dal 2016 al 2021, lo scarto si è ridotto di 24 miliardi. Segno che la battaglia contro l’evasione non è persa in partenza e che le misure adottate non sono un’inutile vessazione dei contribuenti.
Per quanto riguarda l’ultima rilevazione, tuttavia, il dato complessivo cela un grande squilibrio tra le due voci d’imposta principali. Il tax gap dell’Iva, infatti, prosegue nel percorso in discesa (-3,9 miliardi), mentre quello dell’Irpef addirittura cresce di poco più di 2 miliardi, in larga parte relativi ad autonomi e imprese in regime di tassazione piatta, la cosiddetta flat tax.
Se poi si considera l’intero fenomeno dell’economia sommersa, per il 2021 viene calcolato un valore aggiunto di 173,9 miliardi, 16,5 miliardi in più rispetto all’anno precedente, mentre è rimasta costante l’incidenza sul Prodotto interno lordo (9,5%). I fattori che pesano di più sul sommerso sono la “sotto fatturazione del valore aggiunto” (52,6%) e l’impiego irregolare di lavoratori (39,2%).

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Nel 2021 l’evasione fiscale “costa” 83,6 miliardi first appeared on AgenSIR.

Strage terroristica in Iran: l’incendio mediorientale tra ipotesi e timori

Gio, 04/01/2024 - 09:53

Iran, 3 gennaio, ore 15 locali: due ordini, con un intervallo di 15 minuti, deflagrano nel Cimitero dei Martiri di Kerman facendo strage tra la folla (il secondo studiatamente anche tra i soccorritori) radunata per il quarto anniversario dall’uccisione a opera di un drone statunitense del generale Soleimani, capo della Nyru-ye Quds, unità delle Guardie della Rivoluzione incaricata del coordinamento della galassia sciita fuori confine. Il bilancio (provvisorio) conta un centinaio di morti. È l’atto terroristico più grave mai subito dalla Repubblica islamica.

Le autorità annunciano indagini per punire distruttivamente i responsabili, profilati sulle prime come potenze arroganti, mandanti di terroristi mercenari. L’allusione è perspicua, sicché suona pleonastica l’esternazione di un consigliere del presidente Raisi, che senza giri di parole accusa Israele e Usa.

Non serve molto per capire i rischi di allargamento dell’incendio mediorientale, al culmine dell’ultima sequenza di colpi messi a segno contro i nemici di Tel Aviv. A Natale un raid ha ucciso il generale Mousavi, comandante dei Pasdaran iraniani in Siria e responsabile dei rifornimenti alle forze pro-Assad, dotato di status diplomatico. Ai suoi funerali, l’ayatollah Khamenei ha promesso una punizione a tempo debito, anticipata con l’esecuzione di cinque detenuti accusati di spionaggio per conto del Mossad. Il 2 gennaio un raid su un sobborgo di Beirut ha colpito al-Arouri, vice capo dell’ufficio politico di Hamas, coinvolto nei negoziati per lo scambio di prigionieri. Per tale ragione, l’Egitto ha sospeso la sua mediazione al fianco del Qatar, mentre il leader di Hezbollah si è detto pronto alla guerra totale.

L’attentato di ieri coglie l’Iran impegnato a premere su Israele mediante i suoi proxy in Libano, Iraq, Siria e Yemen, continuando al contempo a coltivare i canali di normalizzazione con le petrolmonarchie arabe. E attento a tenere il conflitto al di sotto della soglia escalativa che conduce allo scontro frontale con Israele e Usa. Vale a dire con la cautela di non superare la linea rossa, che l’Iran ha interpretato astenendosi dall’attaccare direttamente Israele, dal canto suo intimando ai nemici di non varcare il limite reciproco, ossia di non trovarsi colpito sul proprio territorio.

Ovvio il tentativo di decifrare la matrice, non rivendicata, dell’operazione. Laddove si sostenesse la pista israeliana, si dovrebbe scegliere tra più ipotesi.

Una attiene all’intenzione di trascinare l’Iran in guerra, provocando una risposta che sinora, nonostante le minacce dei giorni scorsi, non si è materializzata. Ma ciò vorrebbe dire azzardare l’innesco di una reazione a catena dagli esiti imprevedibili. Oltretutto non voluta dagli Usa, in un frangente politico (interno e internazionale) altamente critico e per nulla esaltante per la Casa Bianca. L’accresciuta presenza militare nell’area disposta da Washington si presta sì a scudo di Israele, ma può essere letta anche come deterrente palindromo, utile anche a trattenere il protetto dallo scatenare l’imponderabile oltre la Palestina.

Anche alla luce dei suggerimenti espressi nei giorni scorsi dall’ex premier Bennett sulle colonne del Wall Street Journal, sarebbe più plausibile immaginare la strada della destabilizzazione interna della Repubblica islamica, indicata come regista di tutti i nemici di Israele. In questo caso, la volontà reciproca di scongiurare il conflitto diretto porterebbe a lasciare deliberatamente ignota la supposta matrice israeliana.

Una terza ipotesi porterebbe all’intento di indurre Teheran a rivedere l’interpretazione della propria linea rossa, appalesando cioè l’intolleranza per il sostegno ai proxy che lanciano missili e droni: evidentemente non ancora recepita dall’Iran, a giudicare dalla sua fregata che da tre giorni batte il Mar Rosso mentre le forze della Prosperity Guardian proteggono dagli houthi yemeniti i cargo destinati a Israele. Ma, pur confidando nella predittività strategica israeliana, ciò non esclude che la comunicazione del messaggio mediante un così grave atto terroristico possa generare effetti incontrollabili.

Più in generale, in fin dei conti, considerando che lo scempio di Gaza procede tutto sommato indisturbato nell’inerzia generale – fatta eccezione per le azioni dei menzionati proxy – non è così probabile che Israele calcoli conveniente avventurarsi in scenari a dir poco ingestibili, peraltro infliggendosi un ulteriore danno d’immagine.

Seguendo la logica del “cui prodest”, l’interesse a gettare l’Iran nella mischia potrebbe rimandare invece ad altri avversari del regime:

Si tratta di cellule sopravviventi dell’Isis iracheno o del ramo di Khorasan, oppure gruppi quaedisti attivi in Siria contro Assad. O, ancora, nemici intestini, come i sunniti del Jeish al-Adl, che fondono l’odio jihadista per gli infedeli sciiti con il separatismo etnonazionalistico del Belucistan – peraltro adusi ad azioni terroristiche (l’ultima il mese scorso) contro uomini e simboli delle Guardie della Rivoluzione.

Le congetture ora possono basarsi, a spanne, sulle proiezioni logiche riferite ad attori razionali tipizzati per astrazione, supponendo che ogni schieramento sia internamente sotto univoco controllo. Quale che sia la spiegazione più plausibile, la strage di ieri di per sé rovescia altro materiale infiammabile attorno al fuoco che già divampa. Se possibile, rendendo viepiù urgente un coraggioso uso della ragione politica da parte della comunità internazionale, prima che il rogo diventi indomabile su vasta scala.

docente, Pontificia Università Lateranense

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Strage terroristica in Iran: l’incendio mediorientale tra ipotesi e timori first appeared on AgenSIR.

Mons. Sapienza: “Il cristianesimo non è noia, ma gioia”

Mer, 03/01/2024 - 12:48

“Il cristianesimo non è noia, ma gioia”. Parte da questa constatazione, spesso contraddetta da molte omelie che risultano astruse e slegate dalla vita, mons. Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, che nel suo ultimo libro – “La Parola nel cuore” (Editrice Rogate) – rilegge i Vangeli festivi dell’anno liturgico in corso a partire da uno sguardo appassionato, realista e intriso di speranza sui cardini portanti della fede cristiana, spesso sottotraccia anche nelle esistenze delle persone che si dichiarano credenti.  ”La vita sa essere un tormento! E la fede, certo, non preserva da tutto questo”, scrive l’autore: “Eppure, un cristianesimo non può mai essere triste. Il male non avrà l’ultima parola! Se capiamo di essere amati, allora nulla ci può far paura!”.

“Comincerà davvero per noi ‘la vita felice’ in questo nuovo anno?”,

la domanda all’inizio del 2024, unita alla considerazione che “nel bilancio della vita della società prevale il segno meno”. La felicità, però, “non ha bisogno del più ma del poco; è più intensa, se sboccia dopo un dolore; è autentica, solo se è pura. Tocca a noi saper riscoprire e reinventare ogni giorno motivi di bene e di felicità”. E ancora: “Dobbiamo essere cristiani innamorati. Innamorati a vita! Divorati da una passione incontenibile. L’amore si diffonde per contagio, e se il nostro amore è freddo, non può trasmettersi”. A volte, invece, “diventiamo quasi ribelli alla gioia: i nostri cuori sono stanchi e chiusi. Siamo diventato così pessimisti, che crediamo di essere ragionevoli!”. Il solo modo per invertire la rotta è la testimonianza autentica e concreta: “Se non vogliamo apparire marginali nella società, impegniamoci con passione a testimoniare il fermento del Vangelo, il seme dell’amore di Dio!”.

La malattia spirituale del nostro tempo, la tesi di mons. Sapienza, “è l’indifferenza, l’apatia, l’abitudine”: “Oggi assistiamo a una nuova ignoranza di Dio.

C’è chi lo ignora per partito preso, per pregiudizio; c’è chi lo ignora perché nessuno glielo ha presentato; c’è chi lo ignora perché così gli fa comodo; c’è chi, pur avendolo conosciuto, vive come se Dio non esistesse. Come c’è pure qualche cristiano che dice di conoscerlo, di averlo incontrato, ne parla spesso, ma vive di una fede tiepida, debole, abitudinaria”.  La fiducia in Dio è la nostra ultima spiaggia, come ci insegna San Tommaso d’Aquino: “l’onnipotenza di Dio si manifesta soprattutto nel perdono e nella misericordia”. Ce lo ricorda in tutto il suo magistero Papa Francesco, quando ci chiama “peccatori perdonati”.  “Dio ci vuole bene. Ha l’occhio sempre aperto su di noi, e aspetta che ricambiamo il suo amore. Dio ci ama, ci compatisce, ci perdona, ci consola e niente lascia cadere delle nostre parole, delle nostre lacrime, delle nostre opere buone”.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Mons. Sapienza: “Il cristianesimo non è noia, ma gioia” first appeared on AgenSIR.

Papa Francesco: “non dimentichiamo i popoli in guerra”

Mer, 03/01/2024 - 10:07

“Non dimentichiamo i popoli che sono in guerra”. E’ l’appello di Papa Francesco, al termine dell’udienza di oggi in Aula Paolo VI, la prima del 2024, dedicata al combattimento spirituale. “La guerra è una pazzia, sempre la guerra è una sconfitta”, ha ribadito Francesco durante i saluti ai fedeli di lingua italiana: “Preghiamo per la gente in Palestina, Israele, Ucraina e in tanti altri posti dove c’è la guerra. E non dimentichiamo i nostri fratelli Rohingya, che sono perseguitati”. “Preghiamo che ci conceda un cuore sensibile alle necessità dei poveri, rifugiati e vittime della guerra”, il saluto ai pellegrini polacchi, pronunciato poco prima.

“I santi non sono uomini a cui è stata risparmiata la tentazione, bensì persone ben coscienti del fatto che nella vita si affacciano ripetutamente le seduzioni del male, da smascherare e da respingere”,

ha fatto notare il Papa nella catechesi. “Tutti noi abbiamo esperienza di questo”, ha proseguito a braccio: “che ti viene un cattivo pensiero, un desiderio di fare questo o di sparlare dell’altro”. “Tutti siamo tentati, e noi dobbiamo lottare per non cadere in queste tentazioni”, ha affermato il Papa ancora fuori testo: “Se qualcuno di voi non ha tentazioni lo dica, sarebbe una cosa strana. Tutti noi abbiamo tentazioni, e tutti noi dobbiamo imparare come portare la vita in queste situazioni”. Francesco ha poi stigmatizzato “le persone che invece si autoassolvono in continuazione, che reputano di essere a posto: io sono bravo, io sono brava.

Nessuno di noi è a posto. Se qualcuno di noi è a posto sta sognando, ognuno di noi ha tante cose da aggiustare o da vigilare”.

“La vita spirituale del cristiano non è pacifica, lineare e priva di sfide ma, al contrario, esige un continuo combattimento”, ha spiegato il Papa: “un combattimento cristiano, per conservare la fede, per arricchire i doni della fede in noi. Non a caso, la prima unzione che ogni cristiano riceve nel sacramento del Battesimo – l’unzione catecumenale – è senza alcun profumo e annuncia simbolicamente che la vita è una lotta. Infatti, nell’antichità, i lottatori, prima della gara, venivano completamente unti, sia per tonificare i muscoli, sia per rendere il corpo sfuggente alla presa dell’avversario. L’unzione dei catecumeni mette subito in chiaro che al cristiano non è risparmiata la lotta: un cristiano deve lottare. Un celebre detto attribuito ad Abba Antonio, il primo grande padre del monachesimo, recita così: ‘Togli le tentazioni e nessuno sarà salvato’”.

