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Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 4 mesi 1 settimana fa

Striscia di Gaza. Suor Saleh: “Sempre più cristiani vogliono emigrare”

Lun, 27/11/2023 - 09:19

“Oggi ringraziamo Dio perché tra Israele e Palestina c’è finalmente una tregua e alcuni ostaggi sono stati liberati. Preghiamo che lo siano al più presto tutti – pensiamo alle loro famiglie! –, che entrino a Gaza più aiuti umanitari e che si insista nel dialogo: è l’unica via, l’unica via per avere pace. Chi non vuole dialogare non vuole la pace”.

Le parole di Papa Francesco, all’Angelus di ieri, lette da mons. Paolo Braida, capo ufficio della Segreteria di Stato, dalla cappella di Casa Santa Marta a causa di una sindrome influenzale del Pontefice, hanno raggiunto la comunità cristiana di Gaza. Un ricordo continuo, quello del Papa, alimentato anche da “telefonate quotidiane” alla parrocchia della Sacra Famiglia, come ricorda al Sir suor Nabila Saleh.

Voglia di emigrare. “In questi giorni di tregua – dichiara la religiosa che si trova nella parrocchia latina di Gaza con altri 700 sfollati – i nostri cristiani sono usciti, per la prima volta dallo scoppio della guerra, dalla parrocchia per tornare finalmente nelle loro abitazioni e verificarne lo stato. Purtroppo tutti hanno avuto le case bombardate e distrutte. Anche per questo motivo – rivela – molti stanno pensando di emigrare. Questa guerra sta minando la loro volontà di restare a Gaza e sono già tanti coloro che hanno deciso di emigrare. L’Australia è una delle mete più ambite”. Una scelta che poggia sulla decisione, assunta recentemente dal Governo australiano, di approvare, tra il 7 ottobre e il 20 novembre, più di 800 visti per i palestinesi e oltre 1.700 per i cittadini israeliani. Si tratta di un visto turistico, rilasciato previo approfondito controllo di sicurezza, che consente l’ingresso temporaneo fino a 12 mesi. Analoga decisione l’Australia l’aveva assunta per 3.000 visti turistici a cittadini ucraini (tra il 23 febbraio e l’11 marzo 2022), dopo l’invasione russa e per 5.000 afghani (tra il 18 agosto e il 20 settembre 2021), dopo il ritiro degli Stati Uniti dal Paese e il ritorno al potere dei talebani. “Se la guerra non finirà subito – rimarca suor Saleh – il rischio che Gaza resti senza la già piccola comunità cristiana (poco più di 1000 fedeli, ndr.) è molto concreto e sarebbe una grave perdita per tutta la Striscia”.

Ultimo giorno di tregua. Oggi, 27 novembre, la tregua entra nel suo quarto, e probabilmente, ultimo giorno e, spiega suor Saleh, “migliaia di gazawi tenteranno ancora di rientrare in casa anche per cercare di prendere oggetti e effetti personali, ma soprattutto per reperire cibo, acqua, gas, carburante”, dopo che da venerdì scorso circa 350 mezzi, con aiuti umanitari, sono entrati dal valico di Rafah nella Striscia. Numeri che, sostiene la suora, “non sono sufficienti a soddisfare i bisogni della popolazione stremata dalla guerra. Inoltre non a tutti sarà possibile andare a vedere perché – ricorda – ci sono dei quartieri cosiddetti ‘rossi’, controllati dai carri armati israeliani, che impediscono a chiunque l’accesso”.

Natale senza luci. In mezzo a tanta distruzione, aggiunge la religiosa, “ora è davvero difficile guardare al prossimo Natale. Non avremo luci e feste per la nascita di Gesù, ma lo celebreremo solo in chiesa con la Messa” in linea con la richiesta dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese di Gerusalemme, datata 10 novembre, al clero e ai fedeli, di rinunciare a “tutte le attività e segni festivi non necessari e di concentrarsi maggiormente sul significato spirituale del Natale, ponendo attenzione ai nostri fratelli e sorelle colpiti da questa guerra e dalle sue conseguenze, e a elevare ferventi preghiere per una pace giusta e duratura per la nostra amata Terra Santa”. La comunità sfollata in parrocchia si appresta a vivere il tempo di Avvento con una sola preghiera: “il dono della pace e della giustizia”. “Celebreremo il Natale tutti insieme in parrocchia” afferma suor Nabila consapevole che, “restando queste le condizioni”, non ci saranno né la visita del patriarca, né visti natalizi di Israele per i cristiani della Striscia, necessari per recarsi a Gerusalemme e Betlemme a pregare e a trovare i familiari. Alla comunità cristiana di Gaza non resterà che affidarsi alle notizie che arriveranno da una Betlemme deserta e priva di luci, dove sabato 2 dicembre, vigilia di Avvento, farà il suo ‘ingresso’, in un clima di silenzio, il Custode di Terra Santa, fra Francesco Patton. Il 24 dicembre sarà la volta del patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa che, come tradizione, celebrerà la Messa di Mezzanotte alla presenza dei rappresentanti diplomatici e, salvo cambiamenti, del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen.

Gaza Strip. Sister Saleh: “A growing number of Christians want to emigrate”

Lun, 27/11/2023 - 09:19

“Today let us thank God that there is finally a truce between Israel and Palestine, and some hostages have been freed. Let us pray that they will all be freed as soon as possible – think of their families! -, that more humanitarian aid will enter Gaza, and that dialogue is insisted upon: it is the only way, the only way to achieve peace. Those do not want dialogue do not want peace.”

The words of Pope Francis at the Angelus prayer on Sunday, read in the chapel of Casa Santa Marta by Monsignor Paolo Braida, Head of Office at the Secretariat of State, due to the Pope’s flu, reached the Christian community of Gaza. The Pope’s constant presence is enriched by “daily telephone calls” to the Parish of the Holy Family, as Sister Nabila Saleh told SIR.

The desire to emigrate. “During these days of ceasefire, our Christians went out of the parish for the first time since the outbreak of the war,” says the nun, who lives with 700 displaced people in the premises of the Latin parish in Gaza. “They were finally able to go back to their homes and check on their condition. Unfortunately, all their homes had been shelled and destroyed. For this reason – she says – many are planning to emigrate. This war is undermining their resolve to stay in Gaza and many have already decided to emigrate. Australia is one of the most popular destinations.” This choice is partly due to the Australian government’s recent announcement that it will issue more than 800 visas to Palestinians and more than 1,700 to Israeli citizens between 7 October and 20 November. These visas are tourist visas, issued after thorough security checks, and allow temporary entry for up to 12 months. Australia had made a similar decision for 3,000 tourist visas for Ukrainian citizens (between 23 February and 11 March 2022) after the Russian invasion, and for 5,000 Afghans (between 18 August and 20 September 2021) after the US withdrawal from the country and the Taliban’s return to power. “If the war does not end immediately,” stresses Sister Saleh, “there is a very real risk that Gaza will be left without its dwindling Christian community (just over 1,000 believers, Ed.’s note), which would be a serious loss for the whole Strip.”

Last day of the truce. The truce between Israel and Hamas entered its final 24 hours on Monday 27 November. Sister Saleh said: “Thousands of Gazans are still trying to return to their homes to collect personal belongings, but above all to find some food, water, gas and fuel,” as some 350 vehicles carrying humanitarian aid have entered the Strip through the Rafah crossing since last Friday. These numbers, she said, “are not enough to meet the needs of the population, which is exhausted by the war. “Moreover, not everyone will have access,” she points out, “because there are so-called ‘red’ areas, which are under the control of Israeli tanks and prevent access to everyone.”

Christmas without lights. In the midst of such destruction, the nun adds, “it is very difficult to be joyful for the coming Christmas. There are no Christmas lights or Nativity scenes. We will only celebrate it in church with Holy Mass,” in accordance with the request of the Patriarchs and Heads of Churches of Jerusalem on 10 November for clergy and faithful to “forgo all unnecessarily festive activities and symbols and to focus more on the spiritual meaning of Christmas, with all the focus directed at holding in our thoughts our brothers and sisters affected by this war and its consequences, and with fervent prayers for a just and lasting peace for our beloved Holy Land.” The community of the evacuated parishioners is preparing to live the season of Advent with a single prayer: “the gift of peace and justice”. “We will celebrate Christmas together in the parish,” says Sister Nabila, knowing that “given the present circumstances” there will be no visit from the Patriarch, nor Christmas visas from Israel for Christians from the Strip who need to travel to Jerusalem and Bethlehem to pray and visit family members. The Christian community of Gaza can only rely on the news coming from the deserted and unlit Bethlehem, where, on Saturday 2 December, the eve of Advent, the Custos of the Holy Land, Mgr Francesco Patton, will arrive surrounded by silence. On 24 December, the Latin Patriarch of Jerusalem, Card. Pierbattista Pizzaballa, will celebrate the traditional midnight Mass in the presence of diplomatic dignitaries including, if nothing changes, the President of the Palestinian Authority, Abu Mazen.

Chiavari. La Gmg diocesana sul tema “Sperare insieme”

Sab, 25/11/2023 - 16:18

“Sperare insieme” è questo il titolo della Giornata diocesana giovani, organizzata nella diocesi di Chiavari, in Liguria. Il tema riprende la consegna lasciata da Papa Francesco ai partecipanti alle Giornate mondiali della gioventù di Lisbona. “Ci siamo riferiti alla parola Tikva, che vuol dire corda e legame” spiega Maria Giulia Crispino, componente della consulta della pastorale giovanile. “A ciascun partecipante verrà chiesto di scrivere su un cartoncino un pensiero di speranza e di attaccarlo ad una corda. A fine serata si potrà prendere uno dei cartoncini appesi. In questo modo, ognuno potrà essere speranza per l’altro”. Alla vigilia della solennità di Cristo Re, i giovani si ritroveranno nelle opere parrocchiali di Santa Margherita Ligure per trascorrere una serata in cui momenti di animazione si alterneranno ad un tempo di riflessione, seguito dalla cena e, al termine, nella Basilica di N. S. della Rosa, la Santa Messa presieduta dal vescovo di Chiavari, Giampio Devasini. “Giocheremo insieme – racconta Mattia Annovazzi, uno degli organizzatori della serata – quindi ascolteremo alcune testimonianze dal mondo e di ragazzi della diocesi, che hanno vissuto alcune esperienze significative, come la Gmg e il pellegrinaggio dei cresimati dal Papa”. Lisbona rappresenta uno snodo importante nell’esperienza di vita e di crescita dei partecipanti. “È stata un’esperienza indimenticabile – ricorda Maria Giulia – le parole del Papa nell’omelia mi sono rimaste particolarmente impresse perché ha parlato direttamente ai giovani, e quindi le ho sentite mie”. Mattia, che è anche un catechista e animatore, è tornato dal Portogallo con un carico di “Entusiasmo, gioia, energia per portare avanti i progetti che seguo. Inoltre ho avuto modo di approfondire relazioni con altri coetanei, con i quali avevo già un rapporto di conoscenza, che, tuttavia, si è intensificato”. Le iniziative proposte partono dall’invito del Papa, a tenere vive le tante espressioni di gioia e di festa, vissute in quei giorni, e a non lasciare spegnere la luce della speranza. “Come la luce degli smartphone durante i concerti” rammenta Francesco Basso, seminarista che verrà ordinato diacono nel giorno dell’Immacolata. Per Francesco, la GMG è stata occasione per comprendere meglio il significato di donare la propria vita per l’altro. “Stare con i ragazzi, ascoltare la loro storia, condividere del tempo, è stato, innanzitutto, motivo di speranza per me, per la mia fede”. Lo spirito con cui ci si appresta a celebrare la Giornata Diocesana dei Giovani è proprio quello impresso da Papa Francesco “Non lasciare passare un giorno senza riuscire a trovare una parola di speranza”. Per se stessi e per il mondo. Per questo, ai ragazzi e alle ragazze chiavaresi, verrà chiesto anche un gesto di carità, con una raccolta fondi a sostegno delle popolazioni della Terra Santa.

Gmg: don Pincerato (Snpg), “è il tempo di osare”

Sab, 25/11/2023 - 16:13

“La nostra preoccupazione non deve essere che i giovani vengano in Chiesa ma piuttosto che incontrino Cristo. Dopo eventi come la Gmg, l’ultima a Lisbona lo scorso agosto, dove si fa esperienza di grande comunione e di unità, dove ci si sente ‘tanti’, la sfida più grande è quella di rinsaldare il proprio ‘sì’ e riportare nella propria dimensione umana, sociale ed ecclesiale la bellezza dell’incontro con il Signore per assaporarne il gusto”.

(Foto Siciliani – Gennari/SIR)

Alla vigilia della XXXVIII Gmg, che si celebra a livello diocesano, domani 26 novembre, Solennità di Cristo Re, a parlare al Sir è don Riccardo Pincerato, 33 anni, vicentino, da fine settembre nuovo responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile (Snpg).

“Essere per gli altri”. La sua riflessione parte dal tema della Gmg, “Lieti nella speranza”, che è anche il titolo del Messaggio di Papa Francesco diffuso per l’occasione. “Sperare oggi” vivendo in un tempo come quello attuale “sembra davvero arduo”. Guerre, tensioni, conflitti e disagi sociali, fragilità diffuse e senso di precarietà che sempre più pervadono il mondo giovanile, per il responsabile Snpg, “rischiano, come afferma il Pontefice, di prendere il sopravvento sulla speranza rendendo inutile fare il bene, perché non sarebbe apprezzato e riconosciuto da nessuno”. Guardare al mondo “con occhi di speranza” è la risposta che suggerisce Papa Francesco ai giovani: “sperare perché abbiamo incontrato Cristo” ribadisce il responsabile Snpg che cita ancora il pontefice, ‘la speranza cristiana non è facile ottimismo e non è un placebo per i creduloni: è la certezza, radicata nell’amore e nella fede, che Dio non ci lascia mai soli’. E i giovani non sono soli in questo incontro. Non possiamo tenercelo dentro. Questa è la bellezza della Chiesa: condividere il cammino di fede, la ricerca, il dono, con altri giovani, educatori, adulti, famiglie e con i nostri anziani”. Per don Pincerato “la speranza nasce anche dal fatto che l’incontro con Gesù non ci tiene ‘al caldo’ ma ci spinge a fare delle scelte per il bene e per gli altri. La speranza nasce dalla consapevolezza del fatto che – nonostante ci troviamo in un momento storico di tensione e denso di fatiche – ci sentiamo figli amati. In virtù di questa consapevolezza scegliere di essere ‘per’ gli altri genera speranza. Puntiamo, insieme ai giovani, lo sguardo sul bene che esiste e che c’è, sul ‘di più’ di bello e ‘di vita’ per gli altri, senza lasciarci sopraffare da notizie che ci sgretolano. Così possiamo essere testimoni di speranza anche dove questa pare non esistere”.

