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Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 3 mesi 3 settimane fa

Papa Francesco, compleanno e Natale: gli auguri dei missionari. “Sentiamo la sua vicinanza”

Lun, 18/12/2023 - 12:38

“Grazie Papa Francesco! Con il suo esempio ci smuove e ci provoca a non fermarci mai, anche quando la strada si fa stretta. Per il suo compleanno le auguriamo che lo spirito del Risorto, che apre nuovi cammini, la accompagni sempre com’è avvenuto finora”. Dall’Amazzonia brasiliana dove è impegnato nella difesa delle foreste e dei popoli indigeni, padre Dario Bossi, comboniano, invia questo messaggio di auguri al Pontefice che ieri, 17 dicembre, ha compiuto 87 anni. Dopo dieci anni passati nel Maranhão, Stato brasiliano massacrato dalle estrazioni minerarie, padre Dario è ora in missione con la Rete ecclesiale pan-amazzonica. I suoi auguri per il compleanno e per il prossimo Natale, assieme a quelli raccolti da altri missionari, sono il segno di una Chiesa universale vicina, anzi vicinissima a Papa Francesco. La passione del Pontefice per la tutela del Creato ha sempre incoraggiato i comboniani a contrastare l’estrattivismo predatorio nelle foreste. “Il Papa ci invita a stare dalla parte delle vittime dell’ingiustizia ambientale – dice don Dario –, ponendo fine a questa guerra insensata delle multinazionali contro il Creato”.

Manifestazione degli abitanti del Roraima (Foto Popoli e Missione)

Dal Roraima, altra zona massacrata per estrarre l’oro, arriva la voce di don Mattia Bezze, fidei donum. “Che il suo compleanno possa portarle tanta benedizione e appoggio – dice –. Le auguro che la forza che muove i popoli indigeni nella lotta e spinge tanti migranti a non darsela vinta, aiuti anche lei ad andare avanti e sia segno del nostro amore”. Don Mattia opera al confine tra Venezuela e Brasile, dove migliaia di migranti fuggono ogni giorno dalla devastante povertà venezuelana, e tentano di attraversare la frontiera in cerca di salvezza. Lì trovano anche la Chiesa missionaria ad accoglierli. “Grazie Papa Francesco – dice don Mattia – per aver messo al centro la vita, le culture, le tradizioni, le sfide dei popoli originari”.

Lisa Ciuffi, missionaria laica in Perù con Operazione Mato Grosso, ricorda la visita apostolica di Francesco in America Latina. “Il Papa venne a trovarci in Perù e celebrò la messa sulla spiaggia di Trujillo”. Era il gennaio del 2018 e il pontefice compiva il suo 22esimo viaggio apostolico, raggiungendo Cile e Perù. “Mi sono sempre rimaste in mente le sue parole – racconta Lisa – sul non innamorarsi dei poveri in quanto poveri, ma di voler fare di tutto per aiutarli ad uscire dalla condizione di povertà”. E aggiunge: “per il suo recente compleanno auguro a Papa Francesco ogni bene e gli dico che quel messaggio che ci inviò non l’ho mai più scordato e mi ha sempre guidato nel mio percorso missionario”. L’Operazione Mato Grosso è un movimento nato nel 1967 dall’intuizione di padre Ugo De Censi.

Suor Elvira Tutolo (Foto Popoli e Missione)

Ci spostiamo in Africa subsahariana, e più precisamente nel cuore del continente, a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Suor Elvira Tutolo, missionaria di Santa Giovanna Antida Thouret, dice: “carissimo Papa Francesco, la raggiungo da un Paese lontano che lei ama tanto. Ci siamo incontrati due volte a Roma e questo è un ricordo indelebile per me. Insieme alle mie consorelle e ai ragazzi che vivono in strada o nel carcere di Bangui, io le auguro un buon compleanno e un santo Natale. Le vogliamo bene e preghiamo sempre per lei”.

Dallo Zambia arriva un’altra voce missionaria: “Sua Santità, sono padre Antonio Guarino, vivo a Lusaka e opero con i ragazzi del noviziato. Vorrei inviarle molti auguri e dirle grazie per il suo pontificato e il suo servizio. Lo faccio anche a nome dei nostri cristiani zambiani che sono grati al Signore per il dono della fede e vivono la gioia del Vangelo. Grazie per i suoi continui stimoli e per le sue parole che raggiungono sempre il cuore della gente”.

Dal sud del Camerun giungono – tramite il Sir e Popoli e Missione – gli auguri di suor Laura Beatriz Figeroa, missionaria argentina del “Foyer de l’esperance”: “noi della periferia del mondo preghiamo ogni giorno per il Papa e lo sosteniamo: sentiamo la sua vicinanza. A volte quando posso lo guardo in tv e lo apprezzo molto”. Suor Laura esprime così gli auguri a nome del Camerun: “tanti auguri Santo padre e che il Signore le conceda come regalo che laddove c’è la guerra possa realizzarsi una tregua di pace”.

*redazione Popoli e Missione

 

 

 

 

 

 

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Referendum Costituzione in Cile: vince il “No”. Vescovi: “Politici cerchino accordi che vadano a beneficio di tutti”

Lun, 18/12/2023 - 11:06

Niente da fare, “vorrei ma non voglio”. Il Cile non riesce a uscire dalla situazione di incertezza istituzionale e politica che si è venuta a creare dopo la protesta del 2019 e l’apertura di una fase costituente, che sembrava promettente e si è, invece, rivelata un rebus senza soluzione. Il 25 ottobre 2020, tre anni fa, il 78% dei votanti aveva espresso la propria richiesta di scrivere una nuova Costituzione. Ma gli stessi elettori continuano a bocciare qualsiasi proposta di testo costituzionale che sia destinato a mandare in soffitta la Carta approvata nel 1980 (e, per la verità, molte volte modificata), quando era ancora al potere in Cile il generale Augusto Pinochet. Se il 4 settembre dell’anno scorso a essere bocciata era stata la proposta emersa dalla Convenzione nazionale, piuttosto sbilanciata a sinistra, nel plebiscito che si è tenuto ieri gli elettori hanno rigettato anche il testo scritto negli ultimi mesi dal Consiglio costituente, decisamente egemonizzato dalla destra di Juan Antonio Kast, leader ultraconservatore e maggiore oppositore del presidente Gabriel Boric. Il distacco tra il No e il Sì è di circa dieci punti percentuali: 55, 75% contro 44,25%, in tutto un milione e 400 mila voti. Un risultato che è indicativo, pur con le sue indubbie specificità, del livello di crisi in cui versa la democrazia a tutte le latitudini.

Una situazione politica “paradossale”. La situazione venutasi a creare era, di per sé stessa paradossale. Proprio a coloro che avevano contestato la scelta di scrivere una nuova Carta, è toccato negli ultimi mesi formulare una bozza del nuovo testo, che era stato approvato a maggioranza, nel Consiglio costituente: 33 voti contro 17.
Tra i 216 articoli (forse troppi e troppo dettagliati, come del resto un anno fa) della Costituzione respinta ieri, ce n’erano alcuni di controversi, che inasprivano il trattamento della migrazione irregolare o autorizzavano le autorità a dichiarare più rapidamente gli stati di emergenza, in base ai quali i diritti potevano essere limitati. Con questa Costituzione, d’altra parte, sarebbe stato maggiormente tutelato il diritto alla vita fin da concepimento e sarebbe stato più difficile procedere con una legalizzazione completa dell’aborto. Sparivano, inoltre, molte norme a favore dell’ambiente e dei beni pubblici, che costituivano, invece, una parte importante della precedente proposta. E rimaneva in gran parte irrisolta la questione indigena, mentre il testo di un anno fa parlava esplicitamente di “Stato plurinazionale”.

Vescovi: “Cercare accordi ampi, a beneficio dei più poveri”. Il Comitato permanente della Conferenza episcopale cilena (Cech), in tarda serata, ha diffuso una nota per invitare ad accettare la scelta, frutto di un processo “pienamente democratico”. E per invitare a voltare pagina, cercando finalmente accordi ampi. “Il Paese – si legge nella nota – ha subito due processi costituzionali in un breve periodo di tempo che si sono conclusi con il rifiuto del testo proposto. Crediamo che la maggior parte dei cileni apprezzi gli accordi e l’ampio consenso nelle questioni sociali e politiche e si aspetta che i loro leader procedano su questa strada. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da polarizzazione e frammentazione, che hanno portato la popolazione ad allontanarsi e a svalutare la vita politica, il che non fa bene alla nostra democrazia”. Per questo motivo, i vescovi ribadiscono quanto scritto lo scorso 16 novembre: “Dobbiamo essere più determinati ad andare avanti insieme, affrontando con urgenza le urgenti sfide sociali e politiche che il Cile deve affrontare, al di là delle nostre legittime differenze e pluralità di vedute”. Per i vescovi, “tra le sfide che il Paese deve affrontare con maggiore urgenza ci sono senza dubbio i temi della sicurezza, della salute, delle pensioni, della crescita economica, dell’istruzione e di tutto ciò che contribuisce a creare un clima di maggiore pace e relazioni più eque tra di noi. Di fronte a queste sfide, la risposta dei leader politici non può essere quella di vivere in contrasto tra loro, ma di raggiungere accordi che vadano a beneficio di tutti, soprattutto dei più poveri e dei più trascurati”.

Il consenso varia in modo rapidissimo. Resta il fatto che anche il secondo tentativo di scrivere una nuova Costituzione è fallito, anche se in modo meno netto rispetto al precedente plebiscito. “Comunque fossero andate le cose, sarebbe stato un problema – spiega al Sir padre Jorge Costadoat, direttore del Centro teologico Manuel Larraín, gesuita e teologo e attento osservatore del mondo sociale e culturale cileno -.  Ma ci sono anche aspetti positivi, a partire dal fatto che il Cile continua a cercare una soluzione ai suoi problemi e a una crisi molto grande, seppure in modo confuso, all’interno della democrazia. Quello sottoposto agli elettori era, senza dubbio, un testo orientato a destra, ma è vero, al tempo stesso, che la Carta resta quella dei tempi di Pinochet”.
Secondo padre Costadoat, quello che emerge è un “paradosso politico”, che è “frutto di un’oscillazione molto grande a livello di consenso elettorale. Spesso si parla di ‘polarizzazione’ nella politica attuale, qui abbiamo un Paese che si polarizza e depolarizza a fasi alterne, molto rapide”.

Malessere sociale generalizzato. Davvero impressionante la volatilità dei consensi nel Paese andino: in tre anni si è passati da un voto a valanga per la Costituente al successo di candidati indipendenti e progressisti per la Convenzione costituzionale; dal successo della sinistra di Gabriel Boric alla clamorosa bocciatura della Costituzione scritta nel 2022; dalla rivincita della destra alle elezioni per il Consiglio costituzionale, alla sua nuova sconfitta nel plebiscito di ieri. “Il problema principale è dovuto al fatto che c’è un malessere sociale generalizzato, la gente si sente presa in giro, e spesso il motivo del disagio non dipende direttamente dalle proposte di riforma, ma ha a che vedere con la crisi economica, mentre la speranza di una vita buona viene continuamente frustrata”, continua il gesuita. Certo, “per il prossimo futuro la politica cilena è imprevedibile, e lo è dentro una crisi generalizzata che investe tutto il continente, come si vede dalle situazioni del rispetto dei diritti umani in El Salvador, in Nicaragua, in Venezuela, e in altri contesti”. Ed è possibile, se non probabile, che il sogno di una nuova Costituzione condivisa da tutti, che superi quella di Pinochet, debba rimanere nel cassetto, dato che si sta entrando nella seconda parte della legislatura, con la prospettiva di vivere un’altra logorante e lunga campagna elettorale

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An ice-covered expanse of flags in Maidan Square pays tribute to the fallen soldiers

Lun, 18/12/2023 - 09:37

(from Kyiv) When the liturgy ends, not one person leaves the cathedral. The faithful, facing the altar, chant “Molytva za Ukrayinu”, the “Prayer for Ukraine”, a Ukrainian patriotic and spiritual hymn. It is sung with great solemnity. Virtually no sound can be heard. Everything is still. Here, in this chant and in these faces cracked by the winter cold and the scars of war, is encapsulated the entire spirit of Kyiv. We are gathered inside Kyiv’s Greek Catholic Cathedral of the Resurrection of Christ. Just a fortnight ago, on 25 November, the building was damaged in a massive Russian attack using unmanned drones. A ‘Shahed’ drone launched against the capital was shot down near the cathedral, but the shockwave damaged doors and shattered the windows.