Dire “io non ho peccato” è “mancanza di conoscenza di cosa succede nel cuore: tutti siamo peccatori, e un po’ di esame di coscienza ci farà bene”,

la raccomandazione per ciascuno di noi. “Questa è la lezione inaugurale che Gesù ci regala”, ha affermato Francesco: “Lo vediamo nelle prime pagine dei Vangeli, anzitutto quando ci viene raccontato il battesimo del Messia nelle acque del fiume Giordano. L’episodio ha in sé qualcosa di sconcertante: perché Gesù si sottomette a un simile rito di purificazione? Perché fa questo Gesù? Lui è Dio, è perfetto. Anche il Battista è scandalizzato, al punto che il testo dice: ‘Giovanni voleva impedirglielo, dicendo: ‘Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?’. Ma Gesù è un Messia molto diverso da come Giovanni lo aveva presentato e la gente lo immaginava: non incarna il Dio adirato e non convoca per il giudizio, ma, al contrario, Gesù si mette in coda con i peccatori: come mai? Gesù accompagna tutti noi peccatori. Lui non è peccatore, ma è fra noi. E questo è una cosa bella. ‘Padre, ho tanti peccati!’. ‘Parlane con Gesù’”. “Gesù mai ci lascia da soli, mai”, ha assicurato il Papa ancora a braccio: “Gesù ti capisce e ti accompagna, capisce il tuo peccato e lo perdona.

Nei momenti più brutti, quando scivoliamo nei peccati, Gesù è accanto a noi per aiutare a sollevarci.

Gesù è accanto a noi per aiutarci, proteggerci, per sollevarci e alzarci dopo il peccato”.

“Gesù perdona tutto”,

ha garantito Francesco sempre fuori testo: “lui è venuto per perdonare, per salvare, soltanto lui vuole il tuo cuore aperto. Mai lui si dimentica di perdonare, siamo noi tante volte che perdiamo la capacità di chiedere perdono”. “Ritroviamo la capacità di chiedere perdono”, l’invito finale: “Ognuno di noi ha tante cose da chiedere perdono. Ognuno lo pensi dentro e parli con Gesù. ‘Signore, io sono peccatore, sono una peccatrice, ma per favore non allontanarti! Signore, non allontanarti da me’”.

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2024/01/PapaUdienzaSalaNerviVideo_03012024.mp4

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Papa Francesco: “non dimentichiamo i popoli in guerra” first appeared on AgenSIR.

Comboniane a Gerusalemme: sorelle dei beduini, dalla parte degli ultimi

Mer, 03/01/2024 - 09:29

Hanno scelto di stare di qua e di là dal muro, le suore missionarie Comboniane che vivono a Gerusalemme Est, nel quartiere che sorge sull’antica Betania. Con la barriera che Israele ha costruito durante la seconda Intifada, isolando così i Territori palestinesi occupati e inglobando dalla propria parte molte aree, la casa delle religiose si è venuta a trovare proprio sulla traiettoria del muro, ma l’ingresso è rimasto dalla parte d’Israele. E così le missionarie non si sono perse d’animo. Come rimanere a fianco dei loro vicini di casa e di quartiere, che fino a quel momento avevano interagito con loro, ma che adesso si trovavano dall’altra parte della barriera di separazione ed erano irraggiungibili? Non avrebbero certamente potuto percorrere 30 chilometri al giorno e attraversare per due volte il check point di Betfage per fare quei 50 metri che le separavano dall’altra parte del muro. Ecco la soluzione: aprire una comunità anche al di là della barriera di separazione, ad Al-Azariyah, dove in un appartamento vive un piccolo nucleo di suore Comboniane, oggi tre, impegnate a tempo pieno con le comunità beduine che abitano nel deserto di Giuda, tra Gerusalemme e Gerico.

Maggiore diffidenza. Suor Expedita Pérez Leon è una di loro. È qui da due anni, dopo aver operato in Sudan, Egitto e Turchia. Ma dal 7 ottobre scorso, giorno dell’abominevole attacco di Hamas nel Sud di Israele, per motivi di sicurezza lei e le sue consorelle si sono ricongiunte con il resto della comunità religiosa nella parte israeliana. “Purtroppo moltissime cose sono cambiate da quella data. Le restrizioni e limitazioni che normalmente già vigevano in West Bank (altro nome per la Cisgiordania, cioè i Territori palestinesi occupati militarmente da Israele sin dal 1967, ndr) sono aumentate a dismisura: c’è una sorta di coprifuoco, per cui la popolazione araba non può uscire dalle 17 del pomeriggio alle 7 di mattina; alcune strade asfaltate utilizzate dai coloni israeliani per raggiungere i loro insediamenti non possono essere usate da nessun altro e ciò costringe a giri lunghissimi nel deserto, solo per riuscire a raggiungere i villaggi dove comprare qualcosa da mangiare, o per andare a scuola e all’università”. “È un periodo molto difficile, dove le ingiustizie stanno aumentando anche in Cisgiordania, non solo in Gaza”. Suor Expedita racconta con amarezza i risvolti di una guerra che ha provocato la “rottura dei ponti che si erano costruiti negli anni con tanti amici, cristiani, musulmani, ebrei, palestinesi, israeliani. Rimane una minima speranza, ma da ambedue le parti è cresciuta la diffidenza verso l’altro, il forte timore, vicendevole, di essere attaccati gli uni dagli altri: questo è stato scatenato con il 7 ottobre, una paura matta di chi è diverso da me”.

Rispettare i diritti. Suor Expedita questi ponti di collaborazione, aiuto reciproco, sostegno per vedere rispettati i diritti basilari spesso violati da un’occupazione ingiusta, li conosce molto bene perché ha contribuito (e ancora contribuisce) a costruirli. Nella sua opera quotidiana, infatti, garantisce una presenza costante nei 14 villaggi beduini della zona, insieme alle sue consorelle, suor Cecilia Sierra Salcido e suor Maria Lourdes Garcia Grande. A loro si unisce anche un’altra religiosa, infermiera, suor Julie Hurtado, della Presentazione di Maria, che arriva da Betlemme. Dal lunedì al giovedì, e poi anche il sabato, visitano le comunità, fanno sosta nei cinque asili che le missionarie hanno aperto per i bambini beduini, tengono corsi di inglese e di manualità per le donne, visitano le famiglie con i malati. E il giorno dopo ricominciano con altri villaggi, in modo che nessuna delle 14 comunità beduine rimanga indietro. Se è vero che in prima linea, quotidianamente, sono le Comboniane a percorrere chilometri nel deserto con il loro fuoristrada, spesso passando accanto agli insediamenti dei coloni ebrei che sovrastano i villaggi palestinesi, è anche vero che non sono sole in quest’opera di accompagnamento fraterno e custodia preziosa: sono tante, infatti, le realtà israeliane che le supportano e che finora hanno contribuito a creare quei ponti che oggi sembrano in pericolo.

Costruttori di pace. Tra queste, i Medici per i diritti umani, associazione israeliana che garantisce l’assistenza sanitaria a chi non ce l’ha, Machsom Watch, organizzazione che presenzia ai check point (in ebraico machsom) per sorvegliare e denunciare le violazioni dei diritti umani. Poi ci sono le “Donne del mare”, che ogni estate accompagnano una sessantina di mamme e bambini beduini sulle spiagge, un gruppo di volontari ebrei messianici (cioè che credono in Gesù come Messia) che hanno organizzato due corsi di ebraico e due di inglese in altrettanti villaggi. C’è anche il gruppo Le Sisters composto da donne musulmane, ebree e da suore cattoliche, che periodicamente si incontrano, si confrontano e vivono un momento di preghiera e convivialità. Ma coloro che hanno gettato le fondamenta del ponte di vicinanza, familiarità e assistenza tra le Comboniane e i beduini della zona, sono i Rabbini per i diritti umani. “Furono proprio loro a chiedere a noi suore di occuparci delle comunità locali – racconta suor Expedita – in particolar modo con l’apertura di scuole e asili per i bambini e con iniziative per la promozione delle donne. Da quel momento l’associazione dei Rabbini per i diritti umani ci ha aiutato moltissimo economicamente e anche la Ong Vento di Terra ha costruito la prima scuola a Khan Al-Ahmar. C’è da sapere, però, che su questi villaggi pende da anni un ordine di demolizione da parte dello Stato ebraico, che fortunatamente viene rinviato periodicamente grazie anche alle manifestazioni di cittadini israeliani che lottano per i diritti umani. D’altro canto, però, non è possibile costruire nessun nuovo edificio, neppure una capanna, perché subito arrivano i bulldozer dell’esercito e la demoliscono. E così i beduini sono costretti a vivere in condizioni di precarietà totale”.

Volontari italiani. I sostenitori dell’opera delle missionarie sono tanti. Anche molti volontari italiani che hanno partecipato alla realizzazione dei campi estivi per i bambini dei 14 villaggi. E gruppi di studentesse universitarie spagnole che la scorsa estate hanno permesso di organizzare giochi, attività manuali, dinamiche, ogni mattina nelle varie comunità beduine.

Mille alberi. Con il sostegno di benefattori, recentemente è partito il progetto “Il deserto fiorirà”. “Confidando nella Provvidenza – prosegue la missionaria – abbiamo piantato mille alberi tra bouganville e limoni in tutti i villaggi beduini. Ogni famiglia adesso ha una piccola pianta da far crescere, perché presto porti ombra, colore, bellezza e frutti nei villaggi”. Ma le missionarie non si sono accontentate: a gennaio, se questa guerra finirà, metteranno a dimora altri mille alberi, stavolta olivi e aranci. Perché proprio quando tutto sembra cancellato, è allora che bisogna osare con coraggio. Le missionarie lo sanno bene e non si stancano mai di lavorare per la pace in questa terra così santa.

*redazione Popoli e Missione

 

 

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Comboniane a Gerusalemme: sorelle dei beduini, dalla parte degli ultimi first appeared on AgenSIR.

R.D. Congo, rieletto Félix Tshisekedi. Il missionario don Piumatti, “la soluzione meno peggiore, mancano grandi leader politici”

Mer, 03/01/2024 - 09:29

Non hanno riservato sorprese le travagliate elezioni nella Repubblica democratica del Congo, che si sono svolte il 20 e 21 dicembre (prolungate al 27 dicembre in alcuni seggi a causa di problemi logistici). È stato rieletto come presidente Félix Tshisekedi, 60 anni, con il 73,34% dei voti. Sbaragliati gli altri candidati, una ventina, tra cui l’ex governatore del Katanga Moïse Katumbi (18,08%) e il premio Nobel per la pace il medico Denis Mukwege, che non ha raggiunto l’1% dei voti. Tshisekedi è salito al potere a gennaio 2019 dopo una elezione controversa e rimarrà alla guida del Paese per altri cinque anni. Per l’opposizione è stata un’elezione “farsa”, e nove candidati hanno chiesto ufficialmente l’annullamento. Su 100 milioni di abitanti si sono recati alle urne quasi 44 milioni gli elettori, per eleggere anche i deputati nazionali e provinciali e i consiglieri locali.

Una missione elettorale di osservazione di cattolici e protestanti. La Chiesa cattolica, attraverso i vescovi riuniti nella Cenco (Conferenza episcopale nazionale del Congo), insieme alla Ecc (Church of Christ in Congo, unione di 62 denominazioni protestanti) hanno sparso nel Paese 25 000 osservatori in 75.000 seggi, oltre a 11.000 osservatori “cittadini”. Non si sono però ancora pronunciati ufficialmente, probabilmente perché manca una visione unitaria comune. La missione Cenco-Ecc ha però diffuso nei giorni scorsi un rapporto preliminare che anticipava la probabilità di vittoria smaccata di un solo candidato, prendeva atto di alcune irregolarità e invitava la Commissione elettorale nazionale e la Corte costituzionale ad una proclamazione responsabile dei risultati. La Corte Costituzionale dovrebbe confermarli il 10 gennaio.