(Foto SIR/Marco Calvarese)

A tale riguardo c’è una sfida che, secondo il responsabile Snpg, riguarda in particolare il mondo degli adulti: “ridare coraggio ai ragazzi, dare loro uno spazio di qualità all’interno delle nostre comunità nel quale ‘stare con loro’, costruirlo e viverlo insieme. Non parlo di relazioni intese come un prodotto da consumare, ma di un giardino da coltivare in cui non mi servo dell’altro ma mi metto al suo servizio. I giovani cercano questi spazi, hanno voglia di starci ma hanno bisogno di adulti motivati e liberi, capaci di aiutarli in questa opera”.

Anticipo di simpatia. E ciò vale anche per quei giovani cosiddetti ‘lontani’ ai quali la Chiesa, afferma don Pincerato, “deve poter raccontare il suo tesoro più grande, Cristo. La giovinezza non è altro dalla Chiesa, nelle nostre comunità ci sono i giovani, nel Regno ci sono i giovani. La Chiesa, attraverso l’annuncio di Cristo, può proporre loro la possibilità di una vita bella, piena e responsabile. La gioventù diventa ‘un anticipo di simpatia’, un tempo privilegiato nel quale costruire legami forti, per assumere responsabilità sfidanti, con l’aiuto di adulti che hanno fatto le loro scelte. La Chiesa diventa così un luogo da abitare e non distante”.

(Foto Siciliani – Gennari/SIR)

Ma c’è un’altra dimensione nella quale si costruisce e rafforza l’incontro con Cristo, conclude don Pincerato, “è la preghiera. È un tempo da gustare. Una volta assaporato non lo si lascia più. A testimoniarlo sono gli stessi giovani che, dopo la Gmg di Lisbona, hanno rivelato che le cose più apprezzate di quei giorni erano state l’adorazione del sabato sera, la Via Crucis del venerdì e le confessioni. Sta a noi educatori rilanciare queste proposte ma – ammette il responsabile del Snpg – a volte siamo proprio noi educatori, noi adulti i più timorosi. Abbiamo paura di proporre qualcosa di grande ma forse questo è il tempo di osare”.

Attacco su Kiev nel giorno dell’Holodomor. “Esplosioni per tutta la notte e non è un caso”

Sab, 25/11/2023 - 12:45

“Siamo sopravvissuti. Abbiamo vissuto la notte con più attacchi degli ultimi tre mesi. L’allarme che ci avverte del pericolo, è cominciato a suonare questa notte alle 2 ed è continuato ininterrottamente per 6 ore fino a questa mattina alle 8”. Comincia così da Kyiv, il racconto di  don Taras Zheplinskyi, del Dipartimento di comunicazione della Chiesa greco-cattolica ucraina. Le forze armate ucraine fanno sapere che l’aeronautica militare ucraina ha abbattuto 74 dei 75 droni kamikaze iraniani lanciati dalle forze armate russe sulla capitale Kiev . I media internazionali parlano di decine di edifici residenziali e di oltre 100 strutture della capitale  rimaste senza elettricità. “I nostri militari sono riusciti a distruggere i droni e proteggere il cielo sopra la città di Kiev”, racconta il sacerdote. “Abbiamo sentito esplosioni per tutta la notte. Per fortuna non è rimasta uccisa nessuna persona, però 5 sono stati feriti. La più giovane è una ragazza di 11 anni. La più anziana, una donna di 75 anni”.

Ma “non è un caso”. L’attacco – sottolinea don Taras – è avvenuto proprio nella notte in cui in Ucraina, e soprattutto a Kiev, si commemorano 90 anni dell’Holodomor, il genocidio degli ucraini che per volontà del regime staliniano avvenne tra il 1932 e il 1933 provocando la morte per fame di 10 milioni di ucraini. “Il mondo sa bene cosa successe e sa che l’Ucraina oggi sta commemorando questa ferita”. Don Taras racconta che questa mattina a Kyiv si è già svolta una preghiera comune alla Lavra Kyiv-Pecersk, alla presenza dei leader spirituali delle chiese, delle religioni e delle organizzazioni religiose con la partecipazione delle autorità civili.  Era presente anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

E’ una giornata importante. Di memoria, dolore e unità. Nel corso della giornata, si svolgeranno in tutto il Paese preghiere e commemorazioni in ricordo della vittime di questo genocidio. L’attacco di questa notte, dice il sacerdote, dimostra che “gli eredi di quel regime totalitario di Stalin continuano a fare lo stesso. 90 anni fa i russi hanno voluto con l’Holodomor eliminare l’identità stessa del popolo ucraino. Lo stesso sta avvenendo oggi con l’aggressione russa”. “Gli eredi di Stalin nella persona di Putin e delle altre autorità della Federazione russa vogliono anche oggi impedire agli ucraini di essere liberi, di essere se stessi”.

Anche il sindaco di Kiev Vitaliy Klitschko, riferisce Ukrinform, ha sottolineato la coincidenza tra il 90° anniversario dell’Holodomor e il massiccio attacco di questa notte. 90 anni il popolo ucraino morì per fame. Oggi l’attacco avviene con missili e droni che lasciano le città senza riscaldamento ed elettricità in inverno, commettendo con metodi diversi ma ancora una volta un genocidio contro il popolo ucraino. “Faremo di tutto affinché i nostri figli e nipoti ricordino ciò che la Russia sta facendo oggi”, ha sottolineato Klitschko.

I vescovi cattolici latini si sono dati appuntamento al Seminario Teologico Superiore S. Joseph a Bryukhovychy, dove si è svolta la sessione plenaria della Conferenza episcopale dell’Ucraina . E’ stata celebrata una  Santa Messa in memoria di coloro che sono morti di fame durante l’Holodomor, presieduta dall’arcivescovo metropolita di Lviv Mechyslav Mokshytskyi. Nel celebrare questo anniversario – scrivono i vescovi in un messaggio alla Nazione – ricordiamo tutti “coloro che furono umiliati e torturati. Non conosciamo il numero esatto delle vittime, ma Dio le conosce ciascuna per nome…Preghiamo per coloro che soffrono la fame oggi: per i nostri difensori in prima linea, per gli sfollati interni, per le persone che si sono trovate in una situazione difficile a causa della guerra”. Anche il Sinodo dei vescovi della Chiesa greco-cattolica in Ucraina ha rivolto alla popolazione un messaggio: “L’impero non è riuscito a uccidere l’Ucraina 90 anni fa. Ma i discendenti degli assassini, spinti dal male, dall’invidia e dall’odio, hanno deciso di portare a termine ciò che i loro predecessori non erano riusciti a fare”. “90 anni fa l’Ucraina non è morta”, concludono i vescovi. “La libertà è germogliata dai semi nascosti nei palmi delle mani dei nostri fratelli e sorelle. Nessun male potrà distruggere questo raccolto. È difeso dal nostro popolo. È difeso dall’umanità”.

In sala “Napoleon” e “Fisherman’s Friends”, su Prime Video è già Natale con “Elf Me”

Sab, 25/11/2023 - 10:01

La vocazione al racconto epico di Ridley Scott torna a farsi sentire. Il regista di “Alien” (1979), “Blade Runner” (1982) e “Il gladiatore” (2000) firma un kolossal su Bonaparte targato Apple Studios. È “Napoleon”, sontuoso dramma bellico-esistenziale interpretato da Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby. Un’ottima confezione formale, per un racconto un po’ claudicante. In sala anche la commedia britannica “Fisherman’s Friends” diretta da Chris Foggin sul valore delle tradizioni tra pesca e canti popolari. La forza di una storia vera, dalla traiettoria narrativa lineare, giocata su buoni sentimenti e occasioni di riscatto. Su Prime Video si accendono già le luci di Natale con la commedia frizzante “Elf Me” diretta dal duo YouNuts!, una produzione Lucky Red, Goon Films e Amazon Mgm Studios. Lillo Petrolo mattatore nei panni di un Elfo inventore finito per sbaglio in un paesino del Centro Italia. Atmosfere zuccherose, ironia pungente e clima familiare per un film che richiama apertamente i cult anni ’80 come “E.T.”, “I Goonies”, “Gremlins” e “Mamma, ho perso l’aereo”. Il punto Cnvf-Sir.

“Napoleon” (Cinema, 23.11)
Il regista britannico Ridley Scott ci ha abituato a racconti sempre grintosi e innovativi, con un spiegamento di imponenti effetti scenici. Tra i suoi primi titoli tre cult della Nuova Hollywood: “Alien” (1979), “Blade Runner” (1982) e “Thelma & Louise” (1991). Dagli anni Duemila in poi l’autore si è direzionato verso kolossal epici sulle rotte della Storia: “Il gladiatore” (2000), “Le crociate. Kingdom of Heaven” (2005) e il recente “The Last Duel” (2021). Con il suo ultimo film “Napoleon”, produzione ad alto budget targata Apple Studios, si confronta con la figura di Napoleone Bonaparte, tra mito politico-bellico e fragilità esistenziali. A impersonarlo in maniera maiuscola Joaquin Phoenix; accanto a lui l’elegante Vanessa Kirby nel ruolo dell’amata Giuseppina di Beauharnais, la prima moglie.

La storia. Francia, 1789. Al tempo della Rivoluzione francese l’ufficiale Napoleone Bonaparte compie una decisa ascesa politica sino al grado di generale. Seguono le grandi battaglie che lo portano fino alle soglie dell’Africa, per tornare poi con un mandato forte a Parigi dove ben presto si trova a sedere sul trono. Tra una battaglia e l’altra sposa Giuseppina di Beauharnais. Bonaparte viene adulato da molti, ma aumentano anche le file dei suoi detrattori. Se ne seguono dunque le gesta sul campo, le scelte di politica interna e internazionale, sino alla decisione di marciare alla conquista della Russia, che gli costerà corona e regno…

Napoleon (JOAQUIN PHOENIX, center) looks onto the battlefield in Apple Original Films and Columbia Pictures theatrical release of NAPOLEON. Photo by: Aidan Monaghan

La sceneggiatura di “Napoleon” è firmata da David Scarpa – già collaboratore di Ridley Scott per “Tutti i soldi del mondo” (2017) nonché per l’imminente “Gladiatore 2” – e si concentra su un racconto biografico giocato tra volto pubblico di Bonaparte e insicurezze private, nelle stanze di palazzo. L’opera, infatti, ritrae il celebre generale come un uomo determinato, granitico, ma anche ammalato di egocentrismo e con sussulti di vanità. Un’istantanea che ne smitizza l’aura di perfezione e che ci riconsegna un profilo altalenante, tra picchi di grandezza e miserie interiori, vertigini solipsistiche. Altro grande tema è l’amore per la prima moglie Giuseppina, allontanata dalla vita aurea di palazzo perché incapace di donargli un erede. La cercherà sempre, anche in punto di morte. Il rapporto tra i due viene descritto a corrente alternata, tra scrosci di gelosia, passioni, infantilismi e una dipendenza quasi simbiotica.

Joaquin Phoenix stars as Napoleon Bonaparte and Vanessa Kirby stars as Empress Josephine in Apple Original Films and Columbia Pictures theatrical release of NAPOLEON. Photo by: Aidan Monaghan

Se il film non gira perfettamente da un punto di vista storico-narrativo, come pure nella caratterizzazione dei personaggi – che i due protagonisti Phoenix e Kirby portano a casa con indubbio talento –, a conquistare è di certo la regia di Scott, quella sua capacità di orchestrare grandi scene di azione: magnifici quadri visivi esaltati dall’ottima fotografia di Dariusz Wolski e dalle musiche di Martin Phipps. Il “Napoleon” di Ridley Scott affascina e suggestiona lo sguardo, ma rischia di annoiare un po’ l’attenzione. Bene, dunque, ma non benissimo. Complesso, problematico, per dibattiti.

“Fisherman’s Friends” (23.11)
Arriva finalmente in Italia con Ahora! Film “Fisherman’s Friends”, commedia britannica diretta da Chris Foggin. Il film è uscito già da tempo nel Regno Unito, dove è stato messo in produzione un sequel. Alla base c’è una storia vera, quella di un gruppo di pescatori della Cornovaglia che tra un’uscita in barca e una pinta al pub scoprono di avere uno straordinario talento musicale. Una dote che li porta a finire sotto contratto con un’importante etichetta musicale.

La storia. Londra, Danny lavora in ambito discografico e conduce una vita frenetica, senza orari e legami. Seguendo gli amici per un addio al celibato in Cornovaglia si imbatte in un gruppo di pescatori locali. Scopre che dietro l’aspetto ruvido, logorato dalla vita di mare, si nasconde un talento musicale folk fuori dal comune. L’uomo inizia a pensare di offrire loro un’occasione; inoltre, avverte sentimenti crescenti per Alwyn, la proprietaria del B&B dove soggiorna…

(Fisherman’s Friends – still)

“Fisherman’s Friends” corre sul binario consolidato della commedia britannica, che accosta il sorriso a temi sociali sul modello di “Calendar Girls” (2003) e “We Want Sex” (2010) di Nigel Cole come pure del “Ritratto del duca” (2020) di Roger Michell. “Fisherman’s Friends” ci parla di tradizioni e mestieri senza tempo, di ballate folk, ma anche di buoni sentimenti e occasioni di riscatto per cambiare verso al proprio vivere deragliato. Punto di osservazione è quello del discografico Danny, interpretato con efficacia da Daniel Mays – nel cast anche i validi James Purefoy, Dave Johns, David Hayman e Tuppence Middleton –, che in Cornovaglia riscopre se stesso e il senso della vita, al seguito di una comunità di pescatori canterini. Un feel-good movie che regala sorrisi e tenerezza, anche se qua e là la struttura narrativa non risulta sempre solida o priva di sbavature. Consigliabile, semplice, per dibattiti.