It’s a melancholic Christmas. There is not a family in Kyiv that has not lost a loved one in the war, or that does not have a close relative fighting on the battlefield. Brothers, husbands, fathers.

After the liturgy, a tall young man in a green uniform approaches Bishop Bohdan Dzyurakh, who had just concelebrated the liturgy with His Beatitude Sviatoslav Shevchuk. Holding his hands tightly, the young man asks him to be blessed and to remember him in his prayers. He is leaving for the warfront.

https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/12/VID-20231217-WA0049.mp4

Maidan Square, the symbolic place of the Ukrainian people’s desire for freedom. Here, from November 2013 to February 2014, thousands of young people fought for European principles and values. Today it is covered by a green meadow where a flag has been placed for every soldier who has fallen in combat since the outbreak of the large-scale war. The flags’ blue and yellow hues are marked with the soldiers’ names and dates of birth and death. Photographs of the dead soldiers are scattered across the lawn. They are all very young. A mantle of snow covers the ocean of flags,

hundreds of faces that are hard to distinguish in Kyiv’s dark nights, as is the case with the death toll of Ukrainians who fell on the battlefield. In fact, the government is keeping a tight lid on this information.

All that is known is that the number of flags is increasing relentlessly, day after day. The grief is immense and weighs heavily. Passers-by stop and gaze for a few moments at the frozen expanse. For some, it is the only way they can pay their respects to a loved one whose body was never brought home from the battlefield.

Life in Kyiv goes on “as usual.” People can be seen walking along the streets of the city, taking the metro, on their way to work. But this normality is only apparent. The evenings are interrupted by curfews, including Saturday nights. It starts at midnight and ends at 5am. Unfortunately, the air raid sirens are a constant reminder of the threat. Just two days ago, Ukrainian anti-aircraft units foiled attacks on Kyiv carried out by the Russian armed forces. Explosions could be heard all over the city. The glass windows of the buildings were rattling. In addition to the military threat, extreme cold sent temperatures plummeting to below zero. People have difficulty walking on the icy streets. Despite it being almost Christmas, there are very few people in the shopping centres. Some shops even have their shutters down, a sign of the crisis that has also had an impact on the local economy. People are out of work, especially in the villages. There are no men, they are all at the front, and small businesses report difficulties in hiring workers.

“There is a very sad atmosphere in Kyiv.” Msgr. Oleksandr Yazlovetskyi is auxiliary bishop of the Latin Catholic Church in Kyiv and president of Caritas-Spes. Many people have left and poverty has increased. Prices have risen because of the war. “People used to wonder when the war would end, but not anymore,” says the bishop. “We are getting used to the situation. But above all, there is no end in sight.” The bishop has a message: “It seems to us that people in Europe have forgotten us. We have been suffering from this war for two years. It’s to be expected that the attention of the media will decrease. But we ask you not to forget us and to keep us in your thoughts and prayers. Remember us especially in your prayers and in whatever help you can give us. Remember us because we are part of the European family and this war is also being fought in the heart of the European home.”

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In piazza Maidan una distesa ghiacciata di bandierine in onore dei soldati morti

Lun, 18/12/2023 - 09:37

(da Kyiv) Finita la liturgia, nessuno esce dalla cattedrale. Rivolti verso l’altare, i fedeli intonano la “Molytva za Ukrayinu”, “Preghiera per l’Ucraina”, un inno patriottico e spirituale ucraino. Viene cantato con solennità. Non ci sono rumori. Tutto si ferma. Il clima che si respira a Kyiv è racchiuso qui, in questo canto e in questi volti piegati dal freddo dell’inverno e dai segni della guerra. Siamo nella Cattedrale greco-cattolica della Risurrezione di Cristo di Kyiv. Appena due settimane fa, il 25 novembre, l’edificio è stato danneggiato a seguito di un massiccio attacco sferrato dai russi con droni d’assalto. Uno degli “Shahed” lanciati contro la capitale, è stato abbattuto nel quartiere vicino alla Cattedrale ma l’onda d’urto ha danneggiato le porte e fatto crollare le finestre. È un Natale dimesso a Kyiv. Non c’è famiglia qui che non abbia perso qualcuno in battaglia o che non abbia qualche parente stretto impegnato sul fronte. Fratelli, mariti, padri. Dopo la liturgia, un giovane alto, in divisa verde, si avvicina al vescovo Bohdan Dzyurakh che ha appena concelebrato insieme a Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk. Gli chiede, stringendogli forte le mani, di benedirlo e di seguirlo con la preghiera. Era in partenza per il fronte.

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Piazza Maidan, il luogo simbolo del desiderio di libertà del popolo ucraino. Laddove una folla di giovani ha combattuto tra novembre 2013 e febbraio 2014 per i principi e i valori dell’Europa, ora si distende un prato verde dove dall’inizio della guerra su vasta scala, è stata piantata una bandierina per ogni soldato morto in battaglia: sull’azzurro e sul giallo sono scritti i nomi del militare, la data di nascita e di morte. A fianco, appaiono qua e là le foto dei soldati morti. Sono tutti giovanissimi. Un manto bianco di neve copre il mare di bandierine. Sono centinaia ma nelle notti buie di Kyiv, si fa fatica a distinguere le immagini, come si fa fatica a conoscere il bilancio dei morti ucraini caduti sul fronte. Una informazione su cui il governo mantiene l’assoluto riserbo. Si sa solo, che il numero delle bandierine è andato aumentando, in maniera inarrestabile, giorno dopo giorno. È un dolore immenso che pesa. I passanti si fermano e osservano per qualche istante quel mare ghiacciato. Per qualcuno, è anche l’unico modo per rendere omaggio  ai propri cari il cui corpo dal fronte non è mai tornato a casa.

Kyiv, omaggio in piazza Maidan dei soldati morti sul fronte (foto Sir)

La vita a Kyiv prosegue in maniera “normale”. La gente cammina per le strade. Prende la metropolitana. Ma è una normalità solo apparente. Il coprifuoco spezza le serate, anche di sabato sera. Parte a mezzanotte per finire alle 5 di mattina. Gli allarmi non smettono purtroppo di suonare. Solo due giorni fa, la contraerea ucraina ha sventato attacchi su Kyiv condotti dalle forze armate russe. Le esplosioni si sono sentite forti in tutta la città. I vetri dei palazzi hanno tremato. Al pericolo militare, si aggiunge un inverno rigido che porta le temperature a scendere sotto lo zero. Le strade sono ghiacciate, si fa fatica a camminare. Nonostante l’imminenza del Natale, c’è poca gente nei centri commerciali. Qualche negozio ha addirittura le serrande abbassate, segno di una crisi che sta prendendo di mira anche le attività commerciali. Soprattutto nei villaggi, la gente è senza lavoro. Mancano gli uomini, impegnati sul fronte, e i piccoli imprenditori si lamentano della difficoltà a trovare manodopera.

Kyiv, aiuto ai poveri nella metropolitana (Foto Sir)

“L’atmosfera che si respira qui a Kyiv, è triste”. Mons. Oleksandr Yazlovetskyi è vescovo ausiliare della chiesa cattolica latina di Kyiv e presidente di Caritas-Spes. “Molti sono andati via e la gente è diventata più povera. I prezzi sono saliti a causa della guerra”. “Prima le persone si chiedevano quando questa guerra sarebbe finita, adesso, non più”, racconta il vescovo. “Ci stiamo abituando a questa situazione ma soprattutto non vediamo una fine”. Il vescovo ha un messaggio da lanciare: “Abbiamo la sensazione che in Europa vi stiate dimenticando di noi. Sono due anni che stiamo vivendo questa guerra. È normale che l’attenzione mediatica si abbassi. Però, vi chiediamo di non lasciarci soli e di ricordarvi di noi. Nelle vostre preghiere prima di tutto e negli aiuti che ci potete dare. Ricordatevi di noi perché siamo parte della famiglia dell’Europa e questa guerra si sta combattendo anche nel cuore della casa europea”.

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La conta impossibile dei morti nel Paese dove i villaggi si spopolano e nei cimiteri aumentano le tombe

Lun, 18/12/2023 - 09:36

(da Kyiv) “Eravamo adolescenti prima della guerra. Oggi siamo adulti”. Anna ha 26 anni. Riassume con queste poche parole come la guerra ha cambiato lei e i ragazzi della sua generazione. A Cracovia ha preso una laurea in relazioni internazionali ed economia e parla un inglese perfetto. Il suo racconto si intreccia con la storia di tanti ragazzi come lei. Vite che da un giorno all’altro, hanno preso percorsi inaspettati e forzati a causa della guerra. Giovani, tantissimi, caduti sul fronte. Anche suo fratello lavorava a Cracovia. Due anni fa, pochi giorni prima dell’attacco russo su Kyiv, si trovava in Ucraina. Stava sciando in montagna con degli amici. Da quel giorno, non è più tornato indietro. A Cracovia ha lasciato e perso tutto. Il lavoro, gli amici, la casa, addirittura gli effetti personali. Dall’Ucraina non è più potuto uscire. Era scattata anche per lui la legge marziale. “Significa che può essere richiamato nell’esercito da un momento all’altro. Significa vivere nell’incertezza, non sapere cosa si farà domani”, spiega la ragazza. Anna racconta che sono tantissimi i ragazzi e gli uomini chiamati a combattere sul fronte. “Forse a Kyiv non c’è una chiara percezione di questo perché la città è grande. Ma ci sono villaggi completamente svuotati di uomini”.

(Foto SIR)

A due anni dall’inizio dell’aggressione russa, l’Ucraina fa i conti con la morte. Con chi ha deciso di sacrificare la propria vita per il paese e non è più tornato a casa. Sono tantissimi. Il numero esatto dei sodati ucraini uccisi sul fronte non si conosce. È un tabù. Ma non c’è famiglia che non abbia subito un lutto nella cerchia anche strettissima dei parenti. Sui social, si pubblicano in continuazione le foto dei giovani caduti in guerra. E se i villaggi si spopolano di uomini, richiamati alle armi, nei cimiteri aumentano purtroppo il numero delle tombe. Anna racconta la storia di Dmitri. Aveva solo 21 anni quando nel settembre del 2022 è partito per il fronte. “Era un ragazzo pieno di forze e di salute. Attivo, responsabile in tutto quello che faceva. Un raggio di sole”.È morto solo dopo tre mesi. È caduto a Kramatorsk a dicembre. “Sono andata al suo funerale. L’inverno era rigidissimo e Dmitri come tanti suoi coetanei viveva al buio e al freddo delle trincee. Il suo corpo era ricoperto di geloni. Nell’omelia il sacerdote disse che Dmitri era ora sicuramente in un posto sicuramente migliore”.

“Nessuno voleva la guerra, è un incubo in cui si siamo trovati e da cui vorremmo uscire come fosse un sogno. Purtroppo, invece è realtà”, aggiunge Anna. “Ma se lasciassimo le cose così come sono ora, se decidessimo di interrompere la nostra difesa, non solo consegneremmo nelle mani dei russi la nostra sconfitta ma torneranno tra qualche anno per prendersi di nuovo tutto e saranno più forti di prima. E che cosa diranno a quel punto tutte le persone che in questa guerra hanno perso figli, padri, mariti? Si sentirebbero traditi, ma ancor peggio, sentiranno che i loro cari sono morti invano”. La guerra purtroppo sta andando avanti a fatica. Nessuno si aspettava che fosse così lunga e più il tempo passa, più si fa fatica ad andare avanti.

Il futuro? Esiste. Anna ne è sicura. “Sono certa – dice – che ci sarà un futuro, che la guerra finirà un giorno. Non sappiamo esattamente quando, ma sappiamo che finirà. Si apriranno allora grandi opportunità in termini di ricostruzione, progetti, nuove tecnologie. Non sono tra quelli che hanno deciso di andare via. Ho scelto di restare. Qui è il posto in cui voglio vivere ora e in futuro. Quando sono entrati a Kiev, tutti pensavano che il nostro Paese non sarebbe più esistito. Erano troppi e troppo forti. E invece siamo sopravvissuti. È stato un miracolo, un segno che dobbiamo continuare a vivere e avere una voce nella storia”. Anna è consapevole che questo futuro non sarà per nulla facile. Anche se la guerra finisce, l’Ucraina dovrà fare i conti con le ferite subite. “Scoprirà finalmente, e sarà uno choc, quanti soldati sono morti e quanti sono rimasti feriti e mutilati”. “Ma odio no. Non è un sentimento che provo”, risponde la ragazza. “Saranno loro a dover convivere con il rimorso per quanto hanno fatto”.