(foto: G. Piumatti)

Il missionario: “La soluzione meno peggiore”. “C’è ancora un po’ di confusione però pare che la situazione si stia rasserenando”, commenta al Sir don Giovanni Piumatti, missionario fidei donum della diocesi di Pinerolo che ha vissuto 50 anni in due villaggi del Nord Kivu nella Repubblica democratica del Congo, insieme ad una piccola comunità di italiani. Ora è tornato in Italia. A suo avviso la rielezione di Tshisekedi “è la soluzione meno peggiore”, anche se dietro “ci sono realtà sicuramente politiche europee, come la Francia o il Belgio. È chiaro che l’Europa e gli Stati Uniti hanno la voce potente. Sono votazioni che appaiono popolari perché la gente vota e ci crede ancora ma è anche facile condizionare le persone. Non penso siano i voti del popolo”. È facile prevedere, infatti, che continuerà lo sfruttamento minerario del Paese, in mano all’Europa, agli Usa, alla Cina ed è difficile che la situazione di instabilità e conflitto nel Nord Kivu e nell’Ituri si stabilizzi.

“Mancano grandi leader politici”. Il candidato più conosciuto nel mondo, Denis Mukwege, medico vincitore del Nobel (è stato anche ricevuto dal Papa nel giugno 2023), “sarebbe stato un simbolo di cambiamento importante – osserva il missionario – ma c’è stata una propaganda contro di lui. È molto noto a Bukavu e a Goma ma non in tutto il Paese e non è un politico. Avrebbe dovuto usare il suo nome per formare una squadra”. “In generale si sente che l’Africa sta rialzando la testa, ad esempio in Burkina Faso – conclude don Piumatti -. C’è un rifiuto del colonialismo europeo e una presa di coscienza, anche se non si capisce cosa questo porterà. Ma non so in concreto cosa riuscirà a fare Tshisekedi. Mancano grandi leader politici, che non vedo in Congo”.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post R.D. Congo, rieletto Félix Tshisekedi. Il missionario don Piumatti, “la soluzione meno peggiore, mancano grandi leader politici” first appeared on AgenSIR.

Terremoto in Giappone: cresce il numero delle vittime. Governo all’opera per salvare i superstiti nelle macerie

Mar, 02/01/2024 - 14:23

Tokyo – “La ricerca e il salvataggio delle persone colpite dal terremoto è una battaglia contro il tempo” ha affermato il Primo Ministro Fumio Kishida nel corso di una riunione d’emergenza tenutasi martedì 2 gennaio per il sisma di magnitudo 7,6 che ha colpito la costa occidentale del Giappone a metà pomeriggio del primo giorno del 2024. L’Autorità di Informazione Geospaziale’ nipponica dalle prime analisi ha riscontrato lo spostamento della crosta terrestre provocata dal sisma nell’epicentro del terremoto ed in alcune zone limitrofe. Quello più rilevante è stato pari ad 1,5 m verso ovest registrato in un’area della città di Wajima, proprio nella penisola di Noto, mentre le Prefetturedi Toyama e Niigata, hanno fatto rilevare il sollevamento di circa 20 cm ciascuna sul livello del mare.

Il numero delle vittime, salito alle 19:14 giapponesi, le 11:14 italiane, di martedì 2 gennaio a 48 nella sola Prefettura di Ishikawa, è purtroppo destinato a crescere di ora in ora e l’obiettivo prioritario del Governo è quello di salvare quanti sono rimasti sotto le macerie degli edifici crollati. Molti residenti delle aree costiere colpite dal disastro sono fuggiti in zone più elevate per sfuggire all’iniziale allerta tsunami in seguito scongiurata, mentre le orde raggiungevano circa un metro di altezza lungo la costa occidentale del Paese, facendo temere il peggio.
Il Premier giapponese ha tempestivamente creato una task force interministeriale ed ha mobilitato migliaia di uomini dell’esercito, dei vigili del fuoco, della polizia a livello nazionale ma i soccorritori hanno incontrato notevoli difficoltà per arrivare in particolare alla punta settentrionale della penisola di Noto, epicentro del sisma, nella Prefettura di Ishikawa, a causa delle strade distrutte mentre i rilevamenti aerei segnalavano incendi e danni diffusi ad edifici e infrastrutture, con conseguente isolamento di molte aree. Voli cancellati in alcuni aeroporti della zona a causa di danni alle piste, traffico stradale e ferroviario interrotto.1400 passeggeri di quattro treni Shinkansen della Compagnia JRWest bloccati nei vagoni da lunedì pomeriggio 1 gennaio fino alle 4.00 del mattino di martedì 2. 500 persone tra passeggeri e residenti nei pressi dell’aeroporto di Noto, i cui edifici hanno subito danni, sono stati evacuati nel parcheggio dell’aeroporto in autobus e pulmini divenuti i loro alloggi di emergenza, Circa 33.000 abitazioni della Prefettura di Ishikawa sono rimaste al buio e l’interruzione dell’energia elettrica e dell’acqua oltre a provocare ulteriori disagi alla popolazione locale, sta creando notevoli problemi anche alle strutture sanitarie e ospedaliere impossibilitate a garantire la necessaria assistenza e ad eseguire interventi chirurgici. Rientrato per ora l’allarme tsunami, in attesa di definire i danni subiti dai porti, il governo ha deciso di fare arrivare gli aiuti umanitari alle zone terremotate via mare cercando di limitare i ritardi causati dalle interruzioni sulla rete stradale. Molti residenti della Prefettura evacuati organizzano all’aperto falò per difendersi dalla temperatura gelida scesa sotto zero.

 

Naoshi Hirata, professore emerito di sismologia all’Università di Tokyo e presidente del Comitato governativo per la ricerca sui terremoti ha esortato i residenti le cui case sono state danneggiate a evacuare il prima possibile e coloro che vivono nelle zone costiere a rimanere vigili, poiché gli tsunami nel Mar del Giappone raggiungono rapidamente le coste dopo un grande terremoto. Il rischio di altre scosse di tale intensità secondo il professore potrebbero verificarsi nell’arco della settimana in particolare nei prossimi tre o quattro giorni.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Terremoto in Giappone: cresce il numero delle vittime. Governo all’opera per salvare i superstiti nelle macerie first appeared on AgenSIR.

56ª Marcia nazionale della pace. Mons. Redaelli: “Per amare è necessario attraversare tutti i confini”

Mar, 02/01/2024 - 13:15

“Per amare è necessario attraversare i confini. Tutti i confini, a cominciare da quelli che abbiamo nel cuore e nella testa. Farli diventare punti di incontro, sapendo di essere guardati dal volto luminoso di Dio, avvolti dalla sua benedizione che non verrà meno nel nuovo anno che stanotte inizia”: così l’arcivescovo di Gorizia e presidente della Caritas italiana, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, ha concluso la sua omelia nel corso della concelebrazione eucaristica ospitata dalla concattedrale di Nova Gorica al termine della 56ª Marcia nazionale della pace.

La manifestazione, organizzata dalla Commissione episcopale Cei per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, l’Azione Cattolica e la Caritas Italiana, il Movimento dei Focolari Italia e Pax Christi Italia con l’arcidiocesi di Gorizia, ha visto il 31 dicembre confluire nella città sulle rive dell’Isonzo un migliaio di persone da tutta Italia.
Per la prima volta la Marcia ha assunto una dimensione transfrontaliera partendo dall’Ossario italiano di Oslavia (dove sono custodite le salme di circa 58mila militari e austriaci caduti durante la prima guerra mondiale), attraversando la città di Gorizia per concludersi, appunto, nella vicina città slovena di Nova Gorica.

In apertura, il presidente di Pax Christi, mons. Giovanni Ricchiuti, ha ricordato la figura di mons. Luigi Bettazzi che fu oltre mezzo secolo or sono fu uno dei promotori dell’iniziativa a cui, fino a quando le condizioni di salute glielo hanno permesso, non ha mai mancato di partecipare.

La prima sosta, svoltasi presso il Centro salesiano “San Luigi” – dove sono ospitati minori immigrati non accompagnati – ha visto l’intervento del direttore della Caritas di Trieste, il gesuita padre Giovanni Lamanna che ha presentato la realtà di quella “Rotta Balcanica” che interessa proprio questa parte del territorio italiani. Padre Lamanna ha invitato quanti hanno “la responsabilità di far rispettare i diritti di quanti cercano rifugio nella civilissima Europa” ad ascoltare chi ha viaggiato lungo questa rotta, sentendo dalla loro voce il racconto di quanto vissuto: mancanza di cibo, abusi e violenze da parte delle forze di sicurezza, mancanza di assistenza medica, condizioni di insicurezza nei campi profughi improvvisati”. “Chi rischia la vita nel proprio Paese – ha concluso – non ha nulla da perdere e non saranno i muri a fermarlo. Siamo chiamati a guardare con verità a queste persone che sono costrette a scappare e riconoscerle come tali, rispettando la loro umanità e i loro diritti per scoprire che non sono nemici ma fratelli e sorelle da abbracciare alle frontiere”.

La tappa successiva ha portato i partecipanti nello storico Travnik, la piazza centrale della città oggi denominata “piazza della Vittoria”, Luca Grion, professore associato di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Udine e presidente dell’Istituto Jacques Maritain. prendendo spunto dal Messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale della pace 2024, ha voluto sottolineare la necessità di “fare pace con l’Intelligenza artificiale”: un obiettivo che può essere raggiunto abbracciare l’opportunità ch’essa offre, cercando di farne uno strumento al servizio del progresso realizzando un partenariato che richiede saggezza, responsabilità e costante riflessione sulla direzione da imprimere allo sviluppo tecnologico”.

Dopo essersi transitati dinanzi alla Sinagoga di Gorizia (per ricordare la deportazione ed il successivo sterminio di quasi tutta la comunità ebraica cittadina a seguito del rastrellamento del 16 novembre 1943) i partecipanti sono giunti in piazza Transalpina, il luogo simbolo della divisione imposta alla città di Gorizia al termine della seconda guerra mondiale ed oggi espressione della collaborazione fra le locali realtà italiana e slovena. Qui la parola è passata a Silvester Gaberšček, etnologo e sociologo che ha ricordato la necessità di trovare un denominatore comune in Europa favorendo l’ascolto reciproco: “Solo una comunicazione veritiera e pacifica è il fondamento per il vivere insieme”.

(Foto Danijel Devetak)

Il momento finale della giornata ha avuto come cornice la chiesa del Santissimo Salvatore (concattedrale della diocesi di Koper) costruita negli anni Ottanta del secolo scorso, dopo quasi 40 anni di richieste inascoltate al Governo jugoslavo in una zona periferica della città di Nova Gorica (perché la fede doveva essere periferica nella vita delle persone) purché – si era ancora negli anni della Guerra fredda – nelle sue fondamenta fosse edificato un rifugio antiatomico a servizio della città.

Dopo l’ascolto di alcune testimonianze provenienti da Ucraina, Israele e Gaza, la liturgia conclusiva è stata presieduta da mons. Redaelli e concelebrata dal vescovo di Trieste, mons. Trevisi, dal presidente di Pax Christi, mons. Ricchiuti insieme a numerosi sacerdoti italiani e sloveni.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post 56ª Marcia nazionale della pace. Mons. Redaelli: “Per amare è necessario attraversare tutti i confini” first appeared on AgenSIR.