“Elf Me” (Prime Video, 23.11)
Un mix di zuccherose atmosfere e risate ad altezza di bambino. È “Elf Me”, la commedia familiare su cui scommette Prime Video in vista del Natale. Diretto dal duo YouNuts! – Niccolò Celaia e Antonio Usbergo – “Elf Me” accosta alcuni topos natalizi a battute simpaticamente irriverenti e ad atmosfere nostalgiche tipiche di film cult anni ’80-’90 come “E.T.”, “I Goonies”, “Gremlins” e “Mamma, ho perso l’aereo”. Protagonista è un esilarante Lillo Petrolo, ben affiancato dai sempre bravi Anna Foglietta, Claudio Santamaria, Caterina Guzzanti e Federico Ielapi. Una produzione Lucky Red, Goon Films e Amazon Mgm Studios.

La storia. Al Polo Nord, nella fabbrica di giocattoli di Babbo Natale, c’è un elfo costruttore indisciplinato: Trip. A pochi giorni dal Natale, finisce per errore in una cittadina montana del Centro Italia, esattamente nel soggiorno del preadolescente Elia, figlio di una giocattolaia vecchio stampo, Ivana. Trip userà la sua energia magica per incoraggiare Elia a superare diversi ostacoli, chiedendo a sua volta al ragazzo un piccolo aiuto per tornare a casa…

(Copyright Prime Video)

“Ci siamo lasciati ispirare dai grandi classici del cinema internazionale che amiamo e con i quali siamo cresciuti. Soprattutto da un maestro della narrazione come Spielberg, capace di rendere ogni racconto credibile e avvincente. È proprio da qui che è partita la nostra sfida: raccontare una commedia fantasy e natalizia utilizzando però un linguaggio vero e credibile”. I due registi disegnano con chiarezza il perimetro della loro commedia, composta tra sberleffi, clima delle feste, nostalgia e un’efficace presenza di effetti speciali, grazie allo sguardo esperto di Gabriele Mainetti. “Elf Me” è un racconto a misura di preadolescente, adattato in generale alle famiglie, che mette in campo sogni, desideri, primi amori, ma anche temi del nostro quotidiano, come la lontananza della figura paterna e il desiderio di una famiglia unita, presente. Un film colorato, festoso, dalla simpatia frizzante e giocosa. Consigliabile, semplice, per dibattiti.

Giovanni Paolo I, pubblicata edizione critica de “Illustrissimi”. Parolin: “auspico che se ne nutrano le nuove generazioni”

Sab, 25/11/2023 - 09:47

“Illustrissimi. Lettere immaginarie” è il titolo dell’opera che raccoglie quaranta lettere immaginarie indirizzate a personaggi e autori di ogni epoca edita da Luciani nel 1976 e ridata alle stampe con l’imprimatur papale, dopo una sua personale revisione e correzione, nel corso del suo pontificato pochi giorni prima della morte. Missive indirizzate a Goethe, Penelope, Goldoni, Petrarca, Trilussa, Pinocchio, Manzoni, solo per citarne alcuni. L’edizione critica del testo, pubblicato dalle edizioni Messaggero Padova con la prefazione del cardinale José Tolentino de Mendonça, è stata presentata questa mattina in occasione del convegno “Il Magistero di Giovanni Paolo I alla luce della sua biblioteca” promosso dalla Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I alla Pontificia Università Gregoriana. Si tratta di un “lavoro di ricostituzione, tutela e valorizzazione del fondo librario appartenuto al beato Giovanni Paolo I per approfondire il suo magistero alla luce della ritrovata sua ricca biblioteca personale” ha detto il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, presidente della Fondazione.

(Foto Siciliani/Gennari-SIR)

Una giornata di studio per “prestare attenzione alla sua voce, a ciò che egli vuole dirci, entrare in colloquio con lui” ha proseguito Parolin soffermandosi sull’attualità degli insegnamenti del beato Luciani. Ha infatti rimarcato che gli insegnamenti del Papa dei 34 giorni “molto dicono ancora nel presente, e approfondire il suo magistero indica un cammino che è iniziato ma che continua, che progredisce e va avanti. Un cammino di riscoperta che si allarga a ulteriori prospettive e sviluppi”. Quando Papa Luciani scriveva le lettere Parolin era “un giovane seminarista” e ha ricordato che attendeva “con interesse” la pubblicazione dei testi. L’auspicio del porporato è che di “Illustrissimi” “se ne nutrano le nuove generazioni, che non resti in biblioteca ma che possa essere letto dai giovani che qui troverebbero grande nutrimento. è scritto in modo semplice e accattivante ed è molto contemporaneo”. La Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I è stata istituita da Papa Francesco il 17 febbraio 2020 al fine di preservare il vastissimo patrimonio degli scritti di Papa Luciani. Tra le finalità, oltre a quella di tutelare e conservare il patrimonio culturale e religioso lasciato dal beato, c’è quella di promuovere iniziative quali convegni, incontri, seminari, sessioni di studio. A tal proposito è stato ricordato che già lo scorso anno, alla vigilia della beatificazione di Giovanni Paolo I avvenuta in piazza San Pietro il 4 settembre 2022, la Fondazione aveva promosso, sempre alla Pontificia Università Gregoriana, una giornata di studi dedicata al magistero di Luciani alla luce delle carte d’archivio. Da questa collaborazione tra Fondazione e Pontificia Università è nato un protocollo d’intesa firmato da Parolin e dal rettore della Pontificia Università Gregoriana, padre Mark A. Lewis. Quest’ultimo ha sottolineato che tra le due realtà “c’è un legame profondo e radicato che vogliamo coltivare e valorizzare”. Il protocollo, che ha la durata di tre anni, rinnovabile per un ulteriore triennio, si prefigge di “sviluppare e realizzare programmi di ricerca utili per gli studenti” ha detto ancora il rettore che segue “con la preghiera il lavoro diplomatico per la pace” portato avanti dal segretario di Stato. Il documento, ha spiegato Stefania Falasca, postulatrice della causa di canonizzazione, vice presidente della Fondazione e vaticanista di Avvenire, “è stato considerato una sorta di testamento spirituale, culturale e umana di Giovanni Paolo I. È un testo che egli stesso ha voluto dare di nuovo alle stampe nel corso del suo pontificato, qualche giorno prima della sua morte. Acquista così un significato che riassume un po’ il suo magistero ed è un emblema del legame con il mondo. Sono lettere immaginarie che lui ha destinato a poeti, scrittori, grandi della storia, persino una lettera a un orso concludendo con una lettera a Gesù”. Si tratta quindi di un lavoro “originalissimo” che “arriva a tutti”. La causa di canonizzazione, che Falasca segue dal 2004, quando fu incaricata della stesura della “positio” ha tra l’altro avuto il “grande merito di aver riportato alla luce le fonti in modo che si possa davvero parlare di Luciani il quale aveva un bagaglio culturale vastissimo che riusciva a rendere con facilità”. Un “insegnamento profondo” che Falasca porta nella sua professione confessando con molta commozione che per lei Luciani “è stato una guida in tutto. Non saprei da dove iniziare se dovessi raccontare in cosa mi ha arricchito”. Durante il convegno è stato proiettato il video “La biblioteca ritrovata”, un viaggio alla scoperta della vastissima raccolta di volumi custoditi dalla Fondazione, e per Ottavio Bucarelli, direttore del dipartimento dei beni culturali della Chiesa, la biblioteca del beato Luciani “è la custode, la testimone della santità di Giovanni Paolo I. attraverso le sue carte studiamo e capiamo il suo magister a 360°”. Don Diego Sartorelli, direttore dell’archivio storico e della biblioteca diocesana Benedetto XVI – Patriarcato di Venezia, ha riassunto la storia della biblioteca di Luciani che copre tutta la sua vita. Si tratta soprattutto di manuali di formazione, ma anche letteratura, volumi che riguardavano i settori del cinema e dell’arte. “La catalogazione della biblioteca del beato Giovanni Paolo I – ha detto – consente di conoscere sia gli interessi del futuro pontefice sia i percorsi di studio da presbitero e da vescovo sia i legami di stima e affetto con numerosi presbiteri e laici. Assieme all’archivio essa occupa un posto importante nella delineazione del pensiero del beato. La catalogazione ha riguardato migliaia di volumi ma la lista sarà sempre aggiornata”.

Kaladich (Fidae): “Gli studenti meritano una scuola competente in umanità”

Sab, 25/11/2023 - 09:45

“In un contesto sociale e culturale nel quale potremmo vederci rassegnati di fronte alla violenza e alla guerra, la scuola con il suo amore al sapere, può incantare, nel senso che può provocare nei suoi allievi e in chi la frequenta il desiderio di un ‘cambiamento di rotta’”. È uno dei passaggi chiave della relazione con cui Virginia Kaladic ha aperto la 78° Assemblea Nazionale della Fidae, svoltasi a Roma in questi giorni presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma.
Parole profetiche, che fanno riflettere, soprattutto in questi giorni, nei quali la violenza, è tornata a colpire mietendo la vita di un’altra donna, una ragazza, colpevole, forse, anche di aver raggiunto un traguardo importante, quale quello della laurea, prima del suo ragazzo trasformatosi poi nel suo carnefice. Il triste femminicidio di Giulia Cecchettin, anche se la la Fidae si occupa di scuola e non di università, è stato comunque uno dei temi affrontati nel corso dell’Assemblea. In particolare corso di due workshop il primo dei quali, gestito dal professor Alessandro Ricci, psicologo e psicoterapeuta presso la Pontificia Università Salesiana dedicato proprio al tema dell’educazione all’affettività. “Il tema dell’identità di genere – ha detto Ricci nel suo intervento – sia maschile che femminile, non è né scissa né scindibile dall’educazione globale della persona e dall’educazione emotiva e affettiva. Educare all’affettività implica educare alla comunicazione e alla condivisione, in un clima di rispetto, dove l’altro non è un oggetto da sopraffare o da collezionare, ma una persona con cui saper entrare in una relazione empatica”. Un concetto importante, che rimanda alla necessità di una comunità educativa che non si limiti alla scuola o alla famiglia, ma che sia capace di coinvolgere l’intera società, “le cui indicazioni educative – ha proseguito Ricci – sono spesso discordanti se non addirittura in opposizione l’una con l’altra e questo rende difficile l’educazione in generale”.

Nel secondo seminario, quello guidato dalla dottoressa Laura Cozzolino, anche psicologa e psicoterapeuta, la riflessione si è concentrata sul ruolo del docente, chiamato ad essere sempre più autorevole e assertivo nei dei ragazzi. Un ruolo di estrema importanza proprio perché di supporto emotivo, che i docenti sono chiamati ad interpretare in relazione ai ragazzi e alle ragazze loro affidati, al fine di alimentare la speciale e unica relazione che nasce tra insegnate e studente. Una relazione tale che permetta ai ragazzi di fidarsi del proprio insegnante, di dare credito alle parole dell’educatore. “Solo in questo modo – ha sottolineato la Cozzolino – si potrà ottenere quella autorevolezza che pone limiti ragionevoli dando sostanza e certezza ai famosi “no” che se accolti tanto aiutano a crescere. I no della vita “contenitivi, che permettono di costruire un recinto all’interno del quale si favorisce la comunicazione”. Dai numerosi interventi nel corso del seminario, è emerso che gli adolescenti di oggi vivono una fragilità che “se da una parte – ha spiegato la Cozzolino – può “essere intesa come debolezza, dall’altra, se vissuta come punto di elaborazione di se stessi, può diventare un punto di forza”. In una società egoistica, performante e individualistica è necessario quindi  “mettere in campo la figura della comunità, spiegando ai ragazzi che il fallimento non è la fine di tutto, che fallire non mette in discussione il valore della persona e che  l’agonismo del primato a tutti i costi va sostituito con quello del miglioramento personale”. Un cambio di rotta per non vivere più l’impegno di un presunto “merito” con le caratteristiche classiste, ma il desiderio di superare se stessi e scoprire i talenti nascosti in ognuno di noi. Desiderio, sì, altra parola chiave, essenziale per “contrastare la la noia e la assenza di gioia che molto spesso colpisce i più giovani” vittime della “frustrazione” di non essere capaci di far fronte alle inevitabili difficoltà della vita. Difficoltà che troppo spesso vengono sottratte all’esperienza dei più giovani da genitori ansiosi di accontentarli in tutto. Un atteggiamento questo che, di fronte ai famosi “no” della vita e ai limiti di una sconfitta, di un brutto voto o di un rifiuto amoroso, può generare – in soggetti predisposti – risposte di violenza.
Riguardo alla questione del “merito” poi, la Presidente Kaladich ha voluto dare una declinazione “diversa” da quella più diffusa: “Ci sembra che la Scuola e in modo particolare quella Cattolica – detto la Kaladich – non debba badare solo a riconoscere il successo formativo di chi matura competenze adeguate, ma ancor prima debba essere una istituzione che, in quanto dedicata alla persona umana, chiede di essere meritabile. Gli studenti – ha concluso – meritano quindi educatori d’eccellenza, competenti nelle proprie discipline di insegnamento e in umanità”.