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Mounting death toll in a land of depopulating villages and piling graves

Lun, 18/12/2023 - 09:36

(from Kyiv) “Before the war we were just teenagers. Today we are adults.” Anna is 26 years old. These few words encompass the impact the war has had on her and the young people of her generation. She graduated in International Relations and Economics from the University of Krakow and speaks perfect English. Her story is intertwined with the stories of many young people like her. Lives that took unexpected, forced turns from one day to the next because of the war. Many young men, countless numbers of them, have died on the front line. Her brother, too, used to work in Krakow. Two years ago, he was in Ukraine a few days before the Russian attack on Kyiv. He was skiing in the mountains with some friends. He has never come back since. He left Krakow and lost everything. His job, his friends, his home, even his personal belongings. He never left Ukraine. He was also placed under martial law. “This means that he can be called up into the army at any moment. It means living in uncertainty, not knowing what will happen to you next,” she explained. Anna describes the many young and older men who have been drafted to the front.

“Perhaps there is no clear perception of this in Kyiv because it is a big city. But some of the villages have been completely emptied of men”.

Ukraine is reckoning with death two years after the start of the Russian aggression. Those who decided to sacrifice their lives for their country and never returned home. And they are many. The exact number of Ukrainian soldiers killed on the front line is unknown. It’s a taboo. But there isn’t a family without a dead relative, even in the closest circle of relatives. Social media are full of photos of young men killed in war. Sadly, the number of graves in the country is growing, as villages are depopulated of men called up to the army. Anna tells us the story of Dmitri. He was just 21 when he left for the front in September 2022.

“He was a young man full of energy and health. Active, responsible in everything he did. A ray of sunshine.”

He died just three months later. He was killed in Kramatorsk in December. “I went to his funeral. It was a very cold winter and Dmitri, like many of his comrades, lived in the dark and cold of the trenches. He had frostbite all over his body. The priest said in his sermon that Dmitri was surely in a better place now.”

“Nobody wanted this war, it is a nightmare that we have found ourselves in and we wished we could wake up from. Unfortunately, it is reality,” Anna adds. “But if we leave things as they are now, if we decide to stop defending ourselves, not only would we be handing our defeat over to the Russians, they would be back in a few years to reclaim everything and they would be stronger than before. What would all the people who lost sons, fathers, husbands in this war say? They would feel betrayed, worse still, they would feel that their loved ones had died in vain.” Sadly, the war is dragging on. No one expected it to last so long, and the more time passes, the harder it gets.

There is a future ahead. Anna is sure of it. “I am sure that there will be a future,” she says, “that one day the war will end. We know it will end, we just don’t know when. Then great opportunities will open up for rebuilding, for projects, for new technologies,” she says. “I am not among those who decided to leave. I chose to remain. This is where I want to live now and in the future. When they entered Kyiv, everyone thought that our country would no longer exist. They were too many and they were too strong. But instead, we survived. It was a miracle, a sign that we must have a life and a voice in history.” Anna knows that the future ahead will be far from simple.

Even if the war ends, Ukraine will have to face its wounds. “We will finally find out how many soldiers died and how many were wounded and maimed. And that will come as a shock,” she says. “But not hate. I have no feelings of hate,” she replies. “They are the ones who will have to live with feelings of remorse for what they have done.”

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Nei panni degli altri

Lun, 18/12/2023 - 00:21

Betlemme è amaramente vuota di turisti e di pellegrini. Lo è stata anche nel tempo della pandemia. Stavolta lo è per le conseguenze di una atroce e insensata guerra fratricida, nella quale i bambini sono stati vittime volute e sacrificate sull’altare dell’odio. Una strage degli innocenti che si ripete. Nemmeno al tempo di san Francesco si poteva andare a Betlemme, perché anche allora le armi e l’odio avevano occupato la Terra santa. La terza crociata era in corso e ai cristiani non era consentito recarsi a Betlemme. È probabile che lo stesso san Francesco non riuscì ad andarvi. Egli, però, non si arrese. Il messaggio del Natale non si poteva soffocare: in quel 1223 era ancora di più necessario un vero presepio.
Di ritorno dall’incontro con il sultano, san Francesco, narra il suo primo biografo (Celano), due settimane prima di Natale, disse ad un nobile: “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia (‘presepium’) e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.
Arriva alla fine san Francesco, vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia… Greccio era diventata come una nuova Betlemme.
Poi il sacerdote celebrò solennemente l’Eucaristia (san Francesco aveva ricevuto del Papa l’autorizzazione di celebrare su un altare portatile!). San Francesco, rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, canta con voce sonora il santo Vangelo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, “quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”.
Anche le nostre chiese, la notte di Natale, saranno Betlemme (“casa del pane”), non perché al Gloria collocheranno la statua di Gesù bambino tra le statue di Maria e di Giuseppe, ma perché, celebrando l’eucaristia, lo accoglieranno vivo nel pane eucaristico! Anche le nostre case, la notte di Natale, saranno Betlemme, non perché collocheremo nella capanna la statuina di Gesù, ma perché chi guarda il presepe farà spazio nel suo cuore all’amore del Signore. Perché, come ha fatto lui, sapremo metterci nei panni degli altri, nei panni di chi soffre ed ha bisogno di amore. Solo così la tua casa diventerà una nuova Betlemme. Buon Natale di Nostro Signore Gesù Cristo!

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Sì alla pace

Lun, 18/12/2023 - 00:06

Si avvicina il Natale. Si avvicina la festa della Pace. E pensare oggi a Betlemme dove Gesù è nato, provoca un profondo dolore. Nessuno si sarebbe immaginato di arrivare a un Natale di guerra anche in Terra Santa! Nel contempo sarà il secondo in Ucraina, dove non si vede una via d’uscita da un inspiegabile conflitto.
C’è un fatto nuovo per quanto riguarda Kiev: l’Unione Europea ha accettato, a sorpresa, di iniziare i colloqui per l’adesione dell’Ucraina (contrario soltanto il leader ungherese Orbàn che ha bloccato un nuovo pacchetto di aiuti di 50 miliardi). Una vittoria per Zelensky, una decisione strategica per la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen.
E anche una chiara sconfitta per Putin che ha fatto partire l’invasione dell’Ucraina con il pretesto di allontanare minacce occidentali dai propri confini e ora la trova candidata alla Nato e addirittura all’Ue.
Dall’altra parte il blocco dei finanziamenti Usa voluto dai Repubblicani, le difficoltà di approvvigionamento di armi anche da parte dell’Europa, rendono ora molto più problematica la situazione ucraina. Quali gli sviluppi?
Ma veniamo alla Terra Santa. Qui, dopo il terribile e inaccettabile attacco di Hamas, siamo di fronte a una pesantissima reazione di Israele nei confronti di Gaza che sta preoccupando il mondo. Il presidente Usa Biden ha rivolto a Netanyahu una sonora censura, ammonendolo sul suicidio strategico all’orizzonte, per invitarlo a scaricare gli estremisti del suo governo e ad accettare la soluzione dei due Stati, esclusa dal leader israeliano ancora nei giorni scorsi.
Secondo Biden (e non solo lui), Israele si sta alienando il sostegno del mondo. L’attuale era l’unica strada per colpire Hamas? Israele non sta rinfocolando un profondo odio nel cuore dei palestinesi, che bloccherà per decenni e decenni ogni compromesso e convivenza?
A Gaza la situazione è drammatica. E papa Francesco: “Continuo a rinnovare il mio appello per un immediato cessate il fuoco umanitario”, ha detto mercoledì all’udienza generale. “Si soffre tanto. Incoraggio tutte le parti a riprendere i negoziati e chiedo a tutti di assumersi l’urgente impegno di far arrivare gli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza, che è allo stremo e ne ha veramente bisogno. Si liberino tutti gli ostaggi, che avevano visto la speranza di una tregua qualche giorno fa. Che questa grande sofferenza per gli israeliani e i palestinesi finisca. Per favore, no alle armi, sì alla pace”. Preghiamo per la pace il Signore che viene. Ce la donerà, ne siamo certi!

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Per il cambiamento non resta che sperare

Lun, 18/12/2023 - 00:05

C’è come un filo che lega tra loro i rapporti delle tante ricerche che da decenni, anno per anno, vengono pubblicati per descrivere lo stato di salute della nostra società. Salvo qualche eccezione, sembra che i sondaggi convergano tutti su un’unica visione: l’Italia si presenta come un Paese sostanzialmente in sofferenza e preoccupato per il futuro. La situazione appare ancora più problematica per quanto riguarda il mezzogiorno. Di “lavoro povero” e “migrazioni giovanili” parla lo Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno) l’istituto che raccoglie le principali notizie sull’andamento dell’economia meridionale. Criticità destinate, peraltro, ad acuirsi – sostiene l’istituto di ricerca – se dovesse andare in porto il progetto governativo sull’autonomia differenziata. Un’Italia sempre più divisa emerge, ancora, dalla storica indagine del “Sole 24 Ore” sulla “qualità della vita” nelle 107 province italiane. A fronte di incoraggianti eccellenze al nord, si notano ancora i soliti aspetti critici al sud. Dei 90 indicatori presi a base per la lettura della situazione, emerge,infatti, l’acuirsi delle disuguaglianze – geografiche, generazionali, di genere, economiche e così via – nel nostro Paese, con le province del sud destinate a occupare gli ultimi posti. Non vanno meglio le cose sul fronte dell’istruzione. Secondo una classifica OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) l’Italia è al 36° posto su 57 paesi sul fronte delle istituzioni scolastiche. La preparazione dei nostri giovani, emerge dalla ricerca, sembra essere peggiore di quella dei giovani di molte nazioni del cosiddetto “secondo mondo”. E, ancora, siamo sempre più vecchi, impauriti, rassegnati, secondo il rapporto del Censis ( Centro Studi Investimenti Sociali) che, nei giorni scorsi, ha animato il dibattito pubblico. Abbiamo paura di tutto, è detto nel rapporto, consideriamo tutto emergenza, abbiamo paura del clima impazzito, dei migranti e del terrorismo. Insomma,siamo un Paese in uno stato di salute decisamente precario. Gli scenari sopra descritti contrastano con le rappresentazioni entusiastiche sull’andamento del Paese che, di norma, sono solite fare le forze di governo. Per l’attuale Presidente del consiglio, Giorgia Meloni, non c’è stata mai un’Italia così in salute: la disoccupazione diminuisce, il numero delle persone occupate aumenta e l’Italia si trova ai primi posti nelle varie graduatorie in Europa. Nessuno mette in dubbio i tanti aspetti positivi del nostro Paese, ma basterebbe guardare oltre l’ordinaria gestione per accorgersi, come afferma Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, che “La povertà è in aumento e colpisce soprattutto gli anziani, le famiglie con figli e chi ha un lavoro precario”. I dati Istat, Caritas e Censis parlano, infatti, di cinque milioni e seicentomila poveri ( il 10% della popolazione nazionale) la maggior parte dei quali minori, residenti nel centro-sud. Impressionante, infine, anche il fenomeno di molti giovani che emigrano all’estero in cerca di lavoro. Quello che più preoccupa dalla lettura delle citate indagini sociali è che siamo di fronte a un trend negativo destinato a peggiorare, di anno in anno, almeno fin quando le forze politiche non si convinceranno a “guardare alle prossime generazioni”, anziché occuparsi, sistematicamente, “delle prossime elezioni”. Occorre, cioè, cominciare a guardare alla realtà, anche quella più scomoda e darsi una prospettiva sul modello di Paese che si vuole costruire. In quest’ottica siamo tutti chiamati a cooperare, governanti e cittadini, consapevoli che il cambiamento richiede coraggio insieme a una buona dose di speranza. “Peggio di questa crisi – affermava Papa Francesco durante la pandemia – c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi». Alla fine della seconda guerra mondiale, di fronte alle macerie, molti italiani trasformarono le paure in speranza e poterono, così, ricostruire il Paese. “Dobbiamo essere speranza per dare speranza”, diceva Giorgio La Pira, il “Sindaco Santo” di Firenze, figlio della diocesi di Noto, al quale il Vescovo Salvatore Rumeo ha deciso di dedicare tre giorni di celebrazioni in occasione del 120.mo anniversario della nascita .