Cyber-pace

Mar, 02/01/2024 - 00:01

Siamo a quasi due anni (manca giusto un mese e mezzo) dall’assurda e prepotente invasione della Confederazione russa in Ucraina e a tre mesi esatti dalla violenta e feroce carneficina perpetrata da Hamas nei kibbutz israeliani innescando intenzionalmente la reazione dello stato ebraico con la lunga serie di distruzioni e di morte. Per lo meno sbalorditiva l’interpretazione del ministro degli esteri russo Lavrov che, alla ricerca di chissà quale approvazione, equipara mefistofelicamente l’“operazione militare speciale” di Putin alla guerra dichiarata da Netanjahu come interventi di “smilitarizzazione” e di “denazificazione”. La guerra è guerra, la distruzione è distruzione, la violenza è violenza, l’invasione è invasione; l’uccisione programmata e deliberata (o da … effetto secondario) di migliaia o di centinaia di miglia di persone militari o civili, è sempre crimine diabolico!
Ma tentiamo di parlare di pace – nonostante non ci sia il clima. Ce ne offre l’occasione ancora una volta il papa, che, contestualmente ai ripetuti appelli perché tacciano le armi, ha dedicato il messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2024 a un tema apparentemente a sé stante: “Intelligenza artificiale e pace”. Quanto non sia a sé stante, ma congruo all’ampia tematica della pace, ce lo dimostrano già l’uso delle armi e degli strumenti più sofisticati nelle due guerre citate, con un preludio significativo di ricorso al cyberspazio e alla stessa IA, per quanto ancora in embrione. Solo qualche cenno perché la tematica e la 57ª Giornata non passino sotto silenzio.
Papa Francesco non può essere un esperto di IA, ma sicuramente è bene informato e soprattutto è “esperto in umanità”, che è l’ottica con cui ci invita a guardare all’inquietante fenomeno presente e futuro. In realtà, il papa parte saggiamente dal principio che ogni conquista scientifica e tecnologica è in sé buona in quanto opera dell’intelligenza che Dio ha donato all’uomo. Il progresso, però, per essere autentico deve rispettare sempre la “dignità di ogni persona” e la “fraternità” della famiglia mana, e perseguire obiettivi di giustizia, di solidarietà e, appunto, di pace: rispettare e promuovere valori fondamentali quali “l’inclusione, la trasparenza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità”. Diversamente – come già avviene nel vasto mondo digitale – l’IA, foriera di grandi promesse come di grandi rischi, si ritorcerà contro l’umanità. Le nuove macchine basate sull’apprendimento automatico, che però saranno sempre determinate da esseri umani, depositari di valori e di disvalori, ci possono “allucinare” con lo splendore della falsità creando “discriminazione, interferenze nei processi elettorali”, come pure “controllo delle persone, esclusione digitale”, un crescente individualismo che alimentano conflitti e ostacolano la pace, facendo dimenticare ai pochi privilegiati che ne detengono le leve il “senso del limite”, sempre necessario all’uomo perché nessuno s’illuda di potere tutto. Occorrono vera responsabilità e orientamento etico nel manovrare questi mezzi perché gli algoritmi non determinino in modo “disumano” il modo di intendere i “diritti umani”, trascurando la “compassione”, la “misericordia”, il “perdono”, la possibilità per ciascuno di cambiare in meglio. Ciò si sta ripercuotendo e si ripercuoterà anche sui “sistemi d’arma autonomi letali” che richiedono invece una “supervisione umana adeguata” (in attesa dell’utopistica eliminazione di tutte le armi…). Perché il cuore stesso dell’uomo non diventi “artificiale” è indispensabile un’educazione all’uso delle forme di intelligenza artificiale, promuovendo il pensiero critico, ed altrettanto urgente è una regolamentazione condivisa che tuteli “i diritti umani fondamentali”. Le “sfide per l’educazione” e le “sfide per lo sviluppo del diritto internazionale” sono infatti i due ultimi paragrafi del messaggio del papa che portano l’attenzione sulle dimensioni etica e giuridica, sociale e politica di un fenomeno che potrebbe apparire solo scientifico e tecnico.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Cyber-pace first appeared on AgenSIR.

Papa Francesco: “Chi ferisce una sola donna profana Dio”

Lun, 01/01/2024 - 12:55

“Chi ferisce una sola donna profana Dio, nato da donna”. Nell’omelia della Messa presieduta nella basilica di San Pietro per la Giornata mondiale della pace, Papa Francesco si è soffermato sulla centralità della figura della donna nella Chiesa e nella società. “Di Maria la Chiesa ha bisogno – ha spiegato – per riscoprire il proprio volto femminile: per assomigliare maggiormente a lei che, donna, Vergine e Madre, ne rappresenta il modello e la figura perfetta; per fare spazio alle donne ed essere generativa attraverso una pastorale fatta di cura e di sollecitudine, di pazienza e di coraggio materno”.

“Ma anche il mondo ha bisogno di guardare alle madri e alle donne per trovare la pace, per uscire dalle spirali della violenza e dell’odio, e tornare ad avere sguardi umani e cuori che vedono”, il monito di Francesco: “E ogni società ha bisogno di accogliere il dono della donna, di ogni donna: di rispettarla, custodirla, valorizzarla, sapendo che chi ferisce una sola donna profana Dio, nato da donna”.

“All’inizio del nuovo anno guardiamo a Maria e, con il cuore grato,

pensiamo e guardiamo anche alle madri, per imparare quell’amore che si coltiva soprattutto nel silenzio, che sa fare spazio all’altro, rispettando la sua dignità, lasciando la libertà di esprimersi, rigettando ogni forma di possesso, sopraffazione e violenza”,

l’invito del Papa, nel primo Angelus del 2024 da piazza San Pietro. “C’è tanto bisogno di questo oggi!”, ha esclamato Francesco citando il messaggio per l’odierna Giornata Mondiale della Pace: “La libertà e la convivenza pacifica sono minacciate quando gli esseri umani cedono alla tentazione dell’egoismo, dell’interesse personale, della brama di profitto e della sete di potere”. “L’amore, invece, è fatto di rispetto e gentilezza”, ha osservato il Papa: “in questo modo abbatte le barriere e aiuta a vivere relazioni fraterne, a edificare società più giuste e umane, più pacifiche”.

“Madre di Dio: è un dogma di fede, ma è pure un dogma di speranza: Dio nell’uomo e l’uomo in Dio, per sempre”, il riferimento dell’omelia alla festività odierna, che coincide con la Giornata mondiale della pace. “Al principio del tempo della salvezza c’è la Madre di Dio, la nostra Madre santa”, ha ricordato Francesco: “È bello allora che l’anno si apra invocandola; è bello che il popolo fedele, come un tempo a Efeso – erano coraggiosi quei cristiani – proclami con gioia la Santa Madre di Dio. Le parole Madre di Dio esprimono infatti la gioiosa certezza che il Signore, tenero Bimbo in braccio alla mamma, si è unito per sempre alla nostra umanità, al punto che essa non è più solo nostra, ma sua. Madre di Dio: poche parole per confessare l’alleanza eterna del Signore con noi”.

“La maternità di Maria è la via per incontrare la tenerezza paterna di Dio, la via più vicina, più diretta, più facile, con questo che è lo stile di Dio: vicinanza, compassione, tenerezza”,

ha spiegato il Papa: “La Madre, infatti, ci conduce all’inizio e al cuore della fede, che non è una teoria o un impegno, ma un dono immenso, che ci fa figli amati, dimore dell’amore del Padre. Perciò accogliere nella propria vita la Madre non è una scelta di devozione, ma un’esigenza di fede:

se vogliamo essere cristiani, dobbiamo essere mariani, cioè figli di Maria”.

 “I nostri tempi, vuoti di pace, hanno bisogno di una Madre che ricompatti la famiglia umana”, la tesi di Francesco: “Noi tutti abbiamo delle mancanze, delle solitudini, dei vuoti che chiedono di essere colmati. Ognuno di noi conosce i propri”, ha osservato: “Quando siamo tentati di chiuderci in noi stessi, andiamo da lei; quando non riusciamo a districarci tra i nodi della vita, cerchiamo rifugio in lei”. “Guardiamo a Maria per diventare costruttori di unità, e facciamolo con la sua creatività di Madre, che si prende cura dei figli: li raduna e li consola, ne ascolta le pene e ne asciuga le lacrime”, l’invito: “Affidiamo il nuovo anno alla Madre di Dio. Consacriamole le nostre vite. Lei, con tenerezza, saprà dischiuderne la pienezza. Perché ci condurrà a Gesù e Gesù è la pienezza del tempo, di ogni tempo, del nostro tempo, del tempo di ognuno di noi”. Poi la citazione di Lutero: “non è stata la pienezza dei tempi a far sì che il Figlio di Dio fosse inviato, ma al contrario, l’invio del Figlio ha fatto scaturire la pienezza dei tempi”. “Sia quest’anno pieno della consolazione del Signore”, l’augurio finale: “sia quest’anno colmo della tenerezza materna di Maria, la Santa Madre di Dio. E vi invito adesso a proclamare tutti insieme ad alta voce per tre volte: Santa Madre di Dio!”.

“Le nostre mamme, con la loro cura nascosta, con la loro premura, sono spesso magnifiche cattedrali del silenzio”, l’omaggio del Papa durante l’Angelus: “Ci mettono al mondo e poi continuano a seguirci, tante volte inosservate, perché noi possiamo crescere. Ricordiamoci questo: l’amore non soffoca mai, l’amore fa spazio all’altro e lo fa crescere”. “È un bel tratto il silenzio della Madre”, ha commentato Francesco: “Non si tratta di una semplice assenza di parole, ma di un silenzio colmo di stupore e di adorazione per le meraviglie che Dio sta operando. ‘Maria – annota San Luca – custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore’. In tal modo ella fa spazio in sé a Colui che è nato; nel silenzio e nell’adorazione, mette Gesù al centro e lo testimonia come Salvatore. Così è Madre non solo perché ha portato Gesù in grembo e lo ha partorito, ma perché lo mette in luce, senza occuparne il posto. Starà in silenzio anche sotto la croce, nell’ora più buia, e continuerà a fare spazio a lui e a generarlo per noi”.

 

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Papa Francesco: “Chi ferisce una sola donna profana Dio” first appeared on AgenSIR.

Governare l’IA è azione di pace

Lun, 01/01/2024 - 12:09

Un nuovo anno si apre, ma all’insegna della guerra. Il susseguirsi degli avvenimenti sembra avere creato la convinzione che il conflitto sia l’unico strumento per regolare i rapporti tra i popoli e tra le nazioni. Tutto questo mentre la pace, invocata e desiderata, si allontana dal cuore degli uomini prima ancora che dai negoziati della diplomazia o dalle attività che istituzioni nazionali e organismi internazionali mettono in atto perché le armi possano tacere. Ucraina, Palestina e Medio Oriente, Myanmar, Etiopia, Yemen…le vittime della guerra sono in aumento, e con loro cresce l’abitudine fino all’indifferenza. Quasi che tutto rientri in una quotidiana normalità.

Ad aggravare lo scenario è il dato che si combatte abbandonando quei comportamenti che paradossalmente definivamo “corretti”, lasciando spazio ad una volontà di potenza che supera divieti, aggredisce, sparge terrore, usa risposte e mezzi sproporzionati, non distingue più tra obiettivi militari e civili inermi. Quanto maturato dalla coscienza internazionale, spesso dopo eccidi, genocidi e distruzioni di massa, è ormai dimenticato. Al suo posto l’azione militare sempre più si affida a nuove tecnologie, a sofisticate forme di intelligenza che se sono il culmine di ricerche e risultati tecnico-scientifici, evidenziano l’assenza di responsabili a cui attribuire gli effetti della loro applicazione, liquidati come “effetti collaterali”.

Siamo nell’era dell’intelligenza artificiale, è indubbio. Qualcosa che riguarda certamente i conflitti, anzi ne determina la condotta e gli esiti, ma che ha ormai invaso e pervaso anche la nostra quotidianità. Per alcuni l’IA ha toccato le aspirazioni più profonde ad una tecnologia illimitata, per altri il desiderio di profitti sempre più consistenti, per altri ancora ha fatto sorgere la speranza che attraverso sistemi sofisticati qualcuno possa… pensare al posto nostro. Non è più l’eterno contrapporsi tra il desiderio della conoscenza e il reale dell’umano, quanto piuttosto una illimitata fiducia verso una realtà che se non riesce a risolverci tutti i problemi quantomeno ci esime dalle responsabilità rispetto ad atti e fatti. E così, avvolti nel virtuale, restiamo testimoni di un modo di operare che sostituisce il risultato al pensiero in nome di una programmazione, di un sistema di apprendimento e di attività che coinvolge i valori basilari dell’azione umana (è forse troppo parlare di bene e male?), e finanche determina le modalità del sapere.

Di qui la riflessione posta dal Messaggio per la Giornata mondiale della pace che apre questo 2024, nella quale Papa Francesco ci invita non ad uno sterile rifiuto di tutto ciò che può essere realmente sussidiario all’agire umano, ma ci immette nel rapporto intrinseco dell’IA con l’idea di pace.

I processi di pace hanno certamente bisogno di ogni tipo di apporto, sostegno, intelligenza, ma come dice Francesco essi debbono scaturire dal cuore dell’uomo e non possono quindi limitarsi a tecnologie che per quanto sofisticate hanno i loro limiti negli interessi più svariati e nelle attenzioni di chi vuole aumentare soltanto il proprio spazio di potere, le proprie sfere di influenza o compiere un passo di supremazia sull’altro, escludendolo o emarginandolo.

Riconoscendo il positivo di ciò che la ricerca e la tecnologia producono dando impeto e nuova linfa alla scienza, l’invito del Messaggio è governare il processo. L’intelligenza artificiale, come ogni altra situazione che si propone nella vita delle persone, degli Stati e dell’intera Comunità internazionale, non è frutto di improvvisati disegni, ma segue la logica tipica di ogni processo nel quale si accomunano e spesso si confondono intuizioni, studio, conoscenza e previsione degli effetti nel concreto del vivere sociale.