I Beati coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, chiamati da Dio a “essere per sempre”

Sab, 25/11/2023 - 09:44

Fare memoria del 25 novembre, felice giorno in cui si unirono nel sacramento del matrimonio i Beati Coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, – prima coppia nella storia della Chiesa ad essere innalzata agli onori degli altari da San Giovanni Paolo II il 21 ottobre 2001 – , significa legare, in questa storia d’amore, l’agire di Dio alla promessa del Suo esserci. Una storia fondata sul “per sempre”, è eterna, capace di aprire, anche per noi, la possibilità di cammini congiunti e non paralleli; così da comprendere che non si è soltanto voluti ma anche desiderati da Dio, fin dall’eternità a una vita in pienezza.

Da qui nasce la profonda amicizia con questi nostri sposi e compagni di viaggio, ma anche il commosso ringraziamento per una storia che ha a che fare con quella di ciascuno di noi (la mia compresa), tutti chiamati alla ricerca della felicità.

Il sacramento del matrimonio vissuto dai Beati Coniugi attira l’attenzione, fa notizia. Essi lo hanno vissuto dall’interno, scavando a fondo nel dono del sacramento trovando in quella miniera di bellezza la forza della grazia. Un tesoro utile e indispensabile per rispondere alle esigenze quotidiane del matrimonio. Una testimonianza cristallina che a tutti ricorda che “amarsi, e per sempre, è possibile! Una grazia vissuta fino in fondo, la cui fonte resta il sacramento stesso! Una riserva  inesauribile e formidabile dello Spirito Santo, da cui attingere continuamente, ed è nostra. Questa è la bellezza del matrimonio! Una bellezza che stupisce, una verità che abbraccia, un bene che appassiona. E a chi si domanda: come è Dio?, forse si può rispondere indicando con ragionevole certezza ai due santi coniugi, alla loro felicità quotidiana, malgrado problemi, prove e dolori. Due persone che hanno scelto che nel matrimonio cristiano, sostenuti dalla Provvidenza, la via dello “stare insieme”, lottare insieme, andando avanti ogni giorno, mettendo al mondo figli, nutrendosi sempre della Parola di Dio e dell’Eucaristia, cibo quotidiano in cui si è interiormente plasmata e continuamente vivificata la loro alleanza coniugale.

Ecco Dio è così! Il loro matrimonio è stato davvero una predica silenziosa, di tutti i giorni, una cronaca vissuta; essi pur restando con i piedi ben piantati nelle loro numerose e svariate attività familiari, sociali ed ecclesiali della vita, tuttavia, hanno avuto la somma cura di ammantare ogni cosa con i valori soprannaturali del sacramento del matrimonio: l’umiltà, l’ascolto, l’armonia, il dialogo, la buona educazione, la generosità, il sacrificio, la comprensione, il silenzio, la rettitudine, il perdono, la solidarietà, l’accoglienza, la cura del creato, la preghiera in comune…Valori che hanno conosciuto e ai quali si sono educati ogni giorno, ecco cosa significa essere e “vivere in uno”, non divisi, divenendo pienamente a immagine e somiglianza di Dio. Lo Spirito Santo, giorno dopo giorno, ha formato Gesù in loro rendendoli sacramento del suo amore totale, unico, fedele e fecondo. Uniti dunque, per la realizzazione di un disegno di carità, progetto originario e fondante di Dio nella famiglia. I Beati Coniugi avevano la consapevolezza che l’eternità era il “luogo” da cui venivano e verso cui erano diretti, ma anche l’impegno a non pensarsi finiti. In questo modo sono riusciti a dare il meglio di loro nella vita dentro il tempo, educando i figli e preparandoli a camminare speditamente nel sentiero della vita, sostenuti dalla certezza dell’essere stati voluti e desiderati profondamente sia da Dio che dai loro genitori. E la prova, a garanzia di tutto ciò, risiede nella vita di ciascuno di loro, quattro figli: il primo Filippo nel 1906 (in seguito diventerà Don Tarcisio), la seconda Stefania nel 1908 (divenuta poi Suor Cecilia), il terzo Cesare nel 1909 (religioso anche lui, con il nome di P. Paolino) e la quarta Enrichetta il 6 aprile del 1914, dono ri-donato, oggi Venerabile!

*OFMCap Postulatore delle Cause dei Santi

Violenza sulle donne. Tutta Italia dice “no” con manifestazioni ed eventi

Sab, 25/11/2023 - 09:35

“Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”. Così Elena Cecchettin ricorda la sorella Giulia, uccisa dall’ex fidanzato l’11 novembre scorso. La frase, che è diventata simbolo di ribellione contro l’omicidio brutale della ragazza, è tratta dalla poesia di Cristina Torre Careces, attivista peruviana.
Giulia è la 106esima vittima per femminicidio quest’anno (neanche 24 ore dopo, il numero è già salito a 107 con la morte di Rita Talamelli, strangolata dal marito); Giulia aveva 22 anni, frequentava la facoltà di Ingegneria biomedica a Padova e il 16 novembre scorso avrebbe dovuto presentare la sua tesi di laurea. A pochi giorni dalla Giornata contro la Violenza sulle donne, questa tragedia sconvolge l’Italia: dal giorno del ritrovamento del corpo di Giulia infatti le chiamate al 1522, numero da contattare nei casi di violenza sulle donne, sono raddoppiate dalle 200 alle 400 giornaliere (se si considerano anche quelle fatte su chat e App si arriva a picchi di 450/500 giornaliere); a chiamare non solo le vittime stesse ma soprattutto genitori e parenti preoccupati per le loro figlie. Arianna Gentili, responsabile della help line dice: “Di solito questo boom di telefonate lo tocchiamo tra il 24/25 e 26 novembre per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Quest’anno l’eco mediatico del femminicidio di Giulia ha fatto anticipare il picco. E questo perché in tante si sono identificate nella sua situazione. Giulia era una ragazza normale e come lei tante ragazze hanno lasciato il fidanzato e si ritrovano nella sua situazione”.

Ma non si può continuare a tacere: “Fate rumore” dice Elena, “basta con i minuti di silenzio”. E la sua rabbia e il suo dolore risuonano nei corridoi delle scuole, nei cortili e nelle aule dove migliaia di studenti si sono ritrovati: hanno urlato, fischiato, battuto le mani su banchi, scosso chiavi e usato tutto quello che potevamo per fare il più baccano possibile. Con loro anche le università insorgono, dalla Sapienza di Roma alla Bicocca di Milano, dove verranno premiate due tesi di laurea a tema violenza sulle donne. All’Istituto Secondario di Secondo Grado Vittorini di Milano verranno organizzati una serie di incontri nelle classi promosse da Fare X Bene onlus con esperti del comitato scientifico di Fare X Bene e con l’Ambasciatrice Valentina Pitzalis, sopravvissuta a un tentativo di femminicidio da parte del marito.

Tante altre le iniziative in programma in altre parti d’Itlia: il 25 novembre a Roma e a Messina Non una di meno, movimento femminista e transfemminista che combatte dal 2016 ogni forma di violenza di genere, ha organizzato due manifestazioni per la Giornata contro la Violenza sulle Donne in cui sarà presente all’inizio del corteo uno spazio per i centri antiviolenza: “Da un lato è un fatto simbolico e politico, perché sono in prima fila per combattere la violenza e offrire alternative concrete. Dall’altro, è importante perché scendono in piazza le donne che hanno subito violenza garantiamo uno spezzone in cui possano sentirsi sicure”. Molte altre città hanno organizzato cortei e flash mob nei giorni scorsi, tra cui Ravenna, Bologna, Milano, Padova, Bari. In diverse città inoltre sono nati nuovi Punti Viola, un’iniziativa portata avanti da Donnexstrada, associazione non profit che si occupa di violenza contro le donne e sicurezza in strada. Il Punto Viola è un qualsiasi esercizio commerciale (bar, farmacia) che riesca ad offrirsi come luogo in cui una persona che ha paura di essere vittima di violenza di genere si rivolga per chiedere aiuto. Al momento in Italia sono presenti 150 Punti Viola. Si tingono di viola anche gli ospedali: Fondazione Onda grazie agli ospedali Bollini Rosa e i centri antiviolenza dedicherà la settimana dal 22 novembre al 28 novembre a coloro che sono vittime di violenza e incoraggiarle a rompere il silenzio, fornendo strumenti concreti e indirizzi a cui rivolgersi per chiedere aiuto.

Anche il mondo online partecipa: un’asta sul web sarà realizzata per sostenere D.i.Re (Rete nazionale antiviolenza) dal 25 novembre al 9 dicembre sul sito dell’organizzazione CharityStars, durante la quale saranno venduti alcuni cimeli sportivi di Federica Pellegrini e alcune stampe in Limited Edition realizzate dall’illustratrice Pennika ed autografate dalla campionessa olimpica. La piattaforma di streaming europeo arte.it presenta una serie di contenuti, tra reportage e serie, sulle diverse forme di abusi subìti dalle donne; tra questi spicca la serie tv H24 che racconta gli abusi nella forma di un breve monologo.

Nonostante si cerchi di non crederci, gli abusi contro le donne non sono un evento eccezionale. Le statistiche lo confermano: secondo uno studio dell’ISTAT, in Italia il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Inoltre la violenza assume connotati diversi: non è solo violenza fisica ma anche psicologica o economica.

Martina Anile,
stagista

 

Orfani di femminicidio. Delmonte: “Non siano più invisibili”. Per fermare la violenza “necessario un cambiamento culturale”

Sab, 25/11/2023 - 09:21

Quando un uomo usa violenza e poi uccide la propria moglie, quest’ultima non è l’unica vittima dell’efferato delitto. Spesso ci sono figli, i cosiddetti orfani speciali, che vivono sulla loro pelle il dramma della morte della madre, il dolore di sapere che è stato il padre ad averli privati di lei, la violenza assistita che hanno subito negli anni e le difficoltà della vita quotidiana perché all’improvviso si trovano senza il loro punto di riferimento. Abbiamo raccolto la testimonianza di Giuseppe Delmonte, la cui mamma fu uccisa il 26 luglio 1997, dal padre Salvatore, in provincia di Varese.

(Foto: Giuseppe Delmonte)

“Mia madre, Olga Granà, ha vissuto con quest’uomo, che si è rivelato mostro già il giorno dopo il matrimonio, 24 anni di inferno dove lui ha manifestato tutta la sua malvagità prima attraverso la violenza psicologica, poi è subentrata quella fisica fino all’epilogo finale. In tutta questa storia ci sono tre figli, io sono l’ultimo, i quali hanno dovuto assistere purtroppo a tutta la sua furia, inizialmente contro mia madre e poi contro di noi, che eravamo a fianco di mamma”, ci racconta Giuseppe. “Crescendo siamo stati noi figli a convincere mia madre a lasciare quest’uomo perché non ne potevamo più. Io avevo 13 anni quando si è separata, ma mia madre sapeva che separandosi andava incontro alla morte. Noi, invece, non pensavamo che mio padre potesse arrivare fino a così tanto e le dicevamo che l’avremmo difesa noi essendo ormai grandi, mentre lui si sarebbe rifatto una vita”. Dalla separazione “sono passati altri 5 anni di stalking pressante, con pedinamenti, l’aspettava ovunque, dal supermercato al posto di lavoro, fin quando, dopo 5 anni scortata dai propri figli, l’unica volta che mia madre era da sola l’ha uccisa, facendole un tranello. Era la prima volta, dopo 5 anni, che il giudice aveva imposto a mio padre di pagare l’assegno di mantenimento, con vaglia postale che doveva riscuotere mia madre. Noi eravamo andati via dalla casa di famiglia che era stata tenuta da mio padre e il giudice aveva stabilito che lui avrebbe dovuto versare un vaglia mensile. Mia madre lavorava tutta la settimana, mio padre sapeva che poteva cambiarlo solo il sabato mattina e così l’ha aspettata davanti alla posta. Quel giorno, il 26 luglio 1997, mia madre andò da sola e si trovò lui armato con un’ascia: la colpì con 7 colpi di ascia. Quando mia madre fu uccisa aveva 51 anni. Io avevo 19 anni ed ero l’unico ad abitare ancora con mamma. Mia sorella si era sposata 3 anni prima, mio fratello già abitava da solo.

Dall’uccisione di mia madre ci è crollato un mondo addosso perché siamo stati noi a convincerla a lasciarlo, sommersi dal senso di colpa per non essere riusciti a proteggerla e salvarla”.

Dopo l’omicidio l’uomo è scappato e i figli messi sotto scorta per 4 giorni, finché non è stato catturato. “La sera prima dell’omicidio era andato a far affilare l’ascia da una persona, che dopo la morte di mia madre si è recato dai carabinieri dicendo che era stato lui ad aver affilato l’ascia e che mio padre gli aveva detto che l’indomani avrebbe sterminato la famiglia. Al momento aveva pensato che fosse una battuta anche perché sapeva che mio padre era separato ma sapeva anche che l’ascia gli serviva per spaccare la legna, quindi abitualmente gli affilava l’ascia. Inoltre,

noi eravamo considerati la famiglia del Mulino bianco. Lui era capace di nascondere il suo lato oscuro.

Agli occhi della società avevamo l’auto bella, le vacanze belle. Lui ci portava in giro come trofei, come per dire che i suoi figli erano belli e bravi, educati, studiosi. Lui era l’amico che tutti vorrebbero avere, che si spendeva, che aiutava tutti, mentre in casa faceva violenza psicologica nei nostri confronti: per esempio, comprava i giocattoli ai figli degli altri, ma a noi no. Se qualcuno contraccambiava con un regalo per noi, appena arrivavamo a casa prendeva il giocattolo e ce lo rompeva, perché non dovevamo giocare, non dovevamo ridere, non dovevamo guardarlo negli occhi, ci costringeva a fare la doccia con l’acqua fredda e a non usare il riscaldamento, quindi ci costringeva a dormire con 3 o 4 maglioni, più coperte, con la casa gelida: economicamente stavamo bene, ma era un suo modo di infliggerci torture psicologiche, di controllo ossessivo, compulsivo nei nostri confronti”. Dopo la deposizione del testimone i carabinieri erano convinti che Delmonte fosse scappato per uccidere anche i figli. “Così ci hanno messo sotto protezione con la scorta in 3 posti differenti, per 4 giorni, nei quali non ho visto mio fratello e mia sorella, se non dai carabinieri quando ci convocavano tutti e tre per portare avanti le indagini”.