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Viaggio in cuccetta verso Kyiv. Tra storie di vite spezzate e il sogno che la guerra finisca “ora”

Sab, 16/12/2023 - 10:30

(da Przemyśl) Silenzio. Anche i bambini sono silenziosi. Nelle sale d’attesa si aspetta il treno. Al caldo visto che fuori c’è la neve e le temperature sono scese sotto lo zero. Nessuno ride. Nessuno parla ad alta voce. Siamo a Przemyśl, cittadina polacca a pochissimi chilometri dal confine con l’Ucraina. Da qui ogni giorno partono treni per Kyiv e Odessa. E sono strapieni. D’altronde è l’unico modo per viaggiare nel Paese in guerra. Le statistiche dicono che Przemyśl ha visto transitare nei 20 mesi trascorsi dall’aggressione russa oltre 3 milioni di profughi ucraini e la piccola cittadina si è organizzata a questo transito di persone dando prova di grande generosità. Organizzazioni umanitarie come Caritas Polska e la Iom delle Nazioni Unite hanno adibito un sistema complesso di accoglienza.

Un punto informativo dal quale ogni giorno ancora oggi passano dalle 150 alle 200 persone e dove vengono date indicazioni relative agli orari dei treni, agli itinerari e ai documenti. Una sala di attesa dove si può entrare solo con il biglietto del treno e un timbro sul palmo della mano. Più in là c’è una sala più grande dove vengono accolti mamme e bambini mettendo a loro disposizione, soprattutto in caso di ritardi dei treni, lettini, giocattoli e beni di prima necessità come pannolini, succhi di frutta, merendine. Gli operatori non possono rilasciare dichiarazioni. Uno di loro dice solo, “basta guardarli negli occhi per capire tutto quello che stanno vivendo”.

Przemyśl, timbro sulla mano per entrare in sala d’attesa (Foto Sir)

Il treno per Kyiv e Odessa è una fila lunghissima di vagoni blu e tutte le cuccette con quattro posti letto sono occupate. Al viaggiatore vengono date lenzuola, un cuscino e un piumino, e a richiesta anche una bevanda calda. Ci vogliono almeno 10 ore per raggiungere la capitale ucraina. Ma dipende, dalle condizioni. Nella notte, la contraerea ucraina ha sventato un attacco su Kyiv condotto dalle forze armate russe con l’uso di droni kamikaze Shahed. Il sindaco della città, Vitali Klitschko, su Telegram informa che forti esplosioni, provocate dalla difesa aerea, sono state registrate nella zona Podil invitando i residenti a restare nei rifugi. Nonostante le notizie, il treno prosegue la sua corsa. Il transito di così tante persone non dipende dall’imminente periodo natalizio. Le ragioni per mettersi in viaggio e raggiungere l’Ucraina sono tante. Si portano soldi o medicinali a familiari e conoscenti. Si fa visita ai cimiteri. Si sbrigano le pratiche. È un popolo di donne e teenager. Ci sono ragazzi anche di 15 e 16 anni che viaggiano da soli. Come Yaroslav e Arsenii. Si presentano come giocatori di una squadra di pallavolo. Frequentano il liceo in Polonia ma seguono online anche le lezioni della scuola ucraina per non perdere il percorso didattico. Stanno raggiungendo la famiglia a Kyiv per le vacanze natalizie ma fanno un sacco di domande sull’Italia, sulla Sicilia, il mare… Perugia, dove è andata a vivere una loro amica. E se il sogno di tutti qui a Przemysl è la fine della guerra, le aspirazioni sul futuro variano. Yaroslav e Arsenii vogliono viaggiare. Questo mondo gli sta stretto.

Yaroslav e Arsenii, due ragazzi di 15 e 16 anni in viaggio per Kyiv

Dall’inizio della guerra Julia vive con sua figlia in Repubblica Ceca. Viaggia sola. Il figlio è rimasto in Polonia. Il marito è ovviamente in Ucraina che l’aspetta. Come tutti gli uomini. È la prima volta che Julia entra nel paese da quando due anni fa ne è uscita fuggendo dalle bombe. Mentre lo confida, gli occhi le si riempiono di lacrime. È emozionata. La guerra prende anche questa piega. Spezza le famiglie. Le separa. “Difficile in queste condizioni fare progetti”, dice parlando anche per i suoi figli. “Solo quando usciremo da questa guerra, possiamo di nuovo pensare al futuro”. Prima di accedere al treno, ci si mette in fila per il controllo dei passaporti. L’attesa varia. Ma l’organizzazione, anche in questo caso, è perfetta. Irina sta raggiungendo a Kiev il marito ed è con il piccolo Ramon, 6 anni. Anche lei, subito dopo l’inizio dell’aggressione russa è uscita dall’Ucraina e ora vive in Polonia. “La guerra in Medio Oriente – dice in un perfetto inglese – ha distrutto anche l’ultimissimo filo di speranza che avevamo. Ci ha fatto capire che da questa guerra non ne usciremo presto. Che il tunnel sarà lungo. Non c’è prospettiva. Non si vedono soluzioni. Ma quello che ci preoccupa di più è che non si vede nemmeno la volontà di trovare una via di uscita. Almeno nell’immediato e più i tempi si allungano, più diventa difficile immaginare un futuro in Ucraina”. Chi è uscito e si è fatto una vita fuori, fa fatica oggi a pensare di rientrare. Irina, per esempio, lavora per una azienda che ha una sede in Polonia. Il piccolo Ramon ormai parla fluentemente il polacco e “poi – aggiunge – sono tornata nella mia città natale Odessa, ma non la riconosco più. È cambiata e in peggio”. A questo si aggiunge un’inflazione galoppante che ha purtroppo generato un rincaro dei prezzi che rende impossibile pensare una vita in queste condizioni.

Irina, 21 anni. Il suo sogno è diventare veterinaria (Foto Sir)

Posso farti una foto? “Certo”, risponde Irina. Ha 21 anni e viaggia con un grande borsone nero. Torna a Dnipro. È venuta in Polonia per trovare sua sorella. Erano 6 mesi che non la vedeva. La sua è un’altra storia di separazione. Di viaggi percorsi sulle rotaie per incontrarsi. Il sogno di Irina è diventare veterinaria. “Frequentavo l’università”, dice, “almeno prima della guerra”. Gli occhi cambiano. Si intristiscono. Ma hai lasciato i corsi? “No. Li facciamo online e ho appena finito di dare due esami. Sono riuscita a farli qui, mentre ero in Polonia”, risponde la ragazza. Il treno sta partendo. Deve andare via. Ma prima di salutare, si ferma perché deve “dire una cosa importante: vuoi sapere qual è il mio vero sogno? Che ci si fermi dall’uccidere le persone. Scrivilo bene questo: Non uccidete! Fermate la guerra ora”.

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Scienza e Vita: due webinar sulla “medicina solidale”

Sab, 16/12/2023 - 09:55

Migliorare l’accesso alla salute, tenere alta l’attenzione verso chi fatica a trovare possibilità di accedere alle cure e prendersi cura (sul piano sanitario) dei soggetti “fragili” e svantaggiati. Questo il cuore del secondo webinar organizzato dall’associazione Scienza & Vita (S&V) e dedicato al tema della “medicina solidale”. Un’occasione per ribadire e soprattutto riproporre un nuovo approccio alla sanità, fondato sulla cooperazione, l’assistenza reciproca e il supporto umanitario.

Una sanità a misura d’uomo, particolarmente attenta alle persone fragili e a coloro che per diversi motivi vivono in situazioni di vulnerabilità, ma anche a chi – per varie ragioni – non avrebbe accesso a cure mediche adeguate. La medicina solidale tende quindi a concentrarsi sull’empatia, sulla responsabilità sociale e l’equità nell’accesso alle cure sanitarie, cercando di colmare il divario tra chi ha e chi non ha la possibilità di accedere alle cure mediche.

I due webinar di S&V dedicati a questo tema hanno offerto anzitutto uno spaccato della realtà attuale, mostrando – nel racconto vivo di chi opera sul campo – come le iniziative concrete di azione si stiano moltiplicando e diversificando, in risposta all’emergenza di bisogni nuovi, quasi sempre generati dalle nuove “povertà” sociali ed economiche.
Ma sono stati anche l’occasione per interrogarsi più profondamente sul rapporto originario tra medicina e solidarietà. La professione medica, infatti, nasce come risposta “qualificata” al bisogno di salute delle persone e, in quanto tale, è “solidale” per definizione, richiedendo l’instaurarsi di un “patto”, di un’alleanza tra chi chiede di essere curato, esprimendo i suoi bisogni, e chi se ne prende cura, possedendo la professionalità per farlo. Naturalmente, tutto ciò si traduce in erogazione di servizi sanitari, la cui organizzazione e gestione attiene al Sistema sanitario nazionale (Ssn).
Nella visione solidale universalistica che lo ispira, i beneficiari di questa azione di cura dovrebbero essere tutti i cittadini che ne abbiano reale bisogno. Dunque, in linea di principio, nessuno dovrebbe essere escluso dalla fruizione dei servizi sanitari, almeno quelli essenziali. Ma allora perché si è giunti alla necessità di dover attivare iniziative specifiche di “medicina solidale”?
Probabilmente, il problema è sorto gradualmente, man mano che

la logica solidaristica ha dovuto fare i conti (attraverso le varie riforme e controriforme del Ssn) col progressivo prevalere della logica “aziendale”, maggiormente legata al profitto economico, che ha trasformato le varie strutture sanitarie e la loro organizzazione, finendo anche per creare delle sacche di popolazione che non riescono – anche per insufficienti risorse economiche – ad usufruire delle prestazioni di cui necessitano. A ciò si è aggiunta la crescente insufficienza delle risorse sanitarie disponibili, sommata talvolta ad una non oculata gestione delle stesse (a vari livelli).

In questo contesto globale, ogni iniziativa di “medicina solidale” ha sicuramente il grande merito di tentare di mettere in campo interventi efficaci in risposta alle nuove emergenze sanitarie di persone “fragili” e, di fatto, escluse dai servizi del Ssn. Questi tentativi (spesso realizzati da operatori sanitari volontari) vanno perciò sostenuti e promossi. Ma al tempo stesso, essi diventano un continuo richiamo al Ssn stesso, perché rilegga (nella persona di chi ne ha la responsabilità) la propria missione fondativa, ritrovando come punto focale e prioritario la persona, ciascuna persona con i propri bisogni reali di salute. In altre parole,

è auspicabile che non accada che le iniziative volontaristiche e solidali, da “suppletive” (e, quindi, temporanee) delle carenze del Ssn, si trasformino in “vicarie” (e, quindi, stabili) dei servizi che sarebbero dovuti, con una sorta di conseguente “congelamento” della situazione attuale con tutte le sue carenze.

Cosa augurarsi allora? Che venga presto il giorno in cui non ci sia più bisogno di iniziative volontaristiche di “medicina solidale”. E questo perché la “medicina è solidale” in se stessa, e il Ssn non deve mai dimenticarlo.

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Crepet e Sequeri in dialogo sulle sfide educative

Sab, 16/12/2023 - 09:50

L’educazione di un figlio è indubbiamente una questione complessa ed essere genitore oggi è più che mai il ‘mestiere’ più difficile. Per impartire una buona educazione non esiste un manuale di istruzioni che garantisca l’infallibilità del ruolo che si è chiamati a svolgere. È preferibile la carta della permissività per farli crescere liberi o una disciplina più restrittiva che non lesina i “no”? Mentre si torna a dibattere animatamente del patriarcato, il tema dell’ascolto dei figli, bambini e adolescenti, è stato al centro della riflessione tra lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet e il teologo Pierangelo Sequeri, direttore della cattedra Gaudium et spes del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, ideatore di un ciclo di incontri che si è aperto ieri sera, 12 dicembre, con “L’educatore al bivio: legare o sciogliere”. Per Crepet, autore di saggi che porta il lettore a riflettere sulle sfide quotidiane,

“oggi si parla tanto di patriarcato vergognandosi di ammettere che in realtà c’è una figliocrazia. È questo il vero problema”.

Il sociologo giudica “strana” la sua generazione perché “ha tanto contestato i propri genitori per poi diventare schiavi dei figli. Siamo in un momento storico sconcertante in cui abbiamo smesso di educare, abbiamo tolto gli ostacoli”, ha affermato ritenendo che la società attuale sta crescendo un esercito di “anestetizzati”. Acconsentire ad ogni richiesta, oltre ad essere “comodo” crea una generazione “di fragili – ha proseguito –. Se un bambino chiede dieci regali per Natale e il genitore per accontentarlo ne acquista il doppio sarà sempre un crescendo di richieste e da adolescente sarà una ameba, sarà un ragazzo o una ragazza che non sa cosa significa perdere”. Con le eccessive concessioni, per paura di infliggere “un trauma emotivo” i genitori di oggi stanno “anestetizzando i ragazzi – ha rimarcato Crepet –. Se un giovane nella propria vita viene abituato ad essere riverito in tutto è chiaro che da adulto dal punto di vista emotivo varrà poco o nulla”. Qual è allora la strada da percorrere, la chiave per educarli alla vita, alle attese, a non pretendere tutto e subito? Per il sociologo

un genitore “deve andare contro corrente rispetto a quello che vede. È questa l’educazione, non è affiatamento alle regole altrui è cercare regole proprie”.