Per questo, come ogni altra realtà, anche l’IA va governata attraverso strumenti che possono nascere all’interno degli Stati, di loro raggruppamenti (ne è esempio la recente regolamentazione dell’Unione europea). È lo sforzo necessario di fronte ad un fenomeno non ancora esploso nella sua completezza e soprattutto non ancora visibile nel suo potenziale e, almeno nella generalità dei casi, in tutti gli effetti possibili, praticabili e di supporto. L’idea del Messaggio di Papa Francesco di una regolamentazione internazionale mediante appositi atti normativi è una modalità da percorrere nell’obiettivo di governance, pur sapendo che potrà incontrare le stesse difficoltà emerse di fronte alla proposta di regole internazionali per governare la rete. Anche nel caso dell’IA, infatti, ad essere toccati sono interessi particolari, investimenti, impegni economici, ritorni in termini finanziari, ma anche commercio e flussi di armamenti, sistemi di alleanze e risposte di blocco rispetto ai conflitti ed alle possibilità di pace.

Tutto ciò che è autenticamente umano va letto, valutato e riportato nella quotidianità dell’agire della famiglia umana, come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Ma questo richiede non soltanto di valutarne gli effetti ma di governarne l’uso, ponendo cioè degli obiettivi e soprattutto rendendo ogni nuova situazione come possibile strumento di azioni solidali. Un agire che coinvolga e non crei ulteriori divisioni, visto che i divari tra persone, comunità, paesi sono già tanti, troppi.

L’assurdo della guerra, poi, che nell’immediato ci mostra distruzione e vittime di armamenti supportati dall’intelligenza artificiale, fa riflettere ulteriormente: è possibile declinare ogni responsabilità, attribuendola alla macchina, confidando che la stessa sia infallibile e anche attraverso gli errori può apprendere? Tornano in mente le parole che Hal 9000, il freddo calcolatore del film 2001 Odissea nello spazio pronunciava di fronte a chi richiedeva di essere ascoltato: “Le mie responsabilità coprono tutte le operazioni dell’astronave quindi sono perennemente occupato”.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Governare l’IA è azione di pace first appeared on AgenSIR.

Non solo Ucraina, non solo Gaza: la guerra mondiale a pezzi

Lun, 01/01/2024 - 12:09

L’espressione “terza guerra mondiale a pezzi”, coniata nel 2014 da Papa Francesco, riecheggia tra gli analisti dispiegando tutta la sua pregnanza. È innegabile: la nostra è un’epoca di conflitti disseminati eppur collegati in quanto a cause e corresponsabilità, effetti e rischi propagativi. È il lato oscuro di un’interdipendenza fatta di antagonismi locali ma intelligibili più chiaramente a livello globale. Nella trama si inserisce anche la metamorfosi della guerra, ibrida in relazione alle modalità, certo, ma anche rispetto agli attori: non più soltanto statuali, a dispetto dei postulati moderni.

Tutto ciò è ormai incontrovertibile, basti guardare al teatro ucraino e a quello israelo-palestinese, come pure alle vicende di Libia e Siria. Ma il mosaico si compone di molte altre tessere, che importa sommariamente ricordare per un surplus di consapevolezza sull’impossibilità di confidare nella protezione della mera distanza geografica.

In Africa 31 Stati e circa 300 gruppi sono coinvolti in conflitti.

Dell’instabilità irradiata nell’area subsahariana dall’anarchia libica ha profittato il radicalismo islamista, che ha reso il Sahel la regione più flagellata dal terrorismo jihadista. Le carenze governative nel fronteggiarlo hanno generato una sequenza di golpe militari, con il concorso della sfida russa nella sfera egemonica della Françafrique. Così in Burkina Faso, Mali, Niger. In Sudan il “golpe nel golpe” tentato dal generale Hemedti ha riattivato la guerriglia in Darfur, dove è in corso una migrazione di massa verso il Ciad, sospinta dalle violenze sull’etnia masalit da parte di milizie arabe e delle truppe Rsf. In Ciad, d’altronde, l’aggravamento della malnutrizione dovuta al blocco del grano ucraino riagita i fronti rivoluzionari della guerra civile chiusa nel 2010.

In Etiopia i governativi si scontrano con i separatisti dotati di sostegni esterni, prolungando gli strascichi della guerra del Tigrai (2020-2021) chiusa con oltre 500mila morti e 2 mln di sfollati.

Il governo della Nigeria viene impegnato da Boko Haram e dagli irredentisti del Biafra, mentre nella Somalia piagata dalle guerre civili (1986-2006) imperversano ancora i mercenari dei signori della guerra locali e le milizie al-Shabaab, in un coacervo di collusioni con potentati economici e mafie internazionali. Così pure nella Repubblica democratica del Congo, già al centro del cosiddetto Olocausto nero (1996-2003) con 5 mln di vittime. Nonostante la missione Monusco, oltre cento milizie prolungano la crisi umanitaria, con connivenze esterne interessate alle risorse estrattive (incluse le terre rare, fondamentali sul mercato dell’energia verde). Nel mentre il governo torna a minacciare il Ruanda, accusato di finanziare le incursioni dei paramilitari M23. Ma è di queste ore l’apprensione per gli scontri connessi alle presidenziali del 20-21 dicembre, svolte nel caos procedurale: lo spoglio, condotto con estrema lentezza, conferma la rielezione di Tshisekedi, cui le opposizioni reagiscono denunciando brogli e mettendosi sul piede di guerra.

Nelle Americhe del Centro e del Sud 7 governi e circa 40 tra cartelli del narcotraffico e milizie rivoluzionarie imbracciano le armi. Negli ultimi giorni, inoltre, si è accesa nuovamente la scintilla delle tensioni tra Venezuela e Guyana. A inizio dicembre Maduro, forte del risultato referendario, aveva rilanciato l’annessione dell’Essequibo, che con il lodo di Parigi del 1899 Usa, Russia e Regno Unito incorporarono nel territorio guyanese, allora colonia britannica. Caracas è tornata a eccepire l’illegittimità della cessione, rispolverando un accordo del 1966 e ricusando la competenza arbitrale affidata al Tribunale dell’Aia. La mobilitazione di un contingente venezuelano, nelle scorse settimane, aveva fatto temere per il peggio, ponendo in stato di allerta Guyana e Brasile. L’accordo di Argyle tra Maduro e il leader guyanese Ali è sembrato spegnere le fiamme, con l’impegno a risolvere la vertenza per via diplomatica. Tuttavia l’invio da parte di Londra della nave militare Hsm nelle acque guyanesi adesso viene denunciato dal Venezuela come una minaccia meritevole di reazione, per ora avviata disponendo un’esercitazione militare nei Caraibi.

In Europa, oltre alle vicende ucraine, anche l’incandescenza tra Serbia e Kosovo riflette le tensioni (sino)russo-americane.

L’Asia annovera 27 governi e circa 500 soggetti non statuali in stato di conflitto.

L’operazione-lampo dell’Azerbaigian ha appena dissolto il secessionismo del Nagorno-Karabakh, sino a ieri sostenuto da Armenia, Russia, Iran e curdi, contro le truppe azere rifornite da Turchia, Israele e Pakistan: rivalità incrociate le cui recenti riformulazioni (le intese russo-turche, il progetto Brics+ e l’avvicinamento armeno all’orbita Usa) spiegano l’esito “sacrificale” per cui dal 2024 l’area verrà reintegrata nell’Artsakh azero, con l’incognita dei rifugiati armeni.

In Pakistan, nella quiescenza delle frizioni con l’India per il Kashmir, restano attivi gli scontri con islamisti e separatisti che pungolano il Paese, piattaforma atomica degli Usa sulla direttrice delle proiezioni arabiche di Pechino.

L’Afghanistan di nuovo talebano saggia la resistenza in Panshir dell’Alleanza del Nord e le minacce del terrorismo di Isis-K, che muove dalla provincia iraniana di Khorasan accusando Kabul di intelligenza occulta con gli Usa in funzione anticinese.

Sul 38° parallelo resta congelato il conflitto tra le due Coree, nonostante le provocazioni di Pyongyang, mentre gli eserciti di Filippine, Indonesia, Thailandia e Nepal fronteggiano al-qaedisti e maoisti.

In Myanmar l’etnocrazia bamar guidata dalla giunta militare golpista è tornata alle pratiche genocidarie in danno dei rohingya e di altre etnie minori, i cui sfollamenti minacciano la stabilità dell’intera regione, su cui Usa, India e Cina si contendono l’influenza. Nelle ultime settimane l’Operazione 1027 condotta dalle forze interetniche è arrivata a sottrarre all’esercito governativo il controllo della maggior parte del territorio. La mediazione indonesiana sembra naufragata, anche per la difficoltà di trovare, nella congerie dei gruppi guerriglieri, un interlocutore unitario. La giunta, dopo averla accusata di sostenere i ribelli, ora torna a chiedere alla Cina di intervenire. E questa, pur ribadendo la non ingerenza, stante l’acuirsi degli scontri a ridosso del confine, per la prima volta ha formalizzato l’appello all’armistizio.

In Medioriente l’inferno di Gaza si intreccia con la guerra in Siria («il peggior disastro causato dall’uomo dopo la Seconda Guerra mondiale», secondo l’Alto Commissario Onu per i diritti umani), in cui imperversano gli scontri tra gruppi locali spalleggiati da potenze rivali, cui appunto si aggiungono gli attacchi israeliani contro le truppe sciite.

Il Kurdistan resta bersaglio delle forze di Ankara che, sradicando l’indipendentismo curdo, intende creare un cuscinetto securitario a sud, funzionale al disegno turco di prestarsi ad hub energetico d’Europa.

Il Libano patisce gli annosi scambi di fuoco tra Hezbollah e Israele lungo la Blue Line nonostante l’interposizione Unifil, scontando all’interno le ingerenze di Riad, Teheran e Parigi, nel quadro di un’ingovernabilità funzionale agli appetiti per i giacimenti di gas al largo delle coste, sinora improduttivi per via delle vertenze con Tel Aviv sui confini marittimi. Ma in queste ore l’attenzione è tutta rivolta alle pressioni militari di Hezbollah contro Israele, impegnato nei massacri nella Striscia di Gaza e nelle meno illustrate violenze in Cisgiordania.

Lo Yemen è tornato alla ribalta delle cronache per gli attacchi degli houthi contro le navi mercantili in transito nel Mar Rosso, volti a contrastare i rifornimenti a Tel Aviv e a incrementare, con il blocco della rotta per Suez, la pressione internazionale sul governo Netanyahu. L’operazione aeronavale Prosperity Guardian guidata da Washington a protezione del corridoio non pare intimidire i ribelli yemeniti, che si dicono intenzionati a cadenzare i raid ogni 12 ore anche a costo di subire i bombardamenti da parte di Usa e sodali. A monte serve ricordare che la guerra in Yemen, deflagrò sulla spinta delle Primavere arabe nel 2015, quando una lega a guida saudita prese a bombardare gli houthi, sciiti sostenuti dall’Iran. Diviso il nord ribelle dal sud governativo, il conflitto costituisce l’ennesima guerra per procura, in tal caso tra Teheran e Riad, con annessa emergenza umanitaria. La tregua del 2022, convalidata dal recente riallaccio diplomatico tra Arabia Saudita e Iran incentivato dalla Cina (in vista del Brics+), ha effetti ancora parziali stanti le iniziative di scontro tra gli antagonisti locali.

La rassegna è approssimativa, ma non conta il nudo dato quantitativo. Importano invece le connessioni. A causa loro, nonostante le narrazioni che fanno esistere solo ciò di cui si parla, la realtà rivendica le proprie evidenze. Negli auspici per l’anno che si apre, inseriamo pure il dovere di avvertirci responsabili, senza alcun alibi per l’ignavia o, peggio ancora, per le complicità dissimulate dai più improbabili rivestimenti ideologici. Il mondo per come oggi lo conosciamo non consente il lusso del disinteresse per le collegate sorti della famiglia umana.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Non solo Ucraina, non solo Gaza: la guerra mondiale a pezzi first appeared on AgenSIR.