Non ci sono stati solo dolore e paura. “Il vuoto istituzionale dell’epoca è stato alquanto vergognoso e devastante – denuncia Giuseppe -. Il giorno del funerale, il 30 luglio, sarei dovuto partire per il militare, quel giorno il comandante dei carabinieri ha chiamato il distretto militare di Como dicendo che io non ero in grado di andare, essendo anche sotto scorta. Mi sarei aspettato da uno Stato civile che non l’avrei dovuto fare più: invece, mi hanno detto che non sarei partito il 30 luglio, ma a novembre. Non si sono posti il problema di dove potevo dormire, se potevo pagarmi un affitto, un mutuo, le bollette di casa. A novembre parto per il servizio civile che farò fino a giugno dell’anno dopo, mi hanno abbonato solo gli ultimi due mesi e ho avuto il congedo illimitato, ma dopo che si sono mosse autorità, dal sindaco all’assessore e al comandante dei carabinieri, durante questi 9 mesi di servizio civile. Questo è stato l’aiuto che mi ha dato lo Stato. Lo stesso Stato che non ha saputo difendere mia madre, dopo tutte le denunce che aveva presentato, lo stesso Stato che ha permesso che 3 ragazzi vivessero una situazione di violenza domestica documentata.

Per lo Stato io e i miei fratelli eravamo invisibili”.

Suo padre è stato condannato all’ergastolo? “Sì, ma dopo 5 anni di processi, vivendo con l’ansia di potercelo trovare davanti. Fino all’ultimo grado di giudizio non siamo stati tranquilli. Mio padre in primo grado è stato condannato a 22 anni, perché il presidente della giuria non gli aveva dato l’aggravante della crudeltà, in quanto il medico legale aveva dichiarato che mia madre era morta con il primo colpo di ascia preso da dietro che aveva reciso la carotide, quindi in fin dei conti lei non aveva sofferto. Gli altri colpi erano stati dati in successione ma non erano stati mortali. Fortunatamente abbiamo trovato un Pm a Milano che si è preso a cuore la vicenda e la Corte di assise d’appello di Milano era formata tutta da donne: sta di fatto che il Pm è riuscito a fa ribaltare la sentenza mostrando le fotografie di come era ridotta mia madre dopo i 7 colpi di ascia alla giuria, 3 componenti si sono sentite male vedendole. Dopo 6 ore di camera il verdetto è stato la condanna all’ergastolo. Solo allora noi figli ci siamo detti che eravamo salvi, anche se 5 anni fa lui ha chiesto la grazia al presidente della Repubblica”. In realtà, aggiunge,

“lui è stato condannato all’ergastolo, ma noi siamo stati condannati, nel momento in cui ha ucciso mamma, all’ergastolo del dolore,

è una pena che noi ci porteremo fino alla tomba, che nessuno può alleviare né togliere. Lui ha la fortuna di poter chiedere la grazia per il suo ergastolo, noi no”.

Come ha fatto a ricostruirsi una vita? “Il mio sogno, fin da ragazzino, era fare il chirurgo, tanto che tra i crucci di mia madre era che separandosi non avrebbe potuto mantenermi all’Università e io la rassicuravo che avremmo trovato un modo per pagare l’Università. Perciò, dico che

questi uomini prima di essere assassini sono ladri di sogni,

perché rubano i sogni ai bambini: ti portano via la cosa più importante che un bambino possa avere che è la madre, ma poi ci sono tanti aspetti collaterali. Mio padre mi ha rubato il sogno di diventare chirurgo: un ragazzo di 19 anni a cui succede una tragedia del genere non ha più la testa e la capacità e la voglia di mettersi a fare un percorso lungo 10 anni per diventare chirurgo. Comunque, mi sono rimboccato le maniche, mi sono iscritto a Infermieristica e da vent’anni ormai sono lo strumentista del chirurgo. Sono felicissimo di quello che faccio, è un lavoro che mi edifica molto. Il mio lavoro mi ha salvato, mi sono completamente dedicato al lavoro in modo da esorcizzare tutto quello che mi era successo. Per vent’anni mi sono chiuso in una bolla, ho cambiato casa e amicizie, non ho detto a nessuno la mia storia e quando capitava che qualcuno mi chiedesse dei miei genitori dicevo che erano morti in un incidente stradale. Era talmente grosso il dolore che avrei dovuto affrontare dicendo la verità che non avevo la forza di portare a galla un dolore così lancinante”.

Decisivo è stato andare in psicoterapia: “Lo psicologo ha scavato, mi ha chiesto dei miei genitori e gli ho detto la verità, lui è riuscito a portare a galla i mostri che avevo dentro fino a portarmi a capire l’importanza di andare in carcere a trovare mio padre, dopo più di vent’anni, per capire se si era pentito. Nel tempo mio padre aveva iniziato a scrivermi dicendomi che prima di morire voleva essere perdonato. Mi chiedevo se si fosse pentito, ma non era così: quando l’ho incontrato ho ritrovato la stessa identica persona, narcisista patologico, manipolatore, ha tentato di manipolarmi anche durante il colloquio, volendomi far credere cose che non erano avvenute, peccato che non si è più ritrovato di fronte il tredicenne che aveva lasciato ma un uomo fatto, lì ho chiuso il cerchio con il passato e sono rinato”.

Al tempo stesso, prosegue Giuseppe nel racconto, “mi sono reso conto che nulla era cambiato rispetto ai vent’anni precedenti: ancora oggi una donna muore ogni 3 giorni e gli orfani non sono tutelati. A questo punto mi sono chiesto cosa potessi fare per questa causa e partecipando a un convegno organizzato dalla mamma di una vittima di femminicidio ho capito l’importanza di far conoscere questi drammi e la condizione degli orfani. Non la conosce la popolazione e ancor meno la politica, che è riuscita a fare una legge nel 2018 con decreti attuativi nel 2021 e non sa ancora quanti orfani di femminicidio ci sono nello Stato italiano, non esiste un censimento, hanno stanziato del denaro, ma non sanno di quanto ne occorre per soddisfare i bisogni di questi orfani. È una legge che non viene applicata automaticamente: deve richiedere l’orfano l’applicazione. La politica non è in grado di difendere le donne e i bambini dai mostri, ma dovrebbe almeno occuparsi dell’orfano il giorno dopo la tragedia. L’orfano non può aspettare il terzo grado di giudizio, come chiede la legge. Bisognerebbe anche pensare ai caregiver, di solito i nonni, che si trovano all’improvviso a essere ‘genitori’ di 2 o 3 bambini”. Non avendo fiducia in una soluzione politica efficace, Giuseppe crede “in un cambiamento culturale”: “Vado nelle scuole, parlo ai ragazzi, coinvolgo anche genitori e insegnanti. Trovo che la ricetta basilare sia incontrarsi e parlare. La mia generazione, quella dei cinquantenni, sta facendo danni allucinanti con gli adolescenti, perché non insegnano che nella vita possano ricevere un no o vivere una frustrazione, facendo credere che nella vita tutto è dovuto, così la prima volta che si trovano di fronte a un problema reagiscono in modo spropositato. Purtroppo il caso di Giulia e di Filippo è una conferma di questo. C’è tutto un lavoro dal punto di vista culturale da realizzare, facendo cadere certi stereotipi, capire l’importanza della parità di genere e del rispetto dell’altra persona, portare l’educazione affettiva nelle scuole, combattere l’indifferenza.

Nella nostra società individualista, per me l’indifferenza è la prima forma di violenza, uccide prima del femminicidio stesso il far finta di non vedere certe situazioni di violenza e girarci dall’altra parte”.

Femminicidio. Esposito: “Non sottovalutare mai i campanelli di allarme. È inutile fare le crocerossine”

Sab, 25/11/2023 - 09:18

Il 19 ottobre 2016 uno “tsunami” travolge la vita di Adriana Esposito, quasi sessantenne, una tragedia che colpisce tutta la famiglia: la figlia minore Stefania Formicola viene uccisa, a 28 anni compiuti da due settimane, dal marito, a Sant’Antimo. I due figli piccoli sono affidati alla nonna, che diventa di nuovo “mamma” a tempo pieno, insieme con il marito Luigi, che dedicano amore ai nipotini come avrebbe voluto fare Stefania, sparata con un colpo di pistola al cuore. Ora i bambini, dopo una causa, portano il cognome della mamma. Adriana ci racconta la sua storia.

(Foto: Adriana Esposito)

“Stefania ha conosciuto il suo carnefice tramite Facebook. Lui si è presentato come una persona molto gentile e disponibile, raccontandole molte bugie sul proprio conto: le ha detto che era diplomato geometra, faceva l’imprenditore e stava molto bene economicamente. Con la gentilezza è riuscito a carpire la fiducia di mia figlia, che in quel periodo era più fragile perché era da poco finita la sua prima storia d’amore”, spiega la mamma. Così Stefania ha accettato di incontrarlo e hanno iniziato a frequentarsi. “All’apparenza lui era molto premuroso e nulla faceva presagire che covasse dentro di sé tanta violenza. Il primo campanello d’allarme è stato la gelosia, le controllava il telefono, scherzosamente le chiedeva di non mettere la gonna o una maglia più scollata. Inizialmente Stefania non ha dato peso a queste cose, pensando che fosse un suo modo di dimostrare che ci tenesse a lei”. Eppure, osserva Adriana, “Stefania era una ragazza moderna, con tanti sogni nel cassetto, le sarebbe piaciuto fare la carriera militare, noi la sostenevamo, ma quell’uomo glielo ha impedito”. Esposito evidenzia: “Il carnefice vedeva in me e nella sorella le sue rivali perché noi avevamo capito che era un ‘fidanzato padrone’: avevo avuto infatti un ‘padre padrone’ e i campanelli di allarme li sapevo riconoscere. Mettevo in guardia mia figlia, ma non mi voleva ascoltare, pensava che vedessi il male dappertutto e mi diceva che con quel ragazzo stava bene. Poi è arrivata la prima gravidanza, intanto iniziavano i litigi, le privazioni, i soprusi. Lui è riuscito a farla allontanare da tutte le amiche, non voleva che uscisse neppure con la sorella, che parlasse con me, tutto questo perché pensava che io, il padre, la sorella, le amiche fossimo tutti suoi nemici”. Effettivamente, aggiunge, “avevamo capito chi era, dicevamo a Stefania che quel ragazzo non era adatto a lei, era un rapporto malato e lo doveva lasciare, anche se era in attesa, ma ci saremmo presi cura di lei e del bambino”.

Sono iniziate anche le violenze fisiche: “Mia figlia aveva occhi di un azzurro bellissimo e non amava truccarsi, ma quando veniva a trovarci vedevamo che aveva un trucco pensante; io le chiedevo come mai si era truccata così e mi rispondeva che quel giorno le andava, ma non era vero, era semplicemente per coprire qualche livido. Malgrado questa situazione, si sono sposati. Dopo un periodo in cui sono vissuti con noi, hanno preso casa lontano da noi, per volontà di lui che non ci voleva vicini. Noi aiutavamo mia figlia economicamente per lei e il bambino, perché il marito non era geometra né imprenditore, né aveva voglia di lavorare. Non portava mai soldi a casa, quando lo faceva, in realtà erano soldi prestati.

Malgrado le botte e le violenze, continuava a vivere con il marito perché lo amava ed era convinta che lui sarebbe cambiato: pensava di fare la crocerossina e si illudeva di curarlo con amore e rispetto”.

Quando è nato il secondo figlio, “Stefania ha voluto prendere casa vicino a noi, nel nostro condominio, per non stare da sola. Infatti, anche se non lavorava lui stava tutta la giornata fuori. Ma con questa scelta di Stefania è successa la guerra: lui cercava di mascherarsi, essendo noi vicini, ma ugualmente sentivamo le urla durante le liti, i pianti di mia figlia, ma quando correvamo Stefania ci tranquillizzava che non era successo niente. A un certo punto mia figlia, per non chiedere soldi a noi per qualsiasi esigenza, ha deciso di iniziare a lavorare come assistente in una clinica per anziani. Questa indipendenza ha fatto impazzire lui narcisista patologico e prepotente che da un lato non voleva che Stefania andasse a lavorare, ma dall’altro non portava i soldi a casa per una vita dignitosa. Il marito temeva molto che Stefania, uscendo e parlando con le persone, potesse aprire gli occhi su di lui”.

Con il passare del tempo, davvero Stefania ad un certo punto non ha retto più. “Dopo una lite, chiamò me e mio marito chiedendoci di andare a casa sua: la trovammo in lacrime, la casa sottosopra, lui con il martello in mano che stava rompendo tutti i mobili. Stefania ci chiese aiuto dicendoci che voleva lasciare il suo carnefice. Subito abbiamo portato lei e i bambini a casa nostra. Dopo averci chiesto aiuto è andata dai carabinieri per denunciare le violenze subite e da un avvocato per iniziare le pratiche della separazione. Lui è impazzito di rabbia e in quindici giorni ha elaborato il suo piano omicida”. Quando l’avvocato lo ha chiamato per dirgli che avrebbe dovuto firmare delle carte per la separazione, “il marito chiamò Stefania chiedendole scusa e dicendole che voleva riappacificarsi, chiamò anche me e mio marito per chiederci scusa, in ginocchio, dicendo di voler cambiare. Ma Stefania stavolta non gli ha creduto. La sera del 18 ottobre contattò mia figlia su WhatsApp dicendole che voleva parlarle prima di andare dall’avvocato, mia figlia non gli rispose, ma la mattina del 19 ottobre il marito si fece trovare sotto il portone di casa e quando Stefania entrò in auto prepotentemente salì anche lui chiedendole di accompagnarlo a Sant’Antimo. Durante il litigio l’uccise”.