Il tutto deve essere naturalmente accompagnato dal dialogo e dall’esempio. A tal proposito, tra i vari suggerimenti, quello di limitare il più possibile l’uso dei dispositivi elettronici che, a detta del sociologo, andrebbero banditi dalle scuole e controllati a casa perché “isolano, creano danni relazionali e affettivi. Ma è comodo permetterne l’uso in casa – ha specificato – perché anche i genitori trascorrono ore sui social. La grande sfida contemporanea è aiutare i ragazzi a crescere creativi, curiosi, capaci di emozionarsi e di sudare per raggiungere i propri obiettivi”. Il teologo e musicologo Sequeri propone la strada dei “corpi intermedi” ossia

“fare alleanze” perché, specifica, “anche i genitori sono soli”.

Per Sequeri, già preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II, si parla unicamente “dei figli soli, riempiti di regali ma di fatto abbandonati, ma lo sono anche gli adulti che spesso si sentono a loro volta abbandonati a loro stessi”.

L’invito è quello di creare gruppi intermedi “misti, cioè alleanze con i ragazzi e con altri genitori. Si schiarisce così la mente delle persone perché gruppi che si dedicano ad interessi specifici e crescono insieme inseguendo determinate passioni, sentono di poter contare sul sostegno di altri. Ognuno con le proprie fragilità ma insieme”. Un’alleanza che coinvolga le istituzioni, la scuola, i luoghi di aggregazione. Nel mondo ecclesiale l’auspicio è che “frutti la sinodalità. Bisogna ricreare una complicità tra i mondi. Le parrocchie che sono residuali di una cristianità, di una civiltà che non c’è più, in questo momento sono i punti più vitalizzabili. Nella loro genericità potrebbero reinventarsi la capacità di essere, in un quartiere, un nodo di rete che procuri esperienze miste quali un concerto, una performance, che coinvolga tutti”. L’incontro, moderato da Milena Santerini, ordinaria di pedagogia dell’Università Cattolica di Milano e vice preside dell’Istituto Giovanni Paolo II, è il primo di un ciclo che mira ad approfondire il tema dell’ascolto dei figli. La cattedra Gaudium et spes “vuole essere un piccolo laboratorio, una voce fuori dal coro che apre a riflessioni transdisciplinari”, ha dichiarato mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II. Al termine dell’incontro, mons. Paglia e il preside dell’Istituto mons. Philippe Bordeyne hanno conferito il titolo di Commendatore dell’Ordine di San Gregorio Magno a Stefano Lucchini, responsabile affari istituzionali e comunicazione esterna di Banca Intesa Sanpaolo e consigliere di amministrazione della Fondazione Benedetto XVI pro Matrimonio et Familia, quale segno concreto della gratitudine della Chiesa e dell’Istituto per il sostegno che ha reso possibile la nascita della cattedra Gaudium et spes e lo sviluppo negli ultimi anni dei progetti di terza missione.

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Cinematografo Awards. Vincono i compagni di viaggio che condividono lo sguardo

Sab, 16/12/2023 - 09:45

A chi ha donato emozioni e allo stesso tempo ha seminato riflessioni su una contemporaneità troppo complessa da descrivere con un registro solo. I Cinematografo Awards, i riconoscimenti assegnati da giornalisti e critici della Rivista del Cinematografo (il più antico magazine italiano del settore), sono andati anche quest’anno ai protagonisti di cinema, serie e cultura, capaci di sollevare considerazioni sociali, oltre che lo sguardo sull’arte.A ricevere i premi, realizzati dallo scultore Lucio Minigrilli, nella serata al cinema Barberini di Roma, sono stati Alice ed Alba Rohrwacher, Roberto Andò, Maria Chiara Giannetta, Greta Gasbarri, Tommaso Santambrogio, Santi Pulvirenti, Domenico Monetti e Luca Pallanch.“Noi premiamo gli amici, non nel senso che sono sempre gli stessi, ma premiamo quelli che condividono con noi lo sguardo. Premiamo dei compagni di viaggi dell’arte che dà la vita e il senso alla nostra esistenza”, spiega don Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello spettacolo, in apertura della cerimonia che ha lo scopo ogni anno di valorizzare quelle opere che, oltre ai meriti artistici, lasciano il segno, stimolando considerazioni. Così come fa il premio Navicella Cinema Italiano, assegnato quest’anno alla pellicola “La chimera”, diretto da Alice Rohrwacher, che parla dei cosiddetti “tombaroli”, i predatori di reperti archeologici che negli anni ottanta vissero la febbre dei furti nelle tombe etrusche. “Un domani – si legge nella motivazione del premio – si parlerà del ‘cinema di Alice Rohrwacher’ come oggi facciamo riferendoci ai maestri che furono, rinvenendo l’idea di un universo iconico e riconoscibile, capace di suscitare rimandi non solamente ‘visivi’ ma anche appigli inerenti gli altri sensi”. Ed infatti nella chimera di Rohrwacher è presente la ricerca di un equilibrio che ogni giorno tentiamo di stabilire tra l’esistente e l’esistito, tra il visibile e l’invisibile, tramite un filo rosso che unisce. “Dedico il premio – afferma la regista – agli archeologi di domani perché penso che quando scaveranno e troveranno le nostre cose avranno un’idea, vedranno i nostri film e le nostre batterie usate. Pensando a loro, penso a ciò che vorrei lasciare”.
Il premio speciale Insieme dell’opera è andato al poliedrico Roberto Andò, scrittore, sceneggiatore, regista e direttore artistico, conosciuto dal grande pubblico con “La stranezza”, in cui emerge un grande Toni Servillo, che partendo da Pirandello approfondisce l’umanesimo. “Il premio – dice Andò – mi è particolarmente caro perché quando ero ragazzo a Palermo e volevo fare cinema mi arrivò come regalo l’abbonamento alla rivista che ha sempre voluto affidare al cinema un senso. Non tutte le riviste riservano questo patto essenziale. Per me, come ragazzo, trovare nel cinema un senso che va al di là è stato fondativo. Siamo stati compagni di viaggio come diceva don Davide”.
Al tema della disabilità è dedicata invece la fiction “Blanca” di Jan Maria Michelini e Michele Soavi, interpretata da Maria Chiara Giannetta, che conquista il premio Navicella Serie. “Nell’universo narrativo della serie – spiega la motivazione data dalla giuria – trovano spazio la capacità di dover accettare gli eventi negativi e la potenza salvifica delle seconde possibilità. Ribaltando i canoni della fiction italiana, Blanca è una serie di rottura, capace di innovare nel solco della tradizione”.
La migliore interpretazione la ottiene Alba Rohrwacher per “Mi fanno male i capelli” di Roberta Torre, pellicola in cui l’attrice rende sullo schermo una Monica Vitti, spettacolare e inimitabile, nella fase della vita in cui affronta la perdita della memoria e dei ricordi. “Tutto parte dal coraggio di Roberta che ha immaginato questa possibilità – afferma l’attrice –. Gli ostacoli li ho superato grazie alla gioia del fare. Monica Vitti è diventata la persona con cui io parlavo durante le riprese del film. La sognavo la notte perché il film lo abbiamo fatto immaginando di parlare con lei”.
La migliore opera prima viene riconosciuta a “Gli oceani sono i veri continenti”, firmato da Tommaso Santambrogio, in cui si racconta l’amore fra rimpianti, cinema e Cuba. “Volevo evocare immagini, emozioni tramite un tentativo di fare arte”, commenta l’autore al ritiro del premio.
La rivelazione dell’anno va invece alla giovane Greta Gasbarri per “Mia” di Ivano De Matteo. “Al debutto sul grande schermo – spiegano i giurati –, Greta Gasbarri colpisce al cuore con un’interpretazione sorprendente: un’adolescente come tante, figlia amatissima e amica fedele, convinta di vivere il sogno del primo amore e in realtà intrappolata nell’incubo di una relazione tossica, dominata da crudeltà, manipolazione, possesso e violenza. Così autentica e profonda da impreziosire un film urgente, necessario, tristemente contemporaneo”. Premiata dal vicepresidente della Fondazione, Paolo Buzzonetti, l’attrice si è soffermata sull’attualità dell’opera che narra la storia di una ragazza vittima di un ragazzo possessivo. “È stato difficile – ammette –, c’è stata molta rabbia per rappresentare Mia, ma anche distacco per trasmettere l’ingenuità di una ragazza che non riusciva a capire”.
La miglior colonna sonora se l’aggiudica il compositore Santi Pulvirenti per “L’ultima notte di amore” di Andrea Di Stefano, in cui si ascoltano gli echi di polizieschi e horror degli anni settanta dei migliori Dario Argento e Lamberto Bava. “Il film è stato apprezzato al Tribeca e a Berlino soprattutto per l’essere molto italiano”, afferma il vincitore Pulvirenti.
Il riconoscimento intitolato al celebre sceneggiatore della commedia all’italiana, Diego Fabbri, infine, viene assegnato al libro-intervista “Per i soldi o per la gloria: storie e leggende dei produttori italiani dal dopoguerra alle tv private”, firmato dagli studiosi del Centro sperimentale di cinematografia, Domenico Monetti e Luca Pallanch. Il titolo è una carrellata di episodi, a volte grotteschi altre volte esagerati e dai toni leggendari, che hanno riguardato le storie dei produttori italiani negli ultimi decenni.

Durante la cerimonia, è stato consegnato anche il premio “Toni Bertorelli Controluce”, dato agli interpreti italiani ritenuti in qualche modo affini a Toni Bertorelli, fuori dai canoni sia estetici sia di recitazione che hanno dato prova di interpretazioni particolarmente significative e originali. I premiati di quest’anno sono Fausto Russo Alesi e Linda Caridi.

I vincitori sono stati designati da un comitato di amici e colleghi che con Toni Bertorelli hanno condiviso alcune esperienze della loro vita artistica: Marco Bellocchio, Valeria Ciangottini, Steve Della Casa, Fabio Ferzetti, Marco Tullio Giordana, Mario Martone, Davide Milani e Luca Pallanch, con la supervisione di Barbara Chiesa. I premi sono appositamente realizzati dall’attore e artista Giorgio Crisafi. “Dedico il premio – dice Russo Alesi – all’amicizia che è un sentimento bellissimo. Quando è vero e sincero è molto duraturo. In amicizia ci si cura e scuote. Nel riconoscere l’altro si possono fare cose bellissime”.

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Serbia ancora alle urne: svolta o continuità? Il peso della questione-Kosovo

Sab, 16/12/2023 - 09:15

Giornata ai seggi, domenica 17 dicembre, per circa 6,5 milioni di serbi chiamati a rinnovare il Parlamento. Si tratta della quarta tornata di voto anticipata negli ultimi 10 anni. Dal 2012, anno in cui l’attuale presidente serbo Alexander Vucic è salito al potere, ha convocato sette diversi tipi di elezioni. E mentre il governo afferma di aver cambiato profondamente il Paese costruendo strade moderne e investendo in sanità, ricerca e alta tecnologia, l’opposizione ritiene che Vucic abbia usurpato il potere, la corruzione stia dilagando e i media siano sotto il controllo del Partito progressista serbo (Sns) guidato proprio da Alexander Vucic. Il quale anche questa volta è quotato in testa nei sondaggi, ma con un calo rispetto agli anni precedenti. Il Sir ha sentito il parere dell’analista dei Balcani Nikolay Krastev.

(Foto: profilo Twitter Serbia contro la violenza)

“Serbia contro la violenza”. Tutto è iniziato il 3 maggio di quest’anno quando un tredicenne è entrato nella sua scuola a Belgrado con una pistola nello zaino uccidendo otto studenti e un bidello. Il giorno dopo è avvenuta una sparatoria in villaggi vicino a Mladenovac. “La nazione era sotto shock, per 10 settimane centinaia di migliaia di persone hanno riempito le piazze delle maggiori città accusando il governo di aver favorito un’atmosfera di violenza che ha portato alla tragedia”, spiega Nikolay Krastev. A suo avviso, “se il voto fosse stato a settembre, l’opposizione avrebbe avuto un risultato migliore”. Infatti, in seguito alle proteste è nata la coalizione “Serbia contro la violenza” che include alcune forze dell’opposizione. Secondo Krastev, “Vucic ha scelto molto bene il momento, annunciando il 13 ottobre che le elezioni si sarebbero tenute il 17 dicembre e ora sta offrendo agli studenti delle superiori, delle università ma anche ai pensionati dei sussidi dal bilancio dello Stato”.