La speranza dei cristiani è attesa che si compiano le promesse di Dio

Dom, 31/12/2023 - 10:30

Il 2023 è stato un anno molto doloroso, ognuno può decidere se più o meno dei precedenti. Non credo valga la pena stilare una lista di tutto quel che è accaduto di brutto, e poi sarebbe un compito al di là delle mie capacità, anche perché purtroppo faccio presto a dimenticare. Però non dimentico le parole che qui a Padova, la mia città, Gino Cecchettin ha pronunciato al funerale di sua figlia Giulia: “Io non so pregare, ma so sperare. Voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace”.
Pregare e sperare: si direbbero due verbi adatti a persone impotenti, ma non è forse vero che siamo impotenti rispetto a tutto il male del mondo e molto spesso anche solo rispetto a quello che ci coinvolge personalmente?
Eppure pregare e sperare sono due verbi ineludibili per la vita cristiana.
La speranza di cui parla il Nuovo Testamento non è, come nel linguaggio di oggi, il desiderio di qualcosa di desiderabile ma incerto, o magari addirittura improbabile, come vincere la lotteria. In spagnolo esperar significa aspettare e così pure nell’antichità la parola speranza significava semplicemente attesa: attesa di qualcosa di positivo o negativo, ma sicuro. La speranza cristiana è l’attesa che si compia ciò che il Signore Gesù ha promesso e che quindi avverrà: il suo ritorno, una nuova creazione, la vita eterna.
Pregare è, tra l’altro, riaccendere questa attesa; mettersi davanti a Dio – non per ricordargli le sue promesse, ma per ricordarle noi – in ginocchio, perché quei beni che aspettiamo non sono in alcun modo meritati né dovuti, ma ne abbiamo tanto bisogno. Tutto il dolore del mondo, specialmente quello innocente, ma anche quello meno innocente, grida verso Dio e chiede che si compia la sua volontà e venga finalmente il suo regno.
Tuttavia la speranza e la preghiera non spingono i credenti verso il fatalismo, la rassegnazione e l’inazione: Gesù ci ha chiesto di vegliare e operare in attesa della sua venuta. Anche perché prima ci saranno guerre e rivoluzioni, terremoti, carestie e pestilenze “ma non sarà subito la fine” (cf. Lc 21,9-11). Innegabile: tutte queste cose accadono da duemila anni e la fine non è ancora arrivata. Però tutto questo “vi darà occasione di render testimonianza” (Lc 21,13), persecuzione compresa, molto diffusa nel mondo e in crescita anche in Europa.
Profeti di sventura, apocalittici e sedicenti veggenti che annunciano la fine prossima ventura si sono moltiplicati negli ultimi anni. Anche questo era già scritto: “Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: ‘Sono io’ e: ‘Il tempo è prossimo’; non seguiteli” (Lc 21,8). Invece hanno molto seguito perché fanno leva sulla paura e promettono una salvezza molto terra-terra: la sopravvivenza, la salute del corpo, il buon esito delle proprie iniziative. Ma è davvero tutto qui, quel che possiamo sperare?
Come tutto il resto dell’umanità, possiamo sperare che il nuovo anno sia migliore e che vada tutto bene, o almeno meglio dell’anno trascorso, ma già Leopardi nel suo celebre “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero” aveva evidenziato la vacuità di questo genere di speranza. Davvero vogliamo accontentarci di questo “Spero, anche se in fondo non ci credo”?
L’altra possibilità, scartando il pessimismo e la disperazione, è sperare come cristiani, vale a dire attendere in modo vigile e operoso che si compiano le promesse del Signore Gesù, non solo alla fine dei tempi, ma anche nella vita quotidiana, cogliendo le occasioni per dare testimonianza. Che non mancheranno, questo è sicuro.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post La speranza dei cristiani è attesa che si compiano le promesse di Dio first appeared on AgenSIR.

 31 dicembre: la festa della Santa Famiglia

Sab, 30/12/2023 - 19:04

Nella seconda domenica di Natale siamo invitati a guardarci allo specchio attraverso l’esempio di Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù. La santa Famiglia è sempre il modello di chi ama, educa e vuole crescere nella santità e quindi nell’amore di Dio. Educare oggi è sempre difficile specialmente in questo orizzonte educativo provato dalle incertezze economiche e dalle piaghe sociali delle violenze e degli abusi. Ma educare appunto vuol dire, prendersi cura in ogni momento di chi abbiamo accanto e quindi cercando di far emergere il bello e il buono.

Genitori non si nasce ma si diventa e si impara ogni giorno a comunicare attraverso atteggiamenti di umiltà e obbedienza.

Maria e Giuseppe sono umili nell’obbedire alla parola. Dalla umiltà nasce la fiducia incondizionata di lasciarsi guidare dallo Spirito anche quando non si conosce nulla e ci si sente incompetenti in materia. Come Maria e Giuseppe tutti noi siamo chiamati a diventare schola amoris come ci ricordava Paolo VI: la famiglia è proprio una scuola dove si imapara e si insegna ad essere educatori di vita e di speranza. Una scuola dove tutti si mettono in discussione e si superano gelosie e rivalita’ di ogni genere. Nella grande arte della maieutica dobbiamo imparare ad attendere i frutti di un processo educativo senza oppressioni, aiutando i nostri ragazzi a tirar fuori il bello e il meglio di se nel rispetto delle proprie inclinazioni e vocazioni. Educare come Maria e Giuseppe vuol dire anche mettersi in ricerca di Gesù che perde la strada per insegnare ai dottor della legge, i mentre noi invece pensiamo di averlo perso . Anche quando pensiamo di averlo perso invece Dio è con noi e ci aiuta e ci accompgna sempre anche nelle difficolta’ quotidiane. Pensiamo al nuovo anno 2024 che arriva in un momento in cui si combatte in medio oriente e i focolai di guerra sono sempre accesi. In una Italia smarrita e dispersa dove sembra aleggiare insicurezza e confusione, rimettiamoci in cammino sapendo che non siamo dispersi: scriveva così Davide Maria Turoldo: Ti fuggo o Luce, ma sempre sulla strada ti incontro. Anche se puo’ avvenire di perdere il senso e la meta, la luce che portiamo dentro ci illumina e ci aiuta sempre a ritrovare il chiarore della nostra esistenza.

In questa fine di anno le nostre valutazioni potrebbero lasciarci cadere in un legittimo pessimismo ma la Parola di Dio è sempre un tizzone ardente (Agostino) che rinvigorisce la fiamma flebile di uno stoppino consumato. Continuiamo a ricevere la Benedizione di Giuseppe e Maria e del Bambino Gesù. Tutti si sentano accompagnati dalla coppia di Dio che nel silenzio di una stalla hanno accolto la vita e ce la donano.

Impariamo da Maria a lasciarci condurre e da Giuseppe: a prendere in mano il timone della vita anche se siamo sballottati da onde impetuose e venti contrari. Non mancano gli Erodi di turno che ci vogliono male, tuttavia anche da migranti siamo sempre in cammino anche in mezzo al deserto. Deserto vuol dire solitudine e aridità ma anche luogo di incontro e relazione dove Dio ci parla e vuole un legame speciale con noi come in Osea: ti condurrò nel deserto e là parlerò al tuo cuore. Giuseppe e Maria portano Gesù nel deserto per arrivare in Egitto. Anche noi siamo nella via di mezzo di un deserto molto difficile ma è sempre il tramite di qualcosa di nuovo e di un cambiamento. Il 2024 faccia riaffiorare la speranza, i fiori nascono anche sotto le pietre: le lance diventino falci e le spade si trasformino in vomeri. Nulla è male per sempre e la luce affiora anche nelle crepe. La Santa Famiglia ci ispiri sentimenti e propositi per un inizio migliore.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post  31 dicembre: la festa della Santa Famiglia first appeared on AgenSIR.

Con la speranza nel cuore

Sab, 30/12/2023 - 19:04

È trascorso un anno e il 2023 è ormai terminato e, volendo fare un bilancio, possiamo guardare indietro, per individuare le luci e le ombre che hanno caratterizzato il percorso.
Se facciamo attenzione, ci rendiamo conto che il nostro sguardo è più propenso a scorgere in questo anno il negativo e anche a tenere vivo nella memoria soprattutto ciò che ci ha arrecato sofferenza. Lo smarrimento in questo tempo sembra aver toccato la vita di ciascuno, soprattutto perché constatiamo che i motivi reali non mancano ma, se ci fermiamo solo a questo, possiamo entrare in confusione. Basta pensare alle guerre, all’insicurezza nel lavoro, nell’amore, nelle amicizie, ai conflitti tra individui, alla mancanza di rispetto e della custodia del bene comune, alle incomprensioni, alle paure, ecc. Sembra che il mondo sia sulle spalle di ogni singolo individuo, anche perché ognuno si convince giorno per giorno che tutto parte da sé e che tutto finisce con sé.

Spesso rimaniamo agganciati alla sofferenza, anche perché non sempre elaboriamo la perdita di qualcuno o di qualcosa. Quando ciò accade, non riusciamo a scorgere il bene, le luci, la gioia che attraversano il nostro cammino. Spesso interpretiamo ogni evento a partire dal nostro punto di vista e non lasciamo spazio alla fede, a Gesù Cristo che con il Vangelo ci permette di valutare ogni situazione da una prospettiva completamente diversa, per vivere da persone in relazione che diffondono speranza.

Se siamo consapevoli che l’esistenza non si può identificare solo con il dolore, vogliamo alla fine dell’anno far memoria dei momenti in cui invece abbiamo sperimentato che la vita può rinascere sempre in noi, negli altri e intorno a noi?
Ogni attimo vissuto con fede alla presenza di Dio, anche nella sofferenza, consente al Signore di liberarci dal groviglio dei nodi che ci avvinghiano e che non ci permettono di volare alto. Quando questo avviene, il Signore ci aiuta a gioire, liberando la vita dentro di noi, per poterla donare a Dio e ad ogni persona che incontriamo.
È urgente soprattutto in questo tempo di disorientamento svegliarci dal torpore, senza che la nostra vita venga tallonata dal bisogno esasperato della ricerca dell’apparenza, del protagonismo, dell’individualismo, del benessere a tutti i costi, dal giovanilismo. Tante energie, a volte, vengono sciupate per poco, mentre Cristo e il Vangelo ci permettono di ritrovare le coordinate della nostra vita che ci fanno ritrovare l’amore da diffondere nell’umanità.

Alla fine dell’anno possiamo trovare mille motivi per ringraziare il Signore e portare ovunque la gioia. Pensiamo all’esistenza che ci è stata donata da Dio nella gratuità e ringraziamo il Signore per questo grande dono. Consideriamo per un attimo tutte quelle persone che abbiamo incontrato durante l’anno, con cui abbiamo stabilito delle relazioni. Riviviamo quell’amore dato e ricevuto, la cura che abbiamo sperimentato o donato e chiediamoci: come sarebbe stata la vita di ciascuno se non fossimo mai nati?

Facciamo memoria ancora di tutti i momenti in cui abbiamo riallacciato durante l’anno delle relazioni interrotte da diverso tempo e che in questi mesi hanno ripreso vita. Ringraziamo il Signore per tutte le volte in cui ci ha fatto sperimentare la fedeltà ricevuta e donata.
Chiamiamo per nome i sentimenti che abbiamo provato contemplando i volti delle persone, di coloro che si amano, dei poveri, dei bambini. Diamo spazio alla tenerezza che ci attraversa e che rende il cuore di carne.
Tuffiamoci nel ricordo contemplativo di un’esperienza di un tramonto sul mare o in montagna, della bellezza di un prato verde spennellato dai colori dei diversi fiorellini e godiamo del silenzio che è l’eco della presenza di Dio.
Rivisitiamo alla fine un’esperienza profonda di fede vissuta in quest’anno dove, condotti da Gesù, abbiamo toccato con mano la presenza di Dio e sperimentato, attraverso lo Spirito, l’amore senza fine e… ci siamo lasciati amare!

Lungo il cammino abbiamo incontrato anche Maria, la Madre di Gesù, Figlio di Dio, che con la sua vicinanza materna ci ha esortati in punta di piedi a fare ogni giorno ciò che Gesù ci dirà, perché da questo dipenderà la giustizia, la pace e la gioia nel cuore e nel mondo.

Fermiamoci qualche istante e preghiamo. Chiediamoci: per quale motivo voglio ringraziare il Signore alla fine dell’anno trascorso e con quali sentimenti voglio iniziare il nuovo? Quali impegni concreti voglio assumere?
Buon anno 2024.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Con la speranza nel cuore first appeared on AgenSIR.

“Come può uno scoglio” con Pio e Amedeo e “Succede anche nelle migliori famiglie” di Alessandro Siani

Sab, 30/12/2023 - 10:29

Una curiosa coincidenza l’uscita ravvicinata di due commedie italiane che puntano al box office dei giorni di festa e che mettono a tema la figura paterna e in generale le relazioni familiari. La prima è “Come può uno scoglio” con il duo comico Pio e Amedeo, diretta dal regista Gennaro Nunziante, in sala dal 28 dicembre con Vision Distribution. In un road movie tra Veneto e Puglia, Pio e Amedeo mettono in scena una sorta di “Quasi amici. Intouchables” (2011) ma in chiave regionale: due quarantenni agli antipodi, per status e modi, sono chiamati a convivere forzatamente, scoprendo alla fine di avere non poche affinità. Un’opera dalla comicità frizzante e moderatamente scorretta, secondo i canoni di Pio e Amedeo, con una vocazione di respiro familiare. In sala dal 1° gennaio 2024 “Succede anche nelle migliori famiglie”, un film di e con Alessandro Siani, che esplora il trauma per la morte del padre e il difficile dialogo tra fratelli, tra il peso di aspettative genitoriali e desideri di libertà. Una commedia che corre su un binario collaudato, quello della comicità di Siani, tra gag slapstick e battute pepate, ma senza troppe sorprese. Nel cast Cristiana Capotondi, Dino Abbrescia, Anna Galiena, Antonio Catania e Sergio Friscia. Il punto Cnvf-Sir.