Adriana chiarisce: “I bambini non hanno visto niente, perché l’omicidio è successo lontano da casa, ma il mio nipotino più grande, che allora aveva 4 anni, ha vissuto le violenze che il padre praticava sulla mamma, il piccolo quando Stefania è morta aveva diciannove mesi e non ricorda quel periodo. I bambini subito sono stati dati a noi nonni, dopo sei mesi c’è stata pure l’udienza davanti al giudice del Tribunale per i minorenni che ci affidò i bambini prima come nonni affidatari e poi come tutori, mentre tolse la patria potestà al padre. Abbiamo fatto anche una causa e abbiamo tolto il cognome del padre ai bambini che ora portano quello della mamma. Ho chiesto all’inizio un supporto psicologico quando Mario iniziò a farmi delle domande sulla mamma e chiesi un incontro con lo psicologo il quale mi disse di dirgli le cose come stavano. Ora non hanno bisogno di un supporto psicologico: erano e sono bambini tranquilli, non hanno mostrato segni di squilibrio per la tragedia della mamma. Certo, fanno domande e, quando posso, rispondo, domande più scabrose cerco di dribblarle. Ma ora ho chiesto io un supporto psicologico perché voglio essere aiutata con i miei nipoti”. Intanto, il marito di Stefania è stato condannato all’ergastolo.

(Foto: ANSA/SIR)

Adriana dopo l’omicidio della figlia insieme con il marito va nelle scuole a raccontare la storia della figlia e a sensibilizzare i ragazzi su come combattere la violenza contro le donne. “Purtroppo i femminicidi stanno aumentando. Quando vado nelle scuole spiego ai ragazzi che un rapporto amoroso può finire per tanti motivi e non bisogna farne una tragedia né usare violenza sfogando la rabbia. Mia figlia dopo tanti anni aveva avuto il coraggio di dire basta. Ci sono anche pene certe per questi misfatti, ma è troppo tardi, quando già è avvenuto l’omicidio. Dobbiamo sicuramente aiutare le donne a capire quali sono i campanelli di allarme, a denunciare, a invitarle a non andare all’ultimo appuntamento che si si risolse spesso in tragedia. Alcune donne hanno paura che denunciando le violenze possano perdere i figli. Bisogna far capire invece l’importanza di denunciare proprio per salvare loro stesse e i bimbi. Lo Stato dovrebbe aiutare le donne a trovare un lavoro quando denunciano uomini violenti in modo tale da potersi mantenere ed essere indipendenti, perché un freno può essere anche la motivazione economica. Senza un’indipendenza pensano che sia meglio sopportare uno schiaffo ma avere un tetto e un piatto caldo per i figli”. Oggi, conclude Esposito, “ci sono leggi contro la violenza, sussidi per gli orfani di femminicidio e per i parenti affidatari. Ma è sempre poco quello che si fa rispetto a questi drammi”.

Rilascio primi piccoli ostaggi israeliani: Grappone (Emdr): “Per loro esperienza traumatica e destabilizzante che altera percezione di sé e del mondo”

Ven, 24/11/2023 - 16:22

Entrato in vigore a Gaza il cessate il fuoco di quattro giorni fra Hamas ed Israele, nel primo pomeriggio di oggi sono stati rilasciati i primi 13 ostaggi israeliani, donne e bambini. In seguito torneranno in libertà anche una trentina di donne e di minorenni palestinesi detenuti in Israele. Secondo l’accordo raggiunto con la mediazione del Qatar, nel periodo di tregua saranno in totale 50 gli ostaggi israeliani rilasciati da Hamas — 30 minori con 8 madri e altre 12 donne — in cambio della scarcerazione di 150 palestinesi.

In quali condizioni psicologiche ed emotive usciranno i giovanissimi ostaggi israeliani – il più piccolo ha appena nove mesi; il più grande 17 anni – da questi 48 giorni di prigionia? Quali conseguenze potrebbe avere sul loro equilibrio questa dura esperienza? Lo abbiamo chiesto a Noemi Grappone, psicologa psicoterapeuta Emdr practitioner, e membro di Emdr Italia. L’Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è uno strumento terapeutico impiegato nel trattamento di disturbi legati ad eventi stressanti e/o traumatici: violenze, incidenti, gravi lutti, guerre.

“La prigionia ha in sé tutti gli elementi che rendono il sequestro un’esperienza al limite della sopravvivenza emotiva e fisica, e quindi traumatica, e lo è ancor più per i bambini

– ci spiega l’esperta – . L’isolamento forzato li destabilizza fortemente, a partire dalla deprivazione sensoriale che sperimentano poiché i luoghi della prigionia e le persone che la condividono non devono essere riconoscibili, e questo ha come effetto drammatico nelle vittime un disorientamento spazio-temporale che, già da solo, può comportare diverse psicopatologie”. Inoltre, prosegue la psicoterapeuta, “le reazioni psicologiche indotte dall’isolamento sociale sui bambini – naturalmente predisposti allo scambio e all’interazione – possono portare ad un aumento del livello di distress, una prevalenza emotiva di paura, disorientamento, rabbia, svuotamento emotivo, impotenza e rassegnazione”. Di qui “sintomi ansiosi, depressivi, disturbi del ritmo sonno/veglia e alimentari”. Ma anche “ipervigilanza, ipersensibilità a certi suoni; pensieri ricorrenti ed intrusivi”.

“Non sappiamo inoltre se questi minori siano stati sottoposti – o abbiano assistito – a comportamenti violenti, abusanti o umilianti

– riflette ancora Grappone – che spesso hanno lo scopo di induzione alla dipendenza dai sequestratori. La sfiducia maturata negli altri è una conseguenza dei traumi da aggressione, e può indurre senso di colpa e autobiasimo”. Come accade nelle vittime di abuso sessuale, che “provano spesso colpa e vergogna per ciò che è successo, si trincerano nel silenzio e incappano in una ripetitività del pensiero con un tema di responsabilità nell’aver incoraggiato l’aggressore o, nell’essere stati impotenti nel ribellarsi”. Un’altra possibile conseguenza, secondo l’esperta, potrebbe essere lo “sviluppo della sindrome del sequestrato, definita come Sindrome di Stoccolma”; situazione paradossale in cui “le vittime di un sequestro, anziché provare odio e avversione per i sequestratori, nonostante la presenza di comportamenti anche violenti si affezionano loro a causa dello stato di dipendenza che si sviluppa fra rapito e rapitori che gestiscono le sue fonti di sopravvivenza come cibo, aria, acqua”.

“Come ci insegna l’Emdr, il cervello umano ha enormi potenzialità lungo tutto l’arco della vita e riesce ad adattarsi anche alle peggiori esperienze. E più è bassa l’età di chi ne è vittima, maggiore è la sua possibilità di recupero”, assicura tuttavia Grappone. Qualora, invece, “ciò non sia praticabile, il disturbo da stress post-traumatico (Ptsd) è una delle possibili conseguenze, e in quanto tale richiederà un percorso di sostegno psicologico.

Siamo un contesto di continua traumatizzazione, un periodo storico impressionante che altera la percezione di sé stessi e del mondo”.

Questa, osserva ancora la psicoterapeuta, “non è certo la sede per valutazioni politiche e morali, ma non possiamo trasversalmente non pensare che anche i bambini palestinesi sono ostaggio di un fenomeno che li rende impotenti, negati e deprivati di tutta una serie di esperienze e della loro infanzia”. E conclude:

In condizioni normali un bambino impara a considerare il mondo come un luogo sicuro, ma qui non lo è. È questo cambiamento di prospettiva che stravolge le esistenze di tutti i bambini, senza differenza fra israeliani ostaggio di Hamas e palestinesi”.

 

 

Adolescenti. Telefono Azzurro: “Il 21% dei ragazzi si sente in ansia, ma per 1 su 3 chiedere aiuto ad un esperto è motivo di vergogna”

Ven, 24/11/2023 - 10:00

L’utilizzo sempre più pervasivo delle tecnologie digitali non comporta solo una trasformazione nel modo di comunicare, ma anche un impatto sulla salute mentale di tutti compresi i giovanissimi. Lo evidenziano le richieste di aiuto arrivate alla “Linea di ascolto 1.96.96” che nel 2022 ha raccolto 1.459 segnalazioni relative a problemi di salute mentale (4 casi al giorno) e quelle gestite dal numero “Emergenza Infanzia 114” che, nel 2022, sono state ben 347. Ed è proprio per focalizzare l’attenzione sul benessere psicofisico dei ragazzi e per sensibilizzare l’opinione pubblica sui loro bisogni emergenti che, in occasione della Giornata internazionale dell’infanzia e dell’adolescenza, la Fondazione Sos il Telefono Azzurro Ets ha organizzato, a Roma, presso il Cnel, mercoledì 15 novembre, la conferenza “Il futuro dell’infanzia tra nuovi scenari e risposte concrete”. Durante il convegno Telefono Azzurro ha presentato “E tu, stai bene con te?”, una guida che parla direttamente ai ragazzi e che risponde in maniera concreta ai dubbi rispetto al disagio che stanno vivendo. Un primo passo per uscire dalla solitudine e aiutare a rompere la barriera del silenzio. “Nell’ultimo anno abbiamo visto aumentare le richieste di aiuto legate alla salute mentale – ha spiegato Ernesto Caffo, presidente e fondatore di Telefono Azzurro -. La velocità trasformativa del digitale ha modificato radicalmente lo sviluppo cognitivo ed emotivo dei ragazzi che si trovano a gestire, troppo spesso da soli, forme di difficoltà e di disagio, oltre ad essere esposti a moltissimi rischi”.

(Foto: Telefono Azzurro)

Ma come si sentono i ragazzi oggi? Hanno paura di parlare di salute mentale? E come percepiscono la sofferenza dei propri coetanei? A questi interrogativi si è cercato di rispondere attraverso l’indagine di Telefono Azzurro dedicata alla salute mentale dei giovani e realizzata con il supporto di BVA Doxa su 800 ragazzi tra i 12 e i 18 anni e presentata in occasione dell’evento. “Nelle ultime due settimane soltanto il 41% dei ragazzi si è sentito felice. Il 21% dei giovani ha dichiarato di sentirsi in ansia o preoccupato (20%), il 6% triste”, rivela l’indagine.

“Ad 1 ragazzo su 2 – si legge nel report – il futuro appare come un qualcosa di davvero oscuro”.

Tra le principali sofferenze che gli adolescenti riscontrano tra i loro coetanei “vi è al primo posto la dipendenza da internet e dai social network (52%), seguita dalla mancanza di autostima (41%), dalle difficoltà relazionali con gli adulti (40%), ansia e attacchi di panico (30%). Soltanto il 2% ritiene che i propri coetanei non vivano situazioni di sofferenza”. Ma come aiutare i giovani che si trovano in una situazione di disagio psicologico? “Per il 61% potrebbe essere utile parlarne di più, perché spesso ci si vergogna e si ha paura di chiedere aiuto”. I giovani danno molto importanza alla sfera educativa rappresentata dalla famiglia e dalla scuola. “Per il 41% dei rispondenti sarebbe molto utile formare e insegnare ai genitori come essere vicino ai figli che stanno male, mentre il 39% auspica che a scuola si parli sempre di più di salute mentale”. Anche “essere seguiti da un professionista o da uno psicologo rappresenta una soluzione per il 39% degli intervistati, ma il 22% preferirebbe potersi raccontare in modo anonimo utilizzando ad esempio le chat. Intelligenza artificiale, chatbot e app di salute mentale sono ritenute facilmente accessibili per il 63% dei ragazzi oltre ad essere strumenti dove non ci si sente giudicati (62%), anche se il 58% teme di non sentirsi veramente ascoltato a causa della scarsa empatia”.

Anche se con la pandemia il tema del benessere mentale ha iniziato ad assumere un ruolo sempre più rilevante, “soltanto il 39% dei più giovani ne parla nella vita di tutti i giorni e il 40% fa ricerche in rete sul tema. La propria rete affettiva rimane il riferimento in caso di malessere psicologico. Il 74% dei ragazzi ritiene la famiglia un punto fermo, seguita da amici (38%), dallo psicologo (26%) e dalla scuola (11%)”. Invece,

“chiedere aiuto a un esperto di salute mentale rappresenta ancora una vergogna per 1 ragazzo su 3,

che teme di essere giudicato in modo negativo dalla società. Indifferenza, discriminazione, esclusione sociale e compassione sono per i giovani gli atteggiamenti più diffusi nella società nei confronti di persone con problemi di salute mentale”.

Anche gli eventi drammatici – come ad esempio la guerra in Medio Oriente – influenzano i sentimenti e il vissuto dei ragazzi: “Più di 1 giovane su 2 è rimasto impressionato di fronte alle notizie e alle immagini dolorose del conflitto, mentre il 35% ritiene di aver avuto una reazione all’inizio, ma ora si sente abituato”. Ma quali sentimenti genera la guerra? “Il 49% dei ragazzi sottolinea di provare molto spesso rabbia, il 59% tristezza, il 39% angoscia. 1 ragazzo su 5 molto spesso fa incubi sugli attacchi. L’empatia e la vicinanza alle popolazioni colpite sono sentimenti molto diffusi tra le giovani generazioni. Il 19% pensa alle vittime del conflitto ogni giorno, il 39% spesso e il 30% qualche volta”.

Dall’indagine di Telefono Azzurro emerge come “la grande solitudine di fronte alla crescita porti sempre più ragazzi a rifugiarsi nella rete per sperimentarsi dal punto di vista cognitivo, emotivo e relazionale. In media i ragazzi tra i 12 e i 18 anni passano almeno 3 ore al giorno sui social chattando. Il 92% degli intervistati è concorde sul fatto che i social media potrebbero causare dipendenza, ma il 58% degli users li sceglie per rilassarsi, il 54% per rimanere in contatto con amici e familiari, il 31% per combattere la solitudine e la noia e il 23% per fare nuove amicizie (23%)”.

Alla domanda “come ti sentiresti senza l’utilizzo dei social” il 22% dei ragazzi ha risposto “ansioso” o “agitato”, l’11% “solo”, mentre il 23% si sentirebbe addirittura “perso”.