(Foto: profilo FB Nikolay Krastev)

Previsioni difficili. Comunque, in Serbia la situazione politica rimane piuttosto complessa. Durante la loro visita a fine novembre, gli osservatori del Consiglio d’Europa hanno descritto una campagna elettorale con uso “di linguaggio negativo senza precedenti, allarmismi, attacchi all’opposizione e ai giornalisti e gravi problemi nei media”. “I sondaggi preelettorali non sono neutrali”, spiega Krastev (nella foto), citando quelli finanziati da alcuni media privati ma comunque influenzati da Sns, il partito di Vucic, che danno questo partito al 40%, seguito a grande distanza dall’opposizione che insieme non supererebbe il 15%, mentre gli alleati del governo, i socialisti di Ivica Dacic, ministro degli esteri, sarebbero al 10%. Secondo i dati dalla rivista “Il Nuovo pensiero politico”, di Giorgie Vukadinovic, la lista “Alexander Vucic-La Serbia non deve fermarsi” arriverebbe al 40%, ma la coalizione dell’opposizione “La Serbia contro la violenza” sarebbe al 25,6%, mentre i socialisti rimarrebbero all’8,9%. Krastev rileva che in questo sondaggio “il 34,6% ritiene di vivere meglio rispetto a prima dell’arrivo di questo governo, mentre il 33,7% risponde di no. Il 43% ritiene che questo governo dovrebbe cambiare e il 38,7% pensa che dovrebbe restare”.

La questione-Kosovo. Quello che accomuna tutti in Serbia – giovani e vecchi, governanti e opposizione – è la questione del Kosovo e il rifiuto netto di riconoscerne l’indipendenza.

“Nominare il Kosovo porta consensi”,

rileva l’analista dei Balcani, ricordando la seria situazione recente quando si è arrivati a uno scontro tra serbi e la polizia kosovara in uno dei comuni a maggioranza serba. Nonostante la pressione continua dalla comunità internazionale, per i serbi il Kosovo è parte della loro storia.

Campagna non tradizionale. Un’altra caratteristica della campagna elettorale è la figura di Alexander Vucic, presente ovunque, anche se – ritengono in molti – non dovrebbe essere così coinvolto in quanto presidente della Repubblica. “Vucic ha anche un profilo TikTok dove cucina crepes e consiglia buoni vini; poi lo si vede guidare un’auto sulle strade nuove, appena costruite”, racconta Krastev. A suo avviso, “l’uomo forte di Belgrado capisce che sta perdendo consensi, dal 60% è sceso al 40%, e se l’affluenza sarà alta e i giovani andranno a votare la vittoria non sarà garantita. “Il presidente Vucic sta occupando quasi la metà del tempo e dello spazio nell’informazione politica dei maggiori media”, si legge in un rapporto del Centro di ricerca, trasparenza e contabilità di Belgrado. “Non a caso Vucic ha promesso di dimettersi da capo di Stato in caso di sconfitta”, precisa Krastev.

Piccoli segnali di cambiamento. Krastev sostiene comunque che l’opposizione “è ancora debole e molto divisa, la destra non è riuscita a formare un’unica lista”. A suo avviso, cruciale sarà il contestuale voto per il sindaco di Belgrado, perché in 65 comuni si svolgono anche le amministrative e

Belgrado è considerata roccaforte dell’opposizione.

Segno che qualcosa sta già cambiando è anche l’iniziativa ProGlas firmata da 150mila persone tra cui accademici, giornalisti, artisti e professori. Krastev spiega che “tra essi ci sono personalità molto famose che sostengono l’idea di incoraggiare il più alto numero di persone possibile a recarsi alle urne e a votare per uno dei partiti dell’opposizione”. Le elezioni parlamentari in Serbia saranno monitorate dall’Osce, dal Consiglio d’Europa e dal Parlamento europeo.

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I percorsi di formazione della Fondazione Migrantes. Mons. Baturi (Cei): “La conoscenza fa parte dell’accoglienza”

Sab, 16/12/2023 - 09:10

Con un nuovo appuntamento svoltosi nei giorni scorsi è proseguito il percorso di formazione giuridica, promosso dalla Fondazione Migrantes, rivolto ai direttori diocesani e regionali e ai loro collaboratori impegnati, nelle rispettive diocesi, nella pastorale delle migrazioni. Al centro dell’ultimo incontro, svoltosi nei giorni scorsi, il confronto sull’impatto della legge 50, il cosiddetto “Decreto Cutro”, nel sistema d’accoglienza in Italia. Secondo Migrantes è importante puntare sulla formazione indispensabile per rispondere ai cambiamenti legislativi. L’idea sorgiva di questi momenti – ha spiegato mons. Pierpaolo Felicolo, direttore generale di Migrantes – è quella di “gettare un iniziale piccolo seme di opportuna formazione. Un seme che va seguito, curato con continuità e lasciato crescere. È importante infatti – ha proseguito – approfondire, anche dal punto di vista giuridico, alcune tematiche sia per la salvaguardia della dignità delle persone, sia per contribuire a costruire un’opinione pubblica maggiormente informata”. Presente all’incontro anche il segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, il quale, aprendo il meeting, ha ribadito che

la “conoscenza fa parte dell’accoglienza”.Sottolineando poi l’importanza dell’iniziativa, mons. Baturi ha riproposto le parole di Papa Francesco ricordando che “i migranti sono volti, non numeri; sono persone che non si possono semplicemente classificare, ma che occorrerebbe abbracciare”.

La disamina del testo è stata quindi affidata a Paola Scevi, direttrice del master in Diritto delle migrazioni nell’Università degli studi di Bergamo e docente di Diritto penale nello stesso Ateneo. Nel suo intervento, ha sottolineato come “gran parte delle categorie analitiche tradizionalmente utilizzate (migrante economico, profugo, richiedente asilo, vittima di tratta, migrante irregolare, clandestino) sono poco efficaci nell’interpretare percorsi migratori multiformi e complessi, all’interno dei quali si intrecciano negazione di diritti, esperienze di sfruttamento ed emarginazione, progettualità, talvolta in violazione dell’interesse pubblico all’integrità dei confini e al controllo dei flussi migratori”.Nella sua relazione la docente si è poi soffermata sul terribile fenomeno della tratta, evidenziando che traffico e tratta di essere umani “sono spesso strettamente correlati, poiché entrambi sono contraddistinti da una parte dall’avvantaggiarsi di chi specula sui migranti, dall’altra dalla vulnerabilità di tutte quelle persone in cerca di protezione internazionale o di accesso al mercato del lavoro all’estero”.

Ad aprire il primo incontro di formazione svoltosi lo scorso febbraio il card. Matteo Zuppi, presidente della Cei. Nelle sue parole il desiderio di sottolineare la bontà e l’utilità del servizio degli operatori pastorali, perché“chi si fa migrante tra i migranti è aiutato a stringere relazioni e stabilire tante alleanze, collaborazioni per portare a soluzione vicende spesso difficili e purtroppo prolungate nel tempo e che tante volte diventano delle vere e proprie patologie”. “Le persone con le quali vi siete messi in cammino – ha ribadito in quell’occasione rivolgendosi ai direttori e collaboratori degli uffici Migrantes delle diocesi italiane – ci aiutano a camminare e arricchiscono le nostre chiese e ci spingono a farci un po’ migranti”. C’è bisogno di formazione anche giuridica: “Tante volte ci sono novità normative peggiorative e che non affrontano i veri problemi e spesso limitanti rispetto all’evidenza delle situazioni che voi tutti i giorni vivete”.

Sulla validità dei corsi di formazione è intervenuto infine mons. Gian Carlo Perego, presidente dell’organismo pastorale della Cei. “I corsi sulla formazione giuridica della Migrantes, attivi da dieci anni – ha spiegato l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio –,

sono uno strumento importante per l’azione di informazione e di advocacy che le Migrantes diocesane sono chiamate a realizzare. Dalla interpretazione delle leggi, dalla giurisprudenza nascono, infatti, percorsi di tutela dei migranti e richiedenti asilo”. Per mons. Perego la legislazione sulle migrazioni in questi anni è “cambiata, in particolare in questo ultimo anno, con decreti (come il cosiddetto decreto Cutro) e leggi che hanno modificato le forme di protezione internazionale in particolare, che chiedono alle Migrantes di lavorare sulla informazione (spesso ideologica) e sulla formazione degli operatori pastorali”.

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Apertura dei negoziati di adesione con l’Ucraina. Caruso: “Una buona notizia ma gli stessi criteri vanno attuati per gli altri Paesi”

Sab, 16/12/2023 - 09:05

Il Consiglio europeo ha deciso di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldavia. Inoltre, ha concesso lo status di Paese candidato alla Georgia. Sono queste alcune delle decisioni prese durante il vertice in corso a Bruxelles dove sono riuniti i leader dell’Unione europea. Nelle conclusioni sull’Ucraina e sull’allargamento si legge anche: “Il Consiglio Europeo accoglie con favore l’adozione del 12esimo pacchetto di sanzioni” contro la Russia. Per capire quali implicazioni possa portare questa apertura all’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, il Sir ne ha parlato con Raul Caruso, professore ordinario di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Professore, cosa ne pensa dell’apertura dei negoziati da parte del Consiglio europeo?
È una buona notizia perché rappresenta una sorta di ritorno a casa,

l’Unione fa quello che la storia ci dice è stato sempre fatto con l’Europa, ovvero creare comunità per la pace sostanzialmente. In questo senso, l’apertura a un’integrazione dell’Ucraina riprende un po’ quella vecchia idea.

Inoltre è molto positivo il fatto che non ci siano state titubanze su questo, se non qualcuna facilmente prevedibile. Cosa non per niente scontata, perché a volte anche tra Paesi vicini ci sono divisioni profonde.

Cosa potrebbe cambiare con questa adesione?
Evidentemente all’Ucraina non si potrà chiedere il rispetto dei criteri comunitari che sono stati sempre chiesti ai Paesi candidati, quindi il primo problema che si verrà a creare è capire cosa fare con gli altri Paesi in attesa. Ad esempio, con i Balcani. Se infatti su alcuni criteri si attua una politica più “leggera” con l’Ucraina, lo stesso deve essere per altre regioni. Quindi va benissimo l’apertura all’Ucraina ma è necessaria una politica a 360 gradi anche con il Sud – Sud Est dell’Europa.

Ci saranno anche dei risvolti a livello economico.
Drammaticamente ci siamo accorti lo scorso anno il peso che ha l’Ucraina nell’agricoltura. La principale politica europea è ancora quella agricola, quindi andrà riscritta tenendo conto di questo, contestualmente all’impatto che potrebbe avere sui prezzi. La politica comunitaria non è solo legata ai sussidi, ma anche e soprattutto ai prezzi. Questo inevitabilmente richiederà un passaggio legato alla fiscalità: probabilmente i contributi che gli Stati versano all’Unione dovranno aumentare e questo apre a due possibilità. O gli Stati si mettono in accordo per contribuire in misura maggiore rispetto a ora con dei trasferimenti diretti, oppure si deve dare maggiore potere fiscale all’Unione. Nel primo caso si mantiene un po’ la sovranità degli Stati e nel secondo caso automaticamente significa erodere un po’ di sovranità. Io auspicherei un maggiore contributo dei Paesi membri, ma sicuramente il bilancio così com’è va arricchito, altrimenti non si può portare avanti un ulteriore allargamento.

Sul fronte del conflitto con la Russia, cosa c’è da aspettarsi?
Con l’accesso dell’Ucraina scomparirebbe definitivamente il progetto di una difesa comune, perché evidentemente una Russia armata non accetterebbe mai un’Ucraina ugualmente armata.

Sarebbe molto delicato come equilibrio.

Penso che se davvero si farà l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue, sarà un qualcosa che allontana l’ipotesi di una difesa comune e, allo stesso tempo, allontana l’Ucraina dalla Nato. Gli verrà dato l’ingresso in una comunità economica ricca, ma non gli verrà dato l’ingresso nella Nato per non creare ulteriori tensioni con la Russia.