(Foto Ufficio stampa)

“Come può uno scoglio” (Cinema, 28.12)

Dopo “Belli ciao” (2022), i due comici foggiani Pio e Amedeo – Pio D’Antini e Amedeo Grieco, classe 1983 – provano i fare il bis sul grande schermo affidandosi nuovamente a un regista esperto, che ha infranto record su record al box office: Gennaro Nunziante, artefice dei successi più fragorosi di Checco Zalone (da “Cado dalle nubi” del 2009 a “Quo vado?” del 2016). Insieme a Nunziante, Pio e Amedeo hanno messo su un nuovo progetto che rispecchia maggiormente il loro stile irriverente e al contempo capace di parlare al grande pubblico. È “Come può uno scoglio”, in uscita al cinema con Vision Distribution, una produzione Fremantle, Sky e Prime Video. Nel cast oltre ai due comici, veri mattatori dalla prima all’ultima inquadratura, figurano anche Francesca Valtorta, Nicola Rignanese e Claudio Bigagli.
La storia. Veneto oggi, Pio è un avvocato quarantenne sposato con Borromea e padre di due figli. È in campagna elettorale per la poltrona di sindaco della sua città, quando perde il padre. Negli stessi giorni lo affianca come nuovo autista-assistente personale Amedeo, un quarantenne segnalato dal parroco don Boschin, che sta cercando di rimettersi in partita con la vita dopo un andirivieni dal carcere. Pio e Amedeo non potrebbero essere più diversi per carattere e stile di vita: il primo mite ed esageratamente insicuro, il secondo esuberante al punto da essere spesso fuori controllo. L’occasione di un viaggio in Puglia, per sistemare le proprietà di famiglia dopo la morte paterna, li farà avvicinare, permettendo soprattutto a Pio di scrollarsi di dosso pesanti rigidità e costrizioni.
“Il film è un’iperbole dei nostri personaggi: segna il passaggio da uomo di sabbia a uomo scoglio”. Così Pio e Amedeo in conferenza stampa spiegano la linea tematica del loro nuovo film. Il film segue infatti la traiettoria di Pio, ingabbiato in un ruolo familiare, lavorativo e politico che non lo rende felice, ma da cui non riesce a prendere le distanze. Quando compare al suo fianco Amedeo, che sulle prime sembra la sua “nemesi” farsesca, sarà costretto a fare i conti con se stesso, con il proprio passato. L’abbinamento improbabile tra i due ricorda molto il meraviglioso duetto di “Quasi amici. Intouchables” (2011) di Olivier Nakache e Éric Toledano, con Omar Sy e François Cluzet. Ovviamente in “Come può uno scoglio” cambiano stile e linea comica, come pure la caratterizzazione dei personaggi: è tutto più estremo e irriverente, a tratti grottesco, ma mai del tutto fuori controllo in termini di correttezza verbale. Il film, infatti, desidera intercettare un’ampia forbice di pubblico, candidandosi al ruolo di “cinepanettone” delle feste, ovviamente rivisto e corretto al giorno d’oggi. In questo si vede molto il tocco sapiente di Gennaro Nunziante, che è riuscito a valorizzare e al contempo contenere il talento debordante di Checco Zalone. E il film con Pio e Amedeo segna un nuovo traguardo per Nunziante, che si conferma un abile regista, attento a dove posizionare la macchina da presa, a gestire i tempi comici di due fuochi d’artificio della risata senza che si squilibri l’asse del racconto. Al di là di qualche eccesso qua e là da mettere sempre in conto con la comicità a briglia sciolta di Pio e Amedeo, “Come può uno scoglio” è un film che funziona, tra ritmo e racconto. Un titolo votato all’evasione scanzonata senza troppe pretese. Consigliabile, brillante-semplice.

“Succede anche nelle migliori famiglie” (Cinema, 01.01.24)

Per la sua settima regia il popolare comico napoletano Alessandro Siani scommette sulla famiglia e su una comicità di matrice classica, tra formula slapstick, con gag fisiche, e di battuta. Arriva al cinema dal 1° gennaio “Succede anche nelle migliori famiglie”, scritto, diretto e interpretato dallo stesso Siani. A produrlo sono l’Italian Iternational Film della famiglia Lucisano e Rai Cinema, in sala con 01 Distribution.
La storia. Davide Di Rienzo, è figlio di un noto medico. Terminati gli studi in medicina con poco entusiasmo, si dedica al volontariato alla Caritas. Quando il padre muore all’improvviso, lui e i suoi due fratelli Isabella e Renzo – entrambi realizzati e con una brillante carriera – accorrono nella casa di famiglia in Sicilia per stare vicini alla madre Lina. La donna, dopo un periodo di lutto, confida ai figli di non voler sprecare il tempo rimasto, così li informa del progetto di nuove nozze con un amore di gioventù, il pescatore Angelo Cederna, che dalle prime impressioni sembra ai tre figli ben poco affidabile…
“‘Succede anche nelle migliori famiglie’ – dichiara Alessandro Siani – è sicuramente il mio ritorno alla commedia pura. Molti film favolistici hanno scandito il mio percorso da regista, segnando e contaminando il mio stile diviso tra magia e comicità. Il mio ultimo film ‘Tramite amicizia’ invece è stato un progetto cinematografico inedito e apripista di una mia svolta realistica che potesse essere anche traghettatore di un racconto più vicino alla gente e alle famiglie”. Il regista traccia così il perimetro del suo ultimo film – scritto a quattro mani con Fabio Bonifacci – che approfondisce silenzi, segreti e non detti in ambito familiare. Ovviamente il registro è quello della risata, una commedia che tra gag e battute a raffica, in una narrazione dal ritmo veloce per una durata collaudata, 77 minuti.

(Foto Ufficio stampa)

Anzitutto a livello tematico Siani affronta la figura paterna e il suo ruolo ingombrante approfondendo la condizione di figli che non si sentono mai all’altezza. Ancora, in campo c’è l’elemento della morte, del distacco, ma anche il desiderio di riaffacciarsi alla vita dopo il dolore. E se le intenzioni narrative sono certo valide e interessanti, lo svolgimento non sempre è adeguato o ben sorretto. In alcuni passaggi la commedia incede in maniera debole, con gag e battute un po’ forzate. Il Siani interprete possiede comunque una vis scoppiettante, capace di dare benzina anche a raccordi più fragili. Di fatto, il suo, è sempre un “one man show” con un cast corale. Accanto al comico, infatti, troviamo tutti attori con un passo sicuro e dalla solida carriera, come Anna Galiena, Antonio Catania, Cristiana Capotondi e Dino Abbrescia, che sanno ben muoversi nello spartito composto da Alessandro Siani.
Nel complesso, il film vuole essere una proposta familiare capace di offrire distrazione e divertimento, una risata in leggerezza e con scivolate di tenerezza, che in una cornice temporale odierna non è di certo cosa facile. Consigliabile, brillante-semplice.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post “Come può uno scoglio” con Pio e Amedeo e “Succede anche nelle migliori famiglie” di Alessandro Siani first appeared on AgenSIR.

Daniel, la fiducia di un prete, la scommessa della libertà

Sab, 30/12/2023 - 10:28

Aiutare i ragazzi a tirare fuori il meglio di sé e guidarli verso nuove prospettive di vita è ciò che fa la comunità Kayros. Nata nel 2000 a Milano in una parrocchia della periferia, su iniziativa di don Claudio Burgio e di alcune famiglie, parte come progetto di accoglienza per minori stranieri non accompagnati.

Dal 2007 la comunità si apre anche all’accompagnamento dei ragazzi del penale minorile e ad oggi conta circa 50 ospiti.

L’intento è quello di mettere il minore in condizione di sperimentarsi all’interno di un sistema di relazioni vicine ad una normalità di vita che per molti diventa un nuovo inizio.

Daniel, 31 anni, conosce don Claudio tra le mura dell’Istituto Penale per minori di Milano, il Beccaria. Un incontro che avviene grazie ad una passione che lega entrambi: il calcio. In quel periodo don Claudio è cappellano al Beccaria e dopo aver visto giocare il ragazzo in una partita di calcio lo nota, lo avvicina e gli dice: “Tu devi per forza venire da me, perché noi abbiamo una squadra e dobbiamo vincere il campionato. Mi serve uno come te”. È da qui che comincia il cammino di rinascita di Daniel all’interno della comunità del sacerdote.

“Sono arrivato in Kayros, nel 2012 dopo quasi tre anni di carcere in affidamento in prova – ricorda Daniel. Ho vissuto in comunità un anno e mezzo, dove ho terminato di scontare la mia pena. Successivamente, sono inciampato di nuovo, ed essendo maggiorenne, sono stato mandato a San Vittore”.

Inciampa, cade ma si rialza. In comunità impara a relazionarsi in maniera autentica e consolida il rapporto con don Claudio.  Da maggiorenne chiede al sacerdote di poter essere riaccolto per riprendere gli studi e da privatista consegue il diploma.  Supportato dal don e da quanti sono con lui e grazie ad una borsa di studio, si iscrive all’università e si laurea in scienze dell’educazione. Nel frattempo, comincia a lavorare nella stessa comunità di cui è ospite e, terminato il percorso penale, torna a lavorare come educatore in Kayros per altri tre anni.

Per Daniel non è stato facile essere assegnato a Kayros, perché gli assistenti sociali e gli educatori ritenevano che la comunità fosse troppo morbida e con regole troppo flessibili, per uno come lui. Ma, come dimostra la sua storia, le cose sono andate diversamente “perché Kayros è una comunità che scommette sulla libertà dei ragazzi – testimonia Daniel -, cha dà fiducia, ma richiede responsabilità”.

Gli fa eco don Claudio: “la solitudine e la sfiducia nel mondo adulto segnano profondamente la storia di questi ragazzini che cercano di cavarsela da soli, ed è per questo che poi facilmente tendono a delinquere, e magari intraprendono percorsi devianti”.

Il tempo speso tra i ragazzi insegna che la cattiveria non è innata.

“Abbiamo visto in questi anni che un ragazzo quando ritrova la verità, quando sa misurarsi anche con i propri sbagli, poi effettivamente riemerge e intraprende percorsi virtuosi. La cattiveria diventa uno strumento inconsapevole a volte per cercare di farsi notare, per cercare di essere visibili di fronte al mondo adulto. Noi adulti dobbiamo ascoltare il grido degli adolescenti di oggi. Nessun tipo di buonismo, anzi ci vuole molta fermezza. Però, questi ragazzi sono i primi a non credere nelle loro capacità”.

Gli strumenti a disposizione per raggiungere questo obiettivo sono molti: la musica, lo sport, il teatro, l’incontro con l’altro. Esempi di linguaggi grazie ai quali i giovani riescono a dare voce ai drammi che segnano le loro vite. Sui muri delle case dove vivono gli ospiti della comunità e sugli striscioni degli eventi si legge una frase di don Claudio: “Non esistono ragazzi cattivi”. Non è uno slogan, né una frase fatta. A testimoniarlo sono i racconti di chi ha voluto accettare la scommessa della libertà, vincendola, come Daniel.

 

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Daniel, la fiducia di un prete, la scommessa della libertà first appeared on AgenSIR.

Fr. Matthew: “A Taizè semi di fiducia che possono generare pace”

Sab, 30/12/2023 - 10:17

In migliaia di giovani anche quest’anno da tutta Europa, anche dall’Ucraina e da altri Paesi del mondo. Dopo Madrid, Breslavia, Torino e Rostock, il 46° Meeting europeo di Taizé si svolgerà a Lubiana, capitale della Slovenia, da giovedì 28 dicembre 2023 a lunedì 1° gennaio 2024. L’incontro è preparato dalla Comunità Taizé, in collaborazione con le Chiese locali e con il sostegno della città di Lubiana. “I partecipanti – spiegano gli organizzatori – si mettono in cammino, lasciandosi alle spalle la sicurezza e la familiarità delle loro case”. Saranno accolti in famiglia e dalla popolazione locale ed avranno così la possibilità di “condividere la loro vita e cultura”, “conoscere altri giovani provenienti da tutta Europa e non solo”, “cercare un senso alla vita attraverso la preghiera, il silenzio e il canto, la riflessione personale e la condivisione” e “entrare insieme nel nuovo anno 2024”. Il Sir ha raggiunto telefonicamente fr. Matthew, nuovo priore della Comunità di Taizé. “E’ bello che ci siano persone pronte ad aprire le loro porte agli sconosciuti. E nell’Europa di oggi, non è una cosa così semplice”, dice subito. “Va contro a molto di ciò che ci è viene raccontato, soprattutto dai politici, sulla necessità, per esempio, di dover difendere i nostri confini. C’è una crisi di fiducia. Nelle nostre società e nei confronti delle nostre istituzioni, anche nella Chiesa e anche da noi, soprattutto a seguito degli abusi sessuali. Come possiamo aiutare a far crescere di nuovo la fiducia? Come possiamo diventare tutti pellegrini di fiducia sulla terra? Questa è la grande domanda”.