“Diventa fondamentale e prioritario non lasciare i più giovani da soli all’interno dei mondi digitali e dei social network colmando le lacune di reti familiari sempre più fragili. Il 77% dei ragazzi pensa che la scuola debba educare all’uso sicuro e responsabile dei social riconoscendone, accanto alla famiglia, l’importantissimo ruolo educativo. Non dobbiamo fermarci qui. L’obiettivo è quello di attivare forme di collaborazione e progetti comuni e trasversali capaci di tutelare e mettere al primo posto il benessere mentale di bambini e adolescenti”, ha concluso Caffo.

Sinodo e vita religiosa. Fr. Emili Turú (Usg): “Una sola voce per uomini e donne, siamo con il popolo che soffre in guerra”

Ven, 24/11/2023 - 09:56

“Dare una voce unica alla vita religiosa”. Così fra Emili Turú Rofes, segretario generale dell’Usg (Unione dei superiori generali), tira le fila della 100ª assemblea dell’Usg che si è tenuta in forma congiunta con l’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) e si è conclusa oggi a Sacrofano sul tema “Sinodalità. Un rinnovato appello alla profezia della speranza”.

Scegliere di celebrare l’assemblea insieme, uomini e donne, è un messaggio di unione della vita religiosa?
Stiamo camminando insieme nel solco del Sinodo. Numericamente la realtà è assai diversa: l’Unione delle superiori generali rappresenta circa 2.000 Congregazioni, includendo anche quelle diocesane; l’Unione maschile, invece, ne tiene dentro più o meno 200. In questi anni si è rafforzata la collaborazione. Si sta addirittura discutendo la possibilità di creare una sola Unione, ma bisogna superare alcune difficoltà operative. Si potrebbe pensare a una Federazione? Chissà. L’importante è dare una voce unica alla vita religiosa.

Affinché anche le donne abbiano maggiore considerazione nella Chiesa?
Adesso, quando si presenta l’opportunità, deve parlare la presidente per le donne e il presidente per gli uomini.

Noi siamo con loro nel desiderio di apertura della Chiesa alle donne, per trovare il posto che davvero le appartiene. La vita religiosa è unita in questo percorso.

Come è entrato il Sinodo nei monasteri, nelle comunità, nelle case dei religiosi sparse nel mondo?
La vita consacrata è sinodale dall’inizio. Pensiamo, ad esempio, alla partecipazione di tutti per l’elezione del superiore. San Benedetto invitava ad ascoltare i più giovani della comunità, perché molto spesso è proprio ai più giovani che il Signore rivela le soluzioni. Da questa prima fase del Sinodo, è emerso che la vita consacrata è un luogo da cui prendere ispirazione. Poi, certamente, l’applicazione pratica è a volte difficoltosa: ci sono casi di abusi di autorità, di scarso ascolto. All’inizio si è utilizzato il metodo parlamentare, perché era quello considerato più democratico per ascoltarci. Ma adesso vediamo che è insufficiente, che ci vuole altro.

Cosa?
Dobbiamo entrare nell’ascolto contemplativo proposto dal Sinodo, che fa davvero la differenza. Questo è molto potente per la Chiesa e per il mondo. Imparare a parlare persino con la persona che è ai miei antipodi, cercando di comprenderla.

Dialogare significa mettersi in ascolto per capire, non per discutere ma per accogliere. Se tutti facciamo questo sforzo, allora c’è una comunione al di là delle idee.

Possiamo essere in comunione anche se la pensiamo diversamente.

Dall’Ucraina alla Terra Santa, sono sempre di più le guerre che insanguinano il mondo…
Sono i segnali di un cambiamento d’epoca. Se ne parla, ormai, dal Concilio Vaticano II e il Papa lo ripete spesso: questa non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca. Un’epoca sta morendo e ne vediamo i sintomi. Credo che i religiosi siano impegnati in quello che il Papa scrive in Fratelli tutti: è in atto la gestazione di un mondo nuovo.

Frati, monaci, suore sono presenti nei luoghi più sofferenti. A Gaza, sotto le bombe, sono restati accanto alla popolazione. Perché?
A volte possiamo sembrare ridicoli perché alla forza delle armi contrapponiamo quella dell’amore. Potremmo apparire folli agli occhi del mondo. Eppure sappiamo che in Palestina i religiosi stanno in comunione con il popolo. Che in Ucraina restano lì con la gente, e così in tanti Paesi dell’Africa dove c’è guerra e violenza.

Noi crediamo fermamente nella forza dell’amore, che è il motore del cambiamento.

Tutto invita a non avere speranza. E invece noi sappiamo che è profetico avere speranza, perché crediamo nella forza del Vangelo e dell’amore, che supera la potenza delle armi e della distruzione. Il Sinodo è un momento importantissimo per riaffermare che siamo col Papa. E che non dobbiamo mai perdere la speranza.

Synod and Religious Life. Br Emili Turú (USG): “A single voice for men and women, we are at the side of the people suffering in war”

Ven, 24/11/2023 - 09:56

“To give a single voice to religious life.” With these words, Br. Emili Turú Rofes, Secretary General of the Union of Superiors General (USG), summed up the highlights of the 100th General Assembly of the USG, jointly organised with the International Union of Superiors General (UISG). The Assembly, which ended today in the Italian city of Sacrofano, had as its theme “Synodality. A renewed call to the prophecy of hope.”

Is the decision to celebrate the Assembly together, men and women, a message of unity of religious life?

We are following the path of the Synod together. In numerical terms, the picture is quite different. The International Union of Superiors General represents about 2,000 congregations, including diocesan congregations, while the Union of men comprises about 200. Cooperation has increased in recent years. The possibility of creating a single Union is being explored, but some operational difficulties need to be overcome. Perhaps a federation would be a possibility. Who knows? What matters is that religious life speaks with one voice.

To give women greater recognition in the Church?

Right now, whenever the opportunity arises, the female President must speak on behalf of the women and the male President on behalf of the men.

We stand together with them in the desire to open the doors of the Church to women, to give women the place where they truly belong. Religious life stands united in this journey.

How has the Synod entered the monasteries, communities and the religious institutes around the world?

Consecrated Life is synodal to begin with. Consider, for example, the participation of all in the election of the superior. St Benedict’s invitation was to listen to the youngest in the community, because it is often to the youngest that the Lord reveals solutions. This first phase of the Synod has shown that the consecrated life is a place of inspiration. Then, of course, it is sometimes difficult to put it into practice: there are cases of abuse of authority, of not being listened to. In the beginning, the parliamentary method was used because it was considered the most democratic way to listen to each other. But now we are seeing that it is not enough, that something else is needed.

What is it?

We should engage in contemplative listening, as the Synod proposes. This really makes a difference. It is very important for the Church and for the world. Learning to engage in dialogue even with the person poles apart from me, with a view to mutual understanding.

To engage in dialogue is to listen in order to understand, not to argue, but to welcome. If we all make this effort, there will be a communion that transcends differences of opinion.

We can be in communion even when we think differently.

From Ukraine to the Holy Land, more and more bloodshed is taking place…

These are the signs of a new era. This is what has been said since the Second Vatican Council, and the Pope often repeats it: this is not an era of change, but a change of epoch. An era is ending and we can see the signs. I do believe that men and women religious are committed to what the Pope writes in Fratelli tutti: a new world is in the making.

Friars, monks and nuns are present in the most tormented areas of the world. In Gaza, under the bombs, they have remained close to the population. Why?

Sometimes we may seem ridiculous for countering the power of weapons with the power of love. We may seem foolish in the eyes of the world. But we know that in Palestine the religious are in communion with the people. That in Ukraine they are with the people, and the same in so many African countries afflicted by violence and war.

We believe in the power of love. It is the engine of change.

Everything seems to suggest that we should not be hopeful. And yet, because we believe in the power of the Gospel and in the power of love that overcomes the power of weapons and destruction, we know that being hopeful is prophetic. The Synod is a very important moment for affirming that we are united with the Pope. And that we must never lose hope.

Liturgia. Don Giardina (Cei): “Deve saper leggere le righe del cuore”

Ven, 24/11/2023 - 09:55

“Dialogare con il nostro tempo e individuare le urgenze pastorali e liturgiche per l’oggi”. E’ uno degli obiettivi del convegno “La liturgia a sessant’anni da Sacrosanctum Concilium. L’ufficio liturgico nazionale e la riforma liturgica in Italia”, in corso alla Pontificia Università Urbaniana a Roma fino al 25 novembre. Due gli anniversari che l’iniziativa intende commemorare il 60° anniversario della promulgazione della Costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium” e il 50° anniversario dell’Ufficio Liturgico nazionale della Conferenza episcopale italiana. “Un raduno di famiglia, fatta di volti e storie incrociate a volte in maniera misteriosa a servizio della liturgia in Italia”. Così don Alberto Giardina, direttore dell’Ufficio Liturgico nazionale della Cei, ha definito l’evento, “non semplicemente commemorativo”, ma “occasione per fare memoria grata e riscoprire l’eredità del passato; dialogare con il nostro tempo e individuare le urgenze pastorali e liturgiche per l’oggi; dare casa al futuro e tracciare piste per il futuro che ci attende”. Il Sir lo ha intervistato.

Don Giardina, quale è secondo lei l’eredità da raccogliere della Sacrosanctum Concilium, e quali impatto può avere sull’assetto liturgico odierno?
L’eredità della costituzione conciliare è quella di aver permesso una partecipazione più attiva e consapevole all’azione liturgica, di aver riscoperto il legame tra liturgia e Parola e la dimensione teologica della stessa liturgia, che il Concilio Vaticano II ha liberato dalle forme di ritualismo che avevano allontanato la comprensione dell’idea di mistero. Tra le esigenze nuove da portare avanti oggi, la dimensione dell’adattamento della liturgia al nostro tempo, l’attenzione della liturgia alla storia come storia di salvezza, storia degli uomini e storia di un popolo e il tema della formazione liturgica, che comporta l’impegno ad aiutare nuovamente gli uomini e le donne del nostro tempo a vivere l’agire liturgico e a riscoprirne il linguaggio, che oltre ad essere il linguaggio del rito è un linguaggio anche molto umano. Un impegno, questo, che è stato accolto in passato e viene accolto ancora oggi dall’Ufficio liturgico della Cei, ed è rivolto a favorire una formazione liturgica sempre più capillare.

Cosa significa, per l’Ufficio liturgico della Cei, raggiungere il traguardo dei 50 anni?
Aprendo i lavori di questo convegno ho utilizzato la metafora della foto di famiglia: quando si sfogliano gli album, si incontrano i volti dei nonni, degli zii, dei cugini…Compiere 50 anni, per il nostro ufficio, significa anzitutto riscoprire i volti e le storie dell’impegno della Chiesa italiana nel portare avanti l’opera di riforma liturgica, che progredisce anche grazie ai nomi e all’eredità delle intuizioni di tutti coloro che ci hanno preceduto.

La Chiesa italiana è stata sempre guardata con particolare attenzione anche dalle altre realtà ecclesiali per la sua prossimità al Santo Padre e al vissuto della nostra gente.

Per citare solo un esempio, l’adattamento del Messale del 1983 è stato accolto dall’edizione latina della terza Editio Typica, rendendo merito proprio all’esperienza maturata dalla Chiesa in Italia. Compiere 50 anni significa per l’Ufficio liturgico della Cei anche riprendere in mano il nuovo Messale e la traduzione della Bibbia, oltre che impegnarsi per i cantieri del futuro. Tra i laboratori che riguardano questioni particolarmente significativi per la liturgia di oggi e di domani, ne abbiamo identificati in particolare nove: liturgia e famiglia, liturgia e disabili, liturgia e catechesi, i ministeri nella liturgia, l’ars celebrandi, la musica per la liturgia, le forme emergenti della pietà popolare, la liturgia nell’era digitale.

Papa Francesco, nella Desiderio Desideravi, parla di “metodo dell’incarnazione” e raccomanda una liturgia “di popolo”. Come evitare il rischio di un liturgismo astratto e disincarnato, che allontana i fedeli dalle chiese?
Di liturgie noiose e omelie troppo lunghe si è parlato anche durante il Cammino sinodale della Chiesa italiana. Il Santo Padre, con la Desiderio Desideravi, ci ha chiesto di uscire fuori dal personalismo e di recuperare il senso del linguaggio liturgico cercando di entrare in dialogo con le istanze dell’uomo contemporaneo.

Ci vuole una liturgia che sappia leggere tra le righe dei libri liturgici le pieghe del cuore umano, attraverso l’attenzione all’uomo concreto nella situazione in cui si trova.

La liturgia non si trova mai davanti una comunità astratta, ma una porzione di popolo con la sua stanchezza, le sue fatiche e le sue speranze, i suoi travagli e la sua gioia. L’importante è saper leggere le righe del cuore, anche attraverso una riscoperta della corporeità.

Giulia Cecchettin. Il dolore di due padri, l’abisso e la (possibile) rinascita. Parla l’antropologo Pollo

Gio, 23/11/2023 - 13:14

Due padri di fronte a un dolore straziante, piombato su di loro come un fulmine a ciel sereno: l’uccisione violenta di una figlia per Gino Cecchettin; per Nicola Turetta l’improvvisa e crudele presa di coscienza di avere in casa il responsabile di quell’orrore. Diverso, ma per entrambi atroce, difficile da sopportare. Come può un uomo e un padre vivere questa situazione senza lasciarsi travolgere? A quale compito è chiamato? E quale “lezione” può discendere, se possibile, da questa vicenda? In questi giorni di profondo smarrimento e di tante parole, abbiamo tentato una riflessione, senza la pretesa di voler insegnare qualcosa o avere le risposte pronte, con l’aiuto di Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma.