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Natale a Gaza. Padre Romanelli (parroco): “Qui Dio piange con gli occhi dei bambini”

Sab, 16/12/2023 - 09:00

“Bombardamenti continui, pannelli solari distrutti, contenitori di acqua sui tetti inutilizzabili, la mancanza di cibo e ora anche la pioggia che sta allagando alcuni ambienti dove gli sfollati abitualmente passano la notte”: padre Gabriel Romanelli, parroco della parrocchia latina di Gaza, dedicata alla Sacra Famiglia, descrive al Sir le condizioni di vita in cui versano gli oltre 600 sfollati cristiani che hanno trovato rifugio all’interno delle strutture parrocchiali. Le racconta con lo stato d’animo di chi vorrebbe fare qualcosa di concreto ma è impossibilitato a farlo. Infatti padre Gabriel, missionario di origini argentine appartenente all’Istituto del Verbo Incarnato (Ive), dal 7 ottobre – giorno dell’attacco terroristico di Hamas a Israele – è rimasto bloccato a Betlemme e non riesce a fare rientro a Gaza.

Striscia Gaza, padre Gabriel Romanelli (Foto parrocchia SF)

I suoi contatti con la comunità parrocchiale sono continui, con il suo vicario padre Youssef Asaad, le religiose e i suoi fedeli. “Vorrei rientrare a Gaza e condividere questo tempo con i miei parrocchiani – confida padre Gabriel –. Vedo le foto che mi mandano e Gaza è irriconoscibile. Solo macerie. Ma questo non ci impedirà di vivere il Natale”. Come consuetudine, proprio in questi giorni, la parrocchia latina di Gaza avrebbe dovuto ricevere la visita natalizia, quest’anno la prima da cardinale, del patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa. La guerra in corso ha bloccato tutto. “Avevamo pensato per lui ad una calorosa accoglienza con i bambini vestiti da cardinali passati alla storia per essere divenuti santi o beati. Un augurio di santità. Cancellate tutte le feste, anche le parate degli scout”. Una scelta condivisa con tutta la diocesi patriarcale di Gerusalemme dove il Natale sarà vissuto solo all’interno delle chiese, “rinunciando a tutte le attività e segni festivi non necessari” in solidarietà con coloro che stanno soffrendo a causa del conflitto.

Una vera tregua. “Il dono che chiediamo in questo Natale – ribadisce il parroco – è una vera tregua, un cessate-il-fuoco permanente. Ogni giorno in più di guerra significa morte, distruzione, feriti, dolore, odio. Pregheremo perché le armi tacciano, perché i feriti e i malati vengano curati, perché i prigionieri e gli ostaggi vengano tutti rilasciati. Chiediamo che gli aiuti arrivino a tutti, anche al nord, dove sono rimasti 400mila abitanti che non hanno più niente. Nelle precedenti guerre qualcosa in piedi restava, mi riferisco a negozi, ospedali, scuole, luoghi di svago. Adesso ci sono solo macerie”. Padre Romanelli riporta la triste contabilità della guerra in corso – “oltre 18mila vittime palestinesi, più di 1200 quelle israeliane, 50mila feriti palestinesi e oltre 5400 israeliani, più di 7700 bambini uccisi” – ma parla anche di ricostruzione post guerra:

“dobbiamo chiedere a Dio la forza di ricostruire e di credere che sarà possibile. Altrimenti i 2,3 milioni di gazawi dove andranno, cosa faranno, come vivranno? La comunità internazionale non li può abbandonare”.

(Foto Parrocchia Latina)

Altare non di pietra. Sono queste le preghiere continue che i cristiani di Gaza stanno elevando in vista del Natale. I social dei fedeli di Gaza sono ricchi di foto e di video che li mostrano in chiesa a pregare. Grandi e piccoli. In questi ultimi giorni anche al buio, alla fioca luce di lampadine. Ogni giorno la piccola chiesa parrocchiale si riempie per le Messe del mattino e della sera, per il Rosario e per l’adorazione. “C’è sempre qualcuno a pregare – dice padre Gabriel, che è parroco di Gaza da più di 4 anni – e lo scopo è preservare la presenza reale di Gesù.

L’altare di Gaza non è solo di pietra ma è tabernacolo vivente.

Così si alimenta la vita spirituale dei nostri credenti, poco più di 1000 dei quali un centinaio cattolici su 2,3 milioni di musulmani. Da qui viene la forza di testimoniare la nostra fede attraverso la carità verso tutti, senza distinzioni di fede, con le opere nel campo scolastico, sanitario, sociale, dando speranza a tutte queste persone che da oltre 16 anni vivono nella prigione più grande del mondo che è Gaza. Ci sono tantissime famiglie musulmane che vivono nelle vicinanze della parrocchia e che cerchiamo in qualche modo di aiutare”. “Lo scorso ottobre – ricorda padre Gabriel – abbiamo ospitato oltre 2500 sfollati nella scuola della Sacra Famiglia nell’area di Rimal. Tutti soffrono, il dolore non distingue tra cristiano, ebreo, druso, musulmano, credente o non credente. I gazawi non devono essere dimenticati dopo questa guerra – ribadisce il religioso –. La forza per fare questo ci viene dalla fede in Gesù. Non è facile perché a volte – ammette – siamo tentati dalla ricerca di un luogo più sereno dove stare ma bisogna rimanere vicino alla gente che soffre perché anche

a Gaza Dio piange, piange con gli occhi dei bambini

rimasti orfani, di coloro che hanno perso i loro arti, dei tanti che hanno perso la libertà. In questa missione i cristiani di Gaza godono del sostegno quotidiano di Papa Francesco, del patriarca, card. Pierbattista Pizzaballa, e di centinaia di migliaia di persone, cristiane e non, che invocano pace e giustizia”.

Consolare gli innocenti. Padre Romanelli non si ferma al Natale ma invita a guardare alla Sacra Famiglia – “Gaza è Terra Santa, da qui passarono Gesù Giuseppe e Maria per fuggire in Egitto dopo l’editto di Erode – e agli Innocenti martiri (28 dicembre). La nascita di Gesù è segnata dalla Croce. Ogni essere umano è nato per vivere, Gesù nasce per morire e poi risorgere. In ogni innocente morto vediamo soffrire Gesù. Per questo lo vogliamo consolare, difendere, pregare. Ogni essere umano è creato a immagine di Dio. In questo Natale ci sono decine di migliaia di innocenti che piangono e che attendono di essere consolati. Preghiamo allora per il dono della pace”.

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Povertà. Russo (portavoce Alleanza): “Si scriva insieme un Programma di lotta che vada oltre le legislature”

Sab, 16/12/2023 - 08:45

“Nel corso degli ultimi 10 anni in Italia ha preso piede l’incapacità di approdare ad una misura strutturale di contrasto alla povertà. A fronte di un problema come quello della povertà assoluta che è diventato strutturale, non abbiamo una misura universalistica di contrasto. Quando l’Alleanza contro la povertà è nata, nel 2013, la povertà toccava due milioni di persone. Oggi ne conta sei milioni. In un decennio si è triplicata. E per un problema che si è andato strutturando ci si sarebbe aspettato che si avviassero politiche strutturali per farvi fronte. Invece, in dieci anni si sono alternati sette governi che hanno cambiato cinque volte la misura di contrasto alla povertà”. Lo sottolinea Antonio Russo, portavoce di Alleanza contro la povertà in Italia, commentando al Sir gli ultimi dati sul mercato del lavoro e sull’inflazione diffusi nei giorni in cui l’Alleanza ha festeggiato il decennale di attività riunendo a Roma le diverse figure e realtà che hanno dato vita a questa compagine, che oggi rappresenta 35 organizzazioni.

Partiamo dai dati Istat sul mercato del lavoro. L’Istat ha registrato un aumento congiunturale e tendenziale degli occupati, una disoccupazione stabile al 7,6% e la prosecuzione del calo degli inattivi di 15-64 anni. Sono timidi segnali positivi?
Ovviamente è sempre meglio avere a che fare con numeri di segno positivo, fosse pure dello 0,1%, che con dati negativi. Quanto fornito dall’Istat credo che per la prima volta ci restituisca un andamento in controtendenza sugli occupati con un +0,1% in un mese e +2,1% in un anno.

Rispetto al 2022, insomma, la situazione seppur lievemente è migliorata; ma non mi sembra il caso di enfatizzare troppo il miglioramento, anche perché stiamo parlando comunque di una situazione gravissima che interessa la disoccupazione in un mercato del lavoro che non riesce a fare fronte, soprattutto in alcune aree del Paese, all’offerta di lavoro.

Di tutt’altro segno è invece quanto rilevato dall’Inapp: l’Italia resta al palo su stipendi e produttività, considerato che dal 1991 ad oggi i salari sono cresciuti dell’1% contro il +32,5% dei Paesi Ocse…
Quello dei salari che nel nostro Paese non aumentano è un dato sul quale riflettere, a maggior ragione se paragonato a ciò che avviene negli altri Paesi dove i salari aumentano seguendo in qualche modo l’andamento dell’economia.

Con salari evidentemente più fragili rispetto alla zona Ocse è chiaro che il potere d’acquisto nel nostro Paese è inferiore rendendo più fragili le persone e le famiglie.

Questo genera una sorta di reazione a cascata che in senso più generale rende il nostro Paese più fragile. Anche perché in Italia vivono oltre 3 milioni di lavoratori poveri, i cosiddetti “working poor”. E, tra di loro, le fragilità maggiori le cogliamo tra i giovani e le donne.

Nei giorni scorsi l’Istat ha rivisto al ribasso le stime dell’inflazione che a novembre è stata dello 0,7% su base annua, da +1,7% nel mese precedente (la stima era di 0,8%). Una buona notizia, no?
Viene registrato un netto calo, rispetto ai mesi precedenti, ma anche qui dobbiamo sempre ricordarci che abbiamo un indice generale per il 2023 pari al +5,7%.

I dati inflattivi, come sappiamo, toccano maggiormente con effetti peggiorativi le fasce più deboli della popolazione. È chiaro che il potere d’acquisto diminuisce e sulla spesa – dal carrello della spesa fino a quella per l’acquisto di beni e di servizi – agisce una tagliola molto più diretta e molto più forte per chi già non ce la fa.

In questo contesto, l’Alleanza ha festeggiato i 10 anni di vita. Come giudicate la situazione dal vostro osservatorio?
Sappiamo dall’ultima indagine Istat che la povertà assoluta ha raggiunto quasi 6 milioni di persone. Ciò significa che

un cittadino italiano su 10 è povero assoluto.

In questa situazione si trovano 2,4 milioni di famiglie e quasi 1,4 milioni di minori. Quest’ultimo dato deve portarci ad una riflessione più profonda su ciò che succederà nei prossimi anni; perché l’impatto della povertà sui bambini è maggiore rispetto a quello sulle persone adulte, il danno è superiore ed è un danno di futuro. Nel nostro decennale abbiamo ricordato la spinta che le 35 organizzazioni aderenti all’Alleanza ha dato alla politica per affrontare la crescita della povertà assoluta nel nostro Paese. In dieci anni, quasi ogni governo ha voluto introdurre una propria misura, ritenendo che il problema andasse affrontato in un modo diverso da quanto fatto dall’Esecutivo precedente.

Fin dall’inizio, praticamente, chiedeste l’introduzione del Reis, il Reddito d’inclusione sociale, una misura universalistica rivolta a tutte le famiglie in povertà assoluta…
Ci si andò vicino nel 2018 con il Rei varato dal Governo Gentiloni, che introdusse nel nostro ordinamento una cosa importantissima: cioè il fatto che fosse

una misura universalistica e non categoriale.

È un po’ come se il legislatore avesse detto che

i poveri sono poveri, i fragili sono fragili e non possono essere naturalmente divisi per etnia, aree geografiche, età… Da allora e fino al Reddito di cittadinanza questo principio è stato mantenuto, poi con la legge 85 nel 2023 le cose sono cambiate, al punto che dal 1° gennaio 2024 saremo nell’Ue27 l’unico Paese a non avere una misura diretta di contrasto, un reddito minimo.

Quanto vi preoccupa questo?
In questi mesi abbiamo provato con il Governo ad aprire varchi, a spiegare che questa scelta in qualche modo rappresenta un pericoloso ritorno al passato, in una situazione nella quale il numero di poveri è aumentato; fino a questo momento mi pare che la linea non sia stata modificata. Ma

ciò che preoccupa di più è ciò che è successo dal punto di vista culturale: è come se il Paese ad un certo punto avesse scoperto l’aporofobia: i poveri hanno cominciato a diventare fastidiosi dal punto di vista culturale, forse perché sono troppi. E si fa largo l’idea strisciante di chi pensa che se sei povero è perché ti sei messo tu in questa condizione, te la sei andata a cercare.