(Foto CathoBel)

In un mondo scosso da guerre, c’è spazio per guardare in positivo al futuro?
Penso che sia molto importante offrire uno spazio per la preghiera e per l’incontro. Non conosciamo le soluzioni alle domande complicate del mondo di oggi. Ma se possiamo offrire uno spazio dove possiamo mettere queste situazioni davanti a Dio e dove possiamo incontrarci nella semplicità e nella verità, allora forse questo può aiutare a far nascere nel cuore dei giovani una speranza. Con questa speranza possono fare molta strada e diventare attori anche nelle diverse situazioni di guerra e di difficoltà in cui vivono. A Lubiana ci saranno anche giovani provenienti dall’Ucraina. Sono principalmente donne perché i ragazzi non possono lasciare il Paese. Sarà per loro un momento per riprendere fiato e raccogliere nuove forze.

Perché in Slovenia?

La Slovenia è un paese con una storia molto ricca ma piuttosto difficile. Guardare al suo contesto storico ci aiuta oggi capire cosa stiamo vivendo nel momento presente e poi forse a ritrovare la speranza per il futuro. Saremo ospiti in una scuola che durante l’occupazione nazista è stata il quartier generale della Gestapo e nel periodo comunista, un campo di concentramento. Solo nel 1991, con l’indipendenza della Slovenia, è tornata ad essere una scuola e una scuola cattolica. La Slovenia si presenta così, come un condensato di storia europea. Ed è importante che i giovani che possano conoscere questa storia per scoprire qualcosa di nuovo per il loro presente.

Che messaggio consegnerà quest’anno ai giovani?
Ho scritto una lettera ai giovani che ha per titolo, “In cammino insieme”. Si può già trovare sul nostro sito web. E’ divisa in cinque diverse sezioni. Si comincia con l’ascolto. Ascoltare Dio, ascoltare gli altri. E poi si parla del viaggio che stiamo facendo. Perché quando ci mettiamo in ascolto, spesso riceviamo una parola che ci mette in cammino. E mentre viaggiamo, scopriamo cosa significa stare con gli altri, viaggiare con loro. E non solo per pochi istanti, ma per tutta la nostra vita. Ho trascorso gli ultimi 18 mesi a Roma per preparare, insieme a tanti altri, la veglia di preghiera ecumenica che abbiamo avuto in collegamento con il processo sinodale. Questa esperienza ha avuto una grande influenza nella preparazione di questo messaggio. Mi ha fatto capire quanto sia importante camminare insieme per scoprire Cristo l’uno nell’altro e per ricevere dall’altro qualcosa di bello. Sì, questo è il messaggio per i giovani di oggi. Abbiamo bisogno di camminare insieme.

Perché ha tanto insistito su questo aspetto dell’insieme? Vede che i giovani oggi faticano a stare con gli altri?
Viviamo in una società che incoraggia un approccio sempre più individualista, dove ognuno può prendere le proprie decisioni a prescindere dall’altro. La pandemia poi ha avuto un grande effetto sui giovani. Ha creato ulteriore isolamento. E allora come incoraggiarli a camminare insieme? Allo stesso tempo vedo anche che l’azione comune è qualcosa di molto istintivo nei giovani. Guardiamo, per esempio, ai movimenti ecologisti che nascono per contrastare il cambiamento climatico. Lì si capisce quanto sia importante per i giovani stare e agire insieme. Allora come fare? Ne parliamo così da incoraggiarsi a vicenda e scoprire quanto sia importante ricevere l’uno dall’altro.

In un momento in cui i grandi leader mondiali faticano a trovare vie di negoziato per porre fine ai conflitti, cosa possono concretamente fare i giovani per la pace?

I giovani possono davvero preparare il loro futuro di pace. Posso raccontare una storia che ho personalmente vissuto tanti anni fa, quando sono arrivato per la prima volta a Taizé. Sono nato in Inghilterra e come sapete la situazione tra l’Inghilterra e l’Irlanda non è mai stata facile. Per la prima volta a Taizé ho incontrato degli irlandesi e lì ho scoperto che non solo avevamo tanto tanto in comune ma che c’era in loro una cultura molto bella da scoprire. Penso che quando viene data ai giovani l’opportunità di incontrare persone di altre nazioni, gli stereotipi cadono. E scoprono nell’altro un’umanità comune. E se siamo cristiani, un cammino comune nella fede. Attraverso questi contatti personali può nascere qualcosa di bello. E’ quello che avviene nei nostri incontri. Sono semi ma se trattati con cura, possono trasformarsi in qualcosa di forte che può durare nel tempo e generare la pace. La pace è un dono di Dio di cui dobbiamo prenderci cura perché è molto fragile. Forse, uno degli errori che abbiamo commesso recentemente in Europa è stato proprio quello di pensare che la pace fosse per sempre. Ma non è così. Le ferite del passato sono ancora presenti. E ogni desiderio di pace ha bisogno di grande attenzione e di molta cura

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Fr. Matthew: “A Taizè semi di fiducia che possono generare pace” first appeared on AgenSIR.

2024: anno decisivo per l’Ue. Agenda fitta, la parola passa ai cittadini

Ven, 29/12/2023 - 11:00

Cosa c’è nel futuro dell’Unione europea? Quali novità riserverà il 2024 alla “casa comune”, anno in cui i cittadini Ue saranno chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento di Strasburgo?
Domande lecite, a fronte delle innumerevoli sfide che attendono i Ventisette e alla luce dei recenti sviluppi politici registrati a Bruxelles.
Non è nuova l’agenda di Casa Europa. La crisi demografica, le incertezze economiche ed energetiche, le guerre alle porte, il cambiamento climatico, le pressioni migratorie sono – con un elenco certamente incompleto – nella lista delle urgenze da affrontare.
Senza trascurare questioni interne come la revisione – riuscita a metà – del Patto di stabilità, il nuovo Patto asilo e migrazione (con il debole accordo raggiunto il 20 dicembre e il “no” dell’Ungheria), l’intreccio politica estera-sicurezza, la realizzazione di NextGenerationEu e i rispettivi Piani nazionali ripresa e resilienza (Pnrr). Ugualmente importanti sono questioni come il Quadro finanziario pluriennale (in sostanza la definizione del budget dei prossimi anni) e l’invocata riforma dei Trattati che dovrebbe passare da una Convenzione che riunisca istituzioni, rappresentanti dei cittadini e delle parti sociali. Ci si rende conto infatti che l’architettura istituzionale definita prima coi trattati istitutivi, poi con il Trattato di Lisbona del 2007, ha bisogno di essere rinfrescata e alleggerita. Basterebbe segnalare due temi a riguardo: l’abolizione dell’unanimità in Consiglio e il potere di iniziativa legislativa all’Europarlamento.
Argomenti troppo “tecnici”, si potrebbe obiettare. Si tratta, invece, di assegnare poteri adeguati e nuove competenze all’Unione europea in quegli ambiti nei quali si sperimenta ogni giorno l’“impotenza” dei singoli Stati nazionali.

Eppure ci sono governi che frenano ogni passo in avanti della stessa Ue27. Gli esiti del vertice dei capi di Stato e di governo dello scorso fine settimana lo ha confermato. Revisione, fra mille ostacoli, del Patto di stabilità, rinvio del bilancio pluriennale (compresi gli aiuti per la ricostruzione dell’Ucraina), timidi passi avanti per il futuro allargamento (Ucraina, Moldova, Balcani).
Da questo punto di vista il premier ungherese Viktor Orban (ma non è il solo) si è confermato il campione del freno a mano tirato. Sì ai fondi (e dunque ai soldi) europei, no a una integrazione politica ed economica al passo coi tempi, nella direzione di un’Europa coesa ed efficiente, a sua volta protagonista della scena globale al pari dei giganti sub continentali che ben conosciamo: Cina, India, Stati Uniti, Russia, Giappone, Brasile, Nigeria… solo per fare alcuni nomi.
Il 2023 va in archivio con la speranza della pace in Ucraina, in Terra Santa e in tante regioni del mondo. Il 2024 si presenta all’Europa con una lunga lista di argomenti da affrontare nella prospettiva di una maggiore integrazione politica e sociale, ponendo al centro delle scelte i cittadini con attese legittime e problemi quotidiani cui far fronte. Cittadini che potranno far sentire la loro voce con il voto di giugno. Un’occasione di democrazia sovranazionale – l’unica al mondo – da non lasciarsi sfuggire.
Elezioni importantissime, forse decisive per il futuro dell’Unione europea. Si tratta di sapere se prevarranno nell’emiciclo del Parlamento europeo le forze europeiste (quelle che credono a una sovranità condivisa e modulata tra Stati e Ue) o i nazionalisti di varia caratura (che fomentano e scommettono sulle paure della gente). Il 2024 potrebbe chiarire i tratti dell’Europa di domani.

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/12/EuropaVideoFineAnno2023_19122023.mp4

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post 2024: anno decisivo per l’Ue. Agenda fitta, la parola passa ai cittadini first appeared on AgenSIR.

Jacques Delors: l’eredità politica di un “padre” dell’Europa unita

Gio, 28/12/2023 - 16:49

C’è sempre la possibilità, e si corre sempre il rischio, di riconoscere solo post mortem alle madri e ai padri quei meriti che in vita si sono taciuti o disconosciuti. Perfino negati. Per Jacques Delors, da moltissimi stimato in vita, sta accadendo questo da parte dei cosiddetti sovranisti, cittadini o politici che siano, i quali credono ai confini chiusi e ai muri di separazione, confinati essi stessi nel passato.
La morte dello statista francese ed europeo, ministro di Mitterrand e poi per dieci anni presidente della Commissione europea (1985-1995), in anni cruciali per il vecchio continente, è stata accompagnata da grandi parole di riconoscimento da più parti e da vistosi silenzi di coloro che all’Europa unita continuano a non credere.
Socialista convinto, cristiano fervente, Delors ha dedicato la sua vita e il suo lavoro al “bene pubblico”: da funzionario di Stato, da amministratore pubblico, da uomo delle istituzioni della allora Cee, che divenne Unione europea proprio al tempo della sua guida dell’esecutivo di Bruxelles.

Definirne il profilo e il pensiero politico non è semplice. Ma certamente è stato un concreto visionario, capace di unire vasti orizzonti a conseguenti scelte operative. Un “funzionalista” della costruzione europea, come si dice nelle sedi Ue: nel senso indicato sin dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Ispirato da una visione alta dell’Europa di pace, coesa e solidale, attenta alle fasce più deboli della popolazione, aperta al mondo, ha cercato le strade per rinnovare i trattati (a partire dall’Atto Unico, 1986), per rafforzare la stessa Cee con il mercato unico, i fondi sociali e regionali, l’Erasmus; ha immaginato l’Unione economica e monetaria, euro compreso (Trattato di Maastricht, 1991), dedicando particolare cura alla riunificazione tedesca e immaginando l’allargamento a est dopo la caduta del Muro di Berlino.
Sulla sua strada Delors ha incontrato leader europeisti, come Helmut Kohl, e ingombranti nazionalisti come Margaret Thatcher.
Nel suo progetto europeista e nelle conseguenti scelte politiche – alcune azzeccate altre meno, non avendo certo il dono dell’infallibilità – Delors si è basato sul noto trittico che suona così: “concorrenza che stimola, cooperazione che rafforza, solidarietà che unisce”. Parole d’ordine a ben pensarci di estrema attualità, utili forse per affrontare quelle sfide – economiche, geopolitiche, sociali e istituzionali – che oggi l’Ue con i suoi 27 Stati e popoli hanno di fronte. A questo livello si colloca l’eredità che lascia Delors.

Scarica l’articolo in pdf / txt / rtf /

The post Jacques Delors: l’eredità politica di un “padre” dell’Europa unita first appeared on AgenSIR.

Pagine