(Foto ANSA/SIR)

Professore, il padre di Giulia ha affermato di non provare odio e in questi giorni, nonostante il dolore, si è sempre mostrato pacato e misurato nelle parole.
È bene, infatti, che il trauma di questa gravissima perdita non si trasformi in risentimento; non solo nei confronti di chi ha inferto la ferita, il che sarebbe umanamente comprensibile, ma anche nei confronti della società sulla scorta dell’“uomo del sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij, di fronte ad un mondo avvertito ostile e colpevole di avergli sottratto le cose più care e preziose. Per il suo enorme potere distruttivo, su di sé e sugli altri, il risentimento è il peggior nemico che si possa avere. Il secondo punto è la necessità di un percorso di elaborazione della sofferenza e del lutto che porti alla cicatrizzazione della ferita ricevuta, ossia al riconoscimento e all’accettazione profonda dentro di sé della perdita subita. Un percorso da intraprendere possibilmente con il sostegno di qualcuno e che potrebbe arrivare a

trasformare l’amore che la perdita ha sottratto in amore da donare agli altri, in gentilezza, empatia, benevolenza verso il prossimo.

(Foto ANSA/SIR)

Il padre di Filippo non si dà pace per quanto accaduto. Pagherà per quello che ha fatto. Noi siamo pur sempre i suoi genitori”, ha affermato.
Credo che il suo ruolo sia anzitutto quello di sostegno e accompagnamento del figlio, facendogli capire di essere sempre e comunque al suo fianco ma, al tempo stesso, aiutandolo a “chiarificare la colpa”, secondo il concetto di Martin Buber. La nostra cultura ha oscurato la capacità di riconoscere la colpa, introducendo al suo posto il senso di colpa che non è assunzione di responsabilità, bensì paura e angoscia per le conseguenze dell’atto commesso. La persona tende così ad elaborare una serie di attenuanti e, una volta scampate le conseguenze, non rimane nulla; invece

la colpa deve essere riconosciuta, illuminata e assunta pienamente; solo così è possibile in chi l’ha commessa lo sviluppo di un umano nuovo.

Credo che il padre di Filippo sia chiamato a questo compito, difficile ma fondamentale per un padre, che presuppone una relazione d’amore e di fiducia all’interno della quale si possa dire ad un figlio: “Tu hai la capacità, sia di assumerti la colpa, sia, partendo da questa colpa sofferta e assunta, di crescere, rigenerarti e ricostruire in te un umano nuovo”. Naturalmente anche attraverso l’espiazione, anch’essa necessaria all’evoluzione e alla rinascita della persona.

Riflettendo su questa vicenda, quale “lezione” può discenderne per i genitori e, in particolare, per i padri di figli maschi?
Le prediche non servono; un padre deve vivere, testimoniare l’insegnamento che tenta di trasmettere al proprio figlio, partendo anzitutto dal rapporto di complementarità con la propria moglie, madre del ragazzo, che consente un’esperienza di pienezza umana molto più ampia di quella che si potrebbero vivere da soli. Né il maschile, né il femminile sono di per sé autosufficienti, lo sono nella complementarità, che richiede alle donne di riconoscere il maschile che è in loro e di farlo crescere, e agli uomini di riconoscere il femminile che è in loro, entrarvi in contatto e svilupparlo.

Oggi, però, molte famiglie sono disfunzionali e tanti figli crescono assistendo alle liti dei genitori, talvolta a insulti e percosse.
Quando un uomo tratta la propria moglie da schiava cui imporre la propria volontà, crea purtroppo una sorta di imprinting nel figlio, che naturalmente tende ad identificarsi con la figura paterna – ammesso che questa figura sia presente perché nella maggior parte dei casi la filiera educativa oggi propone anche ai ragazzi figure essenzialmente femminili – e che molto probabilmente sarà portato a riprodurre questa modalità nella sua relazione con la donna.

L’educazione dovrebbe invece aiutarlo ad essere un uomo “vero”, consapevole della propria interiorità, rispettoso e responsabile nei confronti dell’altro.

Ma il figlio dovrebbe vedere il padre impegnarsi per primo in questo percorso: un padre che se buca una gomma si ferma, la cambia e riparte testimoniando che si può essere coerenti anche commettendo a volte degli errori, riconoscendoli e sforzandosi di cambiare. In questi casi può essere di grande aiuto per il figlio la frequentazione di luoghi di aggregazione costruttiva e di sane relazioni, come gruppi parrocchiali o legati all’associazionismo.

 

Papa Francesco: “Violenza contro le donne rende urgente formare uomini capaci di relazioni sane”

Gio, 23/11/2023 - 11:37

“Vediamo dalle tristissime cronache di questi giorni, dalle terribili notizie di violenza contro le donne, quanto sia urgente educare al rispetto e alla cura: formare uomini capaci di relazioni sane”. Lo ha detto Papa Francesco, che durante l’udienza concessa alle delegazioni della Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc), dell’Unione Stampa periodica italiana (Uspi), dell’Associazione Corallo e dell’Associazione Aiart – Cittadini mediali, pur senza citarla direttamente, è sembrato riferirsi alla tragica uccisione di Giulia Cecchettin. “Vi occupate di stampa, televisione, radio e nuove tecnologie, con un impegno a educare ai media i lettori e gli utenti”, l’esordio di Francesco:

“Il vostro radicamento capillare testimonia il desiderio di raggiungere le persone con attenzione e vicinanza, con umanità. Anzi, direi che ben rappresentate quella geografia umana che anima il territorio italiano”.

“La comunicazione, d’altronde, è questo: mettere in comune, tessere trame di comunione, creare ponti senza alzare muri”, ha ribadito il Papa esortando a

“rinnovare sempre l’impegno per la promozione della dignità delle persone, per la giustizia e la verità, per la legalità e la corresponsabilità educativa”.

Di qui l’invito a “non perdere di vista, nel contesto delle grandi autostrade comunicative di oggi, sempre più veloci e intasate, tre sentieri, che è bene non perdere di vista e che vanno sempre percorsi”: formazione, tutela e testimonianza.

“Comunicare è formare l’uomo. Comunicare è formare la società”, il monito di Francesco ai presenti. Quello della formazione “non è un semplice compito, ma una questione vitale”, perché “in gioco c’è il futuro della società”, la tesi del Papa, secondo il  quale “la formazione è la strada per connettere le generazioni, per favorire il dialogo tra giovani e anziani, quell’alleanza intergenerazionale che, oggi più che mai, è fondamentale”. Francesco ha poi fornito precise istruzioni su “come educare, in particolare le giovani generazioni immerse in un contesto sempre più digitale”:

“La prudenza e la semplicità sono due ingredienti educativi basilari per orientarsi nella complessità di oggi, specialmente del web, dov’è necessario non essere ingenui e, allo stesso tempo, non cedere alla tentazione di seminare rabbia e odio”,

la prima raccomandazione. “La prudenza, vissuta con semplicità d’animo, è quella virtù che aiuta a vedere lontano, che porta ad agire con ‘previsione’, con lungimiranza”, ha spiegato il Papa: “E non ci sono corsi per avere prudenza, non si studia per avere prudenza. La prudenza si esercita, si vive, è un atteggiamento che nasce insieme dal cuore e dalla mente, e poi si sviluppa. La prudenza, vissuta con semplicità d’animo, sempre ci aiuta ad avere lungimiranza”.

“I settimanali cattolici portano questo sguardo sapiente nelle case della gente”,

l’omaggio del Papa: “Non danno solo la notizia del momento, che si brucia facilmente, ma veicolano una visione umana e una visione cristiana volta a formare le menti e i cuori, perché non si lascino deformare dalle parole urlate o da cronache che, passando con curiosità morbosa dal nero al rosa, trascurano la limpidità del bianco”. “Vi incoraggio a

promuovere una ecologia della comunicazione nei territori, nelle scuole, nelle famiglie, tra di voi”,

l’invito: “Voi avete la vocazione di ricordare, con uno stile semplice e comprensibile, che,

al di là delle notizie e degli scoop, ci sono sempre dei sentimenti, delle storie, delle persone in carne e ossa da rispettare come se fossero i propri parenti”.

Nel campo della comunicazione, “è fondamentale promuovere strumenti che proteggano tutti, soprattutto le fasce più deboli, i minori, gli anziani e le persone con disabilità, e li proteggano dall’invadenza del digitale e dalle seduzioni di una comunicazione provocatoria e polemica”. “Nella comunicazione digitale si vuole mostrare tutto ed ogni individuo diventa oggetto di sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima”, la denuncia contenuta nella “Fratelli tutti”, ricordata dal Papa durante l’udienza: “Il rispetto verso l’altro si sgretola e in tal modo, nello stesso tempo in cui lo sposto, lo ignoro e lo tengo a distanza, senza alcun pudore posso invadere la sua vita fino all’estremo”.

“Le vostre realtà, impegnate in questo settore, possono far crescere una cittadinanza mediale tutelata, possono sostenere presidi di libertà informativa e promuovere la coscienza civica, perché siano riconosciuti diritti e doveri anche in questo campo”, la tesi di Francesco, secondo il quale si tratta di “una questione di democrazia comunicativa”. “E questo, per favore, fatelo senza paura, come Davide contro Golia”,  l’incoraggiamento del Papa: “Non giocate solo in difesa ma, rimanendo piccoli dentro, pensate in grande, perché a un compito grande siete chiamati: tutelare, attraverso le parole e le immagini, la dignità delle persone, specialmente la dignità dei piccoli e dei poveri, i preferiti di Dio”.

“La fedeltà al Vangelo postula la capacità di rischiare nel bene. E di andare controcorrente: di parlare di fraternità in un mondo individualista; di pace in un mondo in guerra; di attenzione ai poveri in un mondo insofferente e indifferente”,

la ricetta finale per il mondo della comunicazione. “Ma questo si può fare credibilmente solo se prima si testimonia ciò di cui si parla”, il monito sulla scorta del beato Carlo Acutis, che “sapeva molto bene che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza”.

Pope Francis: “Violence against women shows how urgent it is to form men capable of healthy relationships”.

Gio, 23/11/2023 - 11:37

“We see from the sad news of these days, from the terrible news of violence against women, how urgent it is to educate to respect and care: to form men capable of healthy relationships,” Pope Francis said during the audience granted to delegations from the Italian Federation of Catholic Weeklies (FISC), the Italian Union of Periodical Press (USPI), the Coral Association and the AIART Media Citizens Association. Without mentioning it explicitly, the Pope seemed to be referring to the tragic murder of Giulia Cecchettin. “You deal with the press, television, radio and new technologies, with commitment to educating readers and listeners about the media”, Francis said in his opening remarks:

“Your widespread roots testify to your desire to reach people with care and proximity, with humanity. Indeed, I would say that you well represent that ‘human geography’ that animates the Italian territory.”

“This, after all, is what communication is all about: bringing people together, weaving threads of communion, building bridges without raising walls,” the Pope said, encouraging those present to

“always renew your commitment to the promotion of the dignity of people, to justice and truth, to legality and educational co-responsibility.”

Francis invited “not to lose sight of three paths in the context of today’s great communication highways, which are ever faster and more congested, and which must always be travelled.” These are: formation, protection and witness.

To communicate is to form people. To communicate is to form society,” Francis reminded those present. This formation “is not a simple task, it is a vital issue” because “the future of society is at stake,” the Pope said. “Formation is the way to connect generations, to promote dialogue between the young and the elderly, that intergenerational alliance that is fundamental today more than ever.” Francis then gave precise instructions on “how to educate, especially the younger generations immersed in an increasingly digital context”:

“Prudence and simplicity are two basic educational ingredients to navigate today’s complexity, especially the web, where it is necessary not to give in to the temptation to sow anger and hatred”,

is the Pope’s first recommendation. “Prudence, lived with simplicity of heart, is that virtue that helps to see far, that leads us to act with foresight, with forward thinking”, the Pope explained: “And there are no courses for having prudence; one cannot study to have prudence. Prudence is exercised, it is lived, it is an attitude that is born from the heart and mind together, and then it is developed. Prudence, lived with simplicity of heart, always helps us to be have foresight.”

“The Catholic weeklies bring this wise outlook into the homes of the people”

the Pope’s homage: “They do not only provide the news of the moment, which is easily burnt, but also convey a humane vision, a Christian vision aimed at forming minds and hearts, so that they do not allow themselves to be deformed by words that are shouted or by news items that, passing with morbid curiosity from black to pink, neglect the clarity of white.” “I encourage you

to promote an ‘ecology of communication’ in territories, schools and families, among yourselves.”

Francis remarked: “You have a vocation to remind us, in a simple and understandable style, that

beyond the news and scoops, there are always feelings, stories, flesh and blood people to be respected as if they were your own relatives.”

In the field of communication, “it is fundamental to promote tools that protect everyone, especially the weakest, minors, the elderly and people with disabilities, and to protect them from the intrusiveness of the digital world and the seductions of provocative and polemic communication.” “Digital communication wants to bring everything out into the open; people’s lives are combed over, laid bare and bandied about, often anonymously”, the denunciation enshrined in “Fratelli Tutti”, which the Pope mentioned during the audience: “Respect for others disintegrates, and even as we dismiss, ignore or keep others distant, we can shamelessly peer into every detail of their lives.”

“Your entities, engaged in this sector, can enable the growth of a protected media citizenship; they can support safeguards to freedom of information and promote civic awareness, so that rights and duties are recognized in this field too”, Francis’ thesis, for whom “it is a question of communicative democracy.” “And please, do this fearlessly, like David against Goliath”, the Pope’s encouragement: “Do not just play defensively but, remaining “small inside”, think big, because you are called to a great task: to protect, through words and images, the dignity of people, especially the dignity of the small and the poor, God’s favourites.”

“Fidelity to the Gospel presupposes the capacity to risk for goodness. And to go against the grain: to speak about fraternity in an individualistic world; about peace in a world at war; about attention to the poor in an intolerant and indifferent world”,

the final recommendation for the world of communication.  “But this can be done credibly only if you first bear witness to what you say”, the Pope said recalling the Blessed Carlo Acutis, who “was well aware that the whole apparatus of communications, advertising and social networking can be used to lull us, to make us addicted to consumerism and buying the latest thing on the market, obsessed with our free time, caught up in negativity. But he knew how to use the new communications technology to transmit the Gospel, to communicate values and beauty.”

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