Bisognerebbe riflettere prima di affermare che tutti i beneficiari del sussidio sono degli sfaticati, dei fannulloni… Bisogna ricordare che viviamo in un Paese che sta nel cuore dell’Europa dove c’è una guerra in corso, che sta ancora uscendo dalla crisi economica cominciata nel 2008 e aggravata dalla pandemia… A questo va aggiunto che ci sono diverse tipologie di persone fragili: quelli che non hanno mai lavorato, quelli non collocabili, quelli che un lavoro ce l’avevano e l’hanno perso, quelli che non ce l’hanno e vivono in una parte del Paese in cui il sistema di welfare e il sistema di infrastrutturazione delle politiche del lavoro è più fragile. E poi ci sono quelli che un lavoro ce l’hanno ma non ce la fanno comunque. Basti ricordare che le ultime annualità del Reddito di cittadinanza veniva pagato anche a chi il lavoro ce l’aveva.

In occasione del decennale avete rilanciato l’impegno presentando 6 proposte. Cosa riguardano?
La prima è un ritorno immediato, l’abbiamo già chiesto al Governo in carica e lo chiederemo ancora, al principio universalistico della misura di contrasto della povertà. Riteniamo sbagliato che l’Assegno di inclusione vada bene per una categoria di persone e non per altre. Al di là della piattaforma che forse deve essere ancora implementata per superare gli attuali problemi,

siamo convinti della necessità di un ritorno a quel principio universalistico iscritto nella nostra Costituzione repubblicana.

Una seconda richiesta è quella di ritornare a pensare una misura nazionale che sia rivolta alle famiglie e alle persone in povertà assoluta ed estendendola anche ai cittadini di origine straniera residenti almeno da un anno in Italia e non da 5 come è stabilito dalla legge 85: una misura nuova unita ad un’offerta di servizi territoriali – sociali e del lavoro – che rispondano a standard adeguati di infrastrutturazione territoriale e che preveda una gestione condivisa a livello locale con Comuni e Terzo settore, per richiamare alle proprie responsabilità anche questo mondo che nel campo dell’accoglienza e dell’inclusione sociale ha fatto cose straordinarie.

Le altre?
Chiediamo di istituire un Osservatorio sulla povertà e attendiamo che sia il ministero delle Politiche sociali a fare un passo avanti. Avvertiamo l’esigenza che venga istituito ma, soprattutto, che risponda a tre requisiti: sia autorevole, dotato di strumenti di analisi e posto nelle condizioni di poter fare proposte al Governo. Poi abbiamo proposto di assumere nella Legge di bilancio ancora in discussione in queste settimane in Parlamento gli emendamenti che Alleanza contro la povertà ha presentato. Mi lasci dire che riteniamo che

il tema della povertà, per come si manifesta e per come è cresciuto in questi anni, debba entrare dal punto di vista politico in una sorta di zona franca: c’è bisogno di un processo di deideologizzazione, perché quello della povertà è un tema trasversale alle forze politiche.

Questo rimanda alla proposta di creazione di un gruppo interparlamentare sulla povertà…
Certo. Abbiamo chiesto al Governo che si trovi il coraggio per scrivere insieme un Patto tra le forze politiche che vada oltre questa legislatura e vada oltre le legislature. Il nostro auspicio è che

si scriva insieme un Programma di lotta alla povertà

e ci si accordi che qualunque cosa accada nel Governo, anche che ne sopraggiunga un altro, quel Programma non si tocca, fino a quando non verranno raggiunti tassi fisiologici di povertà, come succede in tutte le democrazie avanzate. Su questo ci proponiamo come facilitatori, crediamo di aver dimostrato in questi anni di stare al di sopra delle parti provando a rappresentare le persone più povere e fragili. Se la politica vorrà essere aiutata anche con un gruppo interparlamentare, noi ci saremo.

L’ultima proposta?
Si tratta del Reddito minimo europeo. L’istituzione del pilastro sociale europeo non è stata fatto a caso. Nel solco di questo,

con Commissione e Parlamento Ue si deve spingere affinché sia istituito un Reddito minimo europeo, questo sarebbe molto importante anche per rendere concreta quell’Europa sociale di cui si parla tanto.

Se vogliamo contribuire ad aumentare l’appartenenza dei cittadini all’Unione europea un reddito minimo potrebbe evidentemente segnare un cambio di passo. Proveremo a capire se ci sono le condizioni perché in sede europea si apra una riflessione approfondita.

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Porte aperte all’Ucraina. Ma l’Ue è in guerra a fianco di Kiev? E il summit rimanda bilancio e riforme

Ven, 15/12/2023 - 12:24

Ucraina, Georgia, Balcani. Come nei momenti più difficili della sua storia, l’Unione europea trova la quadra superando ostacoli e obiezioni interne. Così è avvenuto ieri, nel tardo pomeriggio, quando dal vertice a Bruxelles è uscita la notizia (i summit si svolgono a porte chiuse) dell’avvio dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Ue. Nulla di automatico, occorreranno probabilmente tempi lunghi: ma certamente si tratta di un segnale forte di unità ritrovata, e un segnale di speranza per il popolo ucraino. Con un voto (quasi) all’unanimità, avvenuto grazie al fatto che, al momento di esprimersi, il leader ungherese Orban si è allontanato dalla sala. Decisione sottolineata con entusiasmo dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel: “un chiaro segnale di speranza per gli ucraini e per il nostro continente”. Mentre il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyj sottolinea: “la decisione dell’Ue ci dà forza e sollievo”. Il premier Viktor Orban è di tutt’altro parere: “decisione sbagliata”. Ma la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, sembra correggerlo: “l’Europa è Ucraina, l’Ucraina è Europa”.

Sul bilancio pluriennale non c’è intesa. Non tutto, però fila liscio. Sul Quadro finanziario pluriennale, infatti, la stessa unanimità è venuta meno. Tanto che questa mattina il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha dovuto affermare: “la revisione del Qfp, di cui al documento che segue, in tutte le sue componenti e priorità – ossia sostegno all’Ucraina, migrazione e dimensione esterna (rubriche 4 e 6), piattaforma per le tecnologie strategiche per l’Europa, pagamenti degli interessi di NextGenerationEu, strumenti speciali, nuove risorse proprie ed elementi che riducono l’incidenza sui bilanci nazionali – è sostenuta con fermezza da 26 capi di Stato o di governo. Torneremo sulla questione all’inizio del prossimo anno”. Ventisei su ventisette. Manca di nuovo l’unanimità. Se ne riparla nel 2024.

Armi e munizioni: siamo in guerra? Tornando all’Ucraina, nel documento definito dai capi di Stato e di governo si legge: “il Consiglio europeo ribadisce la sua ferma condanna della guerra di aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina” e “riafferma il risoluto sostegno dell’Unione europea all’indipendenza, alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale nonché al suo diritto naturale di autotutela contro l’aggressione russa”. L’Ue conferma poi il sostegno “politico, finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico per tutto il tempo necessario”. Quindi si rafforza il concetto bellico: “l’Unione europea e i suoi Stati membri continueranno ad affrontare le pressanti esigenze militari e di difesa dell’Ucraina. In particolare, il Consiglio europeo insiste sull’importanza di un sostegno militare tempestivo, prevedibile e sostenibile per l’Ucraina, segnatamente attraverso lo strumento europeo per la pace e la missione di assistenza militare dell’Ue, come pure attraverso l’assistenza bilaterale diretta degli Stati membri. Il Consiglio europeo sottolinea l’urgente necessità di accelerare la fornitura di missili e munizioni, in particolare nell’ambito dell’iniziativa volta a fornire un milione di munizioni di artiglieria, e di dotare l’Ucraina di un maggior numero di sistemi di difesa aerea”. Espressioni in cui la pace è appena nominata e che lasciano aperto un interrogativo: l’Ue è in guerra a fianco dell’Ucraina?

Allargamento sì, riforme rimandate. Quindi la formula attesa: “il Consiglio europeo decide di avviare negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova. Il Consiglio europeo decide inoltre di concedere lo status di Paese candidato alla Georgia”. Inoltre il Consiglio europeo avvierà negoziati di adesione con la Bosnia-Erzegovina. L’Unione europea è poi “pronta a completare la fase di apertura dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord, non appena quest’ultima avrà attuato il suo impegno di completare le modifiche costituzionali” necessarie. I 27 leader ribadiscono nel passaggio successivo l’“impegno pieno e inequivocabile a favore della prospettiva di adesione dei Balcani occidentali”. Proprio l’allargamento “presuppone – lo affermano gli stessi capi di Stato e di governo – che le politiche dell’Unione siano adeguate alle esigenze del futuro e finanziate in modo sostenibile, in base ai valori su cui si fonda l’Unione, e che le istituzioni dell’Ue continuino a funzionare efficacemente”. Per questa ragione il Consiglio europeo “si occuperà delle riforme interne nelle prossime riunioni, con l’obiettivo di adottare, entro l’estate del 2024, conclusioni su una tabella di marcia per i lavori futuri”. Niente di definito, per il momento, solo un vago impegno. Che stavolta, però, è nero su bianco.

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Doors open to Ukraine. Yet is the EU at war siding with Kyiv? The summit defers budget and reforms

Ven, 15/12/2023 - 12:24

Ukraine, Georgia, the Balkans. The European Union strikes a balance by surmounting obstacles and overcoming internal objections, as it did at the most difficult moments in its history. This is what happened yesterday, late in the afternoon, when the news emerged from the Brussels summit (summits are held behind closed doors) that the EU had opened membership talks with Ukraine. There is nothing certain about it, it will probably take a long time: but it is certainly a powerful signal of rediscovered unity and a sign of hope for the Ukrainian people. The vote was (almost) unanimous, thanks to the fact that Hungarian leader Orban left the room when it was time for him to speak. This decision was enthusiastically hailed by the President of the European Council, Charles Michel, as “a clear signal of hope for the Ukrainians and for our continent”. While Ukraine’s President Volodymyr Zelenskiy said: “the EU’s decision gives us strength and relief.” But Hungarian Prime Minister Viktor Orban disagrees: “wrong decision.” But the President of the European Parliament, Roberta Metsola, came to correct him: “Europe is Ukraine, Ukraine is Europe.”

No agreement on long-term budget. But not everything went smoothly. In fact, with respect to the Multiannual Financial Framework, there was no consensus at all. So much so that this morning the President of the European Council, Charles Michel, said: “The MFF (Multiannual financial framework) Revision as set out in the document below, in all its components and priorities – i.e. support for Ukraine, migration and the external dimension (Headings 4 and 6), strategic technologies for Europe platform, NGEU (NextGenerationEU) interest payments, special instruments, new own resources and elements that reduce the impact on national budgets – is firmly supported by 26 Heads of State or Governments. We will return to it early next year”. Twenty-six out of twenty-seven. Once again, there is no unanimity. It will have to be discussed again in 2024.

Arms and ammunition: are we at war? With regard to Ukraine, the document drawn up by the Heads of State and Government states: “The European Council reiterates its strong condemnation of Russia’s war of aggression against Ukraine” and “reaffirms the European Union’s unwavering support for the independence, sovereignty and territorial integrity of Ukraine within its internationally recognised borders and its inherent right of self-defence against Russian aggression.”

The EU goes on to reaffirm its “unwavering commitment to continue to provide strong political, financial, economic, humanitarian, military and diplomatic support to Ukraine and its people for as long as necessary.”

In this, the military aspect is once again emphasised: “The European Union and its Member States will continue to address Ukraine’s urgent military and defence needs. In particular, the European Council insists on the importance of timely, predictable and sustainable military support for Ukraine, notably through the European Peace Facility and the EU Military Assistance Mission, as well as through direct bilateral assistance by Member States. The European Council stresses the urgent need to accelerate the delivery of missiles and ammunition, in particular under the one million rounds of artillery ammunition initiative, and to provide Ukraine with more air defence systems.” This wording barely mentions peace and leaves one question unanswered: is the EU at war on the side of Ukraine?

‘Yes’ to enlargement, reforms postponed. Hence the expected formula: “The European Council decides to open accession negotiations with Ukraine and Moldova. The European Council also decides to grant the status of candidate country to Georgia.” The European Council will also open accession negotiations with Bosnia and Herzegovina. The European Union is also “ready to complete the opening phase of accession negotiations with North Macedonia once it has fulfilled its commitment to complete the constitutional changes” in line with its internal procedures.

In the following passage, the EU-27 leaders reaffirm their “full and unequivocal commitment to the EU membership perspective of the Western Balkans.”

Indeed, successful European integration “requires,” the EU27 leaders state, “that Union policies be fit for the future and financed in a sustainable manner, based on the values on which the Union is founded, and that the EU institutions continue to function effectively. This is why the European Council “will address internal reforms at its next meetings, with the aim of adopting conclusions on a roadmap for future work by the summer of 2024.” Nothing definitive so far, just a general commitment. But this time it has been put down in writing.